Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
NON SOLO CONTESTAZIONI LEGALI, MA ANCHE OSTACOLI TECNICI
“L’obiettivo è aprire i cantieri, dopo 52 anni di parole, nell’estate dell’anno del Signore
2024″. Lo diceva Matteo Salvini, leader della Lega e ministro delle Infrastrutture, a settembre del 2023, oltre un anno fa. Parlava del Ponte sullo Stretto di Messina, un progetto su cui ha puntato moltissimo dall’inizio del governo Meloni, rendendolo una delle ‘bandiere’ che può rivendicare come interamente sua.
Ora non solo l’estate del 2024 è passata, ma l’anno volge al termine. E i cantieri, come è noto, non sono vicini alla partenza. Entro la fine di dicembre avrebbe dovuto arrivare almeno il via libera del Cipess al progetto definitivo, ma anche questo slitterà all’inizio dell’anno prossimo.
Da “partiamo in estate” a “cantieri aperti entro l’anno”, poi il flop
Già nel corso di quest’anno, le promesse di Salvini avevano subito uno slittamento ‘silenzioso’. Da “l’estate del 2024”, scadenza rivendicata fino ad aprile, l’obiettivo era diventato aprire i cantieri “entro l’anno”. D’altra parte, dopo le oltre 200 raccomandazioni tecniche della commissione Via (Valutazione di impatto ambientale) arrivate proprio ad aprile, la società Stretto di Messina a maggio aveva chiesto una proroga di quattro mesi di tempo per far avere le risposte necessarie.
Poche settimane dopo, parlando a Messina, il ministro aveva detto: “L’obiettivo dopo 50 anni di chiacchiere e di promesse non mantenute con i siciliani, i calabresi e gli italiani è quello di aprire i cantieri del Ponte sullo Stretto entro l’anno”. L’obiettivo di partire in estate, di colpo, era sparito
A che punto sono i lavori e perché promettere di partire nel 2024 era impossibile
L’iter tecnico per il Ponte, mesi dopo, è ancora ben lontano dall’essere completato. A novembre la commissione Via ha fatto avere la sua approvazione. A inizio 2025 il Cipess (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo) darà l’ok al progetto definitivo. Poi si passerà al progetto esecutivo, che potrebbe a sua volta richiedere diversi mesi e dovrà tenere conto di tutte le raccomandazioni tecniche arrivate finora.
A giugno di quest’anno Valerio Mele, direttore dell’area tecnica della Stretto di Messina Spa, parlando al consiglio comunale di Messina aveva detto che dopo il via libera del Cipess ci sarebbero stati dieci mesi di tempo (da contratto) per realizzare il progetto esecutivo. Dunque, lo slittamento potrebbe andare fino a settembre-ottobre 2025. Infatti, pochi giorni fa sui social Salvini si è limitato a commentare che “l’obiettivo è, ad inizio anno, approvare al Cipess il progetto definitivo e poi partire con il cantiere”.
Questi, va chiarito, non sono passaggi su cui ci sia stato un ostruzionismo da parte ad esempio delle opposizioni o di associazioni opposte al progetto, di cui spesso il leader della Lega si è lamentato. Si tratta semplicemente delle procedure tecniche che ogni grande opera deve affrontare, e che erano già note prima che i lavori sulla progettazione riprendessero – in alcuni casi resi più lenti da errori pratici di chi l’ha curata. Per questo, al di là delle dichiarazioni del ministro, era chiaro da mesi che la tabella di marcia proposta fosse del tutto impossibile da rispettare. Cosa che però non ha impedito di continuare a prometterla
Le complicazioni legali che potrebbero allungare ancora i tempi
E dire che un successo, almeno simbolico, da rivendicare avrebbe potuto arrivare all’ultimo. Il cronoprogramma della società Stretto di Messina, infatti, prevedeva che il 20 dicembre sarebbe avvenuta la posa della “prima pietra”. Si sarebbe trattato solamente dell’inizio dell’occupazione temporanea dei terreni, prima che partano gli espropri delle abitazioni e l’acquisizione delle aree destinate ai lavori. Insomma, un intervento più che preliminare, rispetto alla costruzione vera e propria del Ponte. Ma sarebbe stato comunque un segnale ‘concreto’ che Salvini avrebbe potuto mettere in mostra. Invece, la procedura è bloccata.
Infatti, 104 abitanti della zona hanno presentato un’azione inibitoria al Tribunale delle Imprese di Roma. La richiesta è che si fermino tutte le attività relative al Ponte sullo Stretto, ancora prima della fase esecutiva del progetto. Un’udienza decisiva per questo procedimento è fissata per il 9 giugno 2025. Fino a quel momento, però, il consorzio Eurolink (guidato dal gruppo Webuild, che lavora al progetto del Ponte) non può firmare nuovi atti che comportino oneri finanziari. Il rischio, insomma, è che lo sviluppo venga sospeso fino a quanto la questione legale non sarà chiarita.
Nel frattempo, il comune di Villa San Giovanni e la città metropolitana di Reggio Calabria hanno presentato ricorso al Tar del Lazio contro il parere positivo della commissione Via sul progetto del Ponte. Non sono ancora arrivati sviluppi, ma anche da questo punto di vista potrebbero arrivare complicazioni per l’opera. Senza tenere conto degli esposti in Procura, questi sì arrivati dalle opposizioni, che riguardano altri aspetti dell’opera e che a loro volta potrebbero portare dei rallentamenti. Resta da vedere se Salvini continuerà a rimandare la scadenza promessa a parole e, facendo finta di nulla, inizierà a garantire che i lavori partiranno entro il 2025.
(da Fanpage)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
“QUESTA DESTRA RISCHIA DI PORTARE MODIFICHE IRREVERSIBILI ALLE ISTITUZIONI PERCHÉ ASSUME IL CARATTERE DI AGENTE DEL NUOVO ORDINE. STA INTACCANDO I POTERI DI CONTROLLO INTERNO E, QUANDO FINIRÀ, NON CI RESTITUIRÀ LA REPUBBLICA ITALIANA”
Alla fine di questo anno 2024, il ragionamento sulle attuali condizioni del paese deve fare, ci sembra, di un salto di qualità, deve abbandonare le letture ordinarie della dialettica politica, pena non riuscire a seguire il salto logico che è in corso nel dibattito politico italiano.
Il salto è una presa d’atto necessaria alla fine del secondo anno di governo della presidente del consiglio nonché presidente di Fratelli d’Italia: il melonismo non è un movimento politico, è la malattia di una società in decomposizione.
Questa valutazione grave, ne siamo consapevoli, cambia i termini del dibattito e, vedremo, anche del necessario atteggiamento delle opposizioni: perché tutto il sistema dei partiti politici e delle istituzioni nazionali e delle entità sovranazionali […] è incardinato sul fatto che in Italia è al governo un movimento politico, che ha un suo estremismo, ma anche una sua storia e una sua evoluzione, e che dunque ha la legittimità di appartenere a un sistema politico tradizionale e ordinato.
Aggiungiamo che da decenni il populismo gonfia partiti diversi, dal Movimento Cinque stelle alla Lega a – oggi – Fratelli d’Italia. Dunque siamo tentati di considerare ormai questo fenomeno come fisiologico §Ma non è così: questa parte in Italia oggi assume proporzioni enormi perché sommando la destra di governo agli astenuti raggiunge e supera il 50 per cento del paese. Non si tratta di un partito che si è gonfiato e dunque si sgonfierà, lasciando il posto al prossimo movimento populista.
II ragionamento parte da lontano. Non aver affrontato trent’anni fa la crisi degli stati democratici in Occidente, ha prodotto la decomposizione della capacità di guida delle forze politiche dell’epoca. Questo, principalmente, ha portato alla nascita dei populismi. Ma ora il populismo senza controllo ha prodotto la malattia.
Il melonismo nasce da un salto populistico di Fratelli d’Italia, ma oggi non è un movimento populista, è piuttosto la malattia di un movimento populista che a suo tempo non è stato sufficientemente valutato e combattuto.
La non coscienza di questo processo è un errore e una rimozione. In Italia nasce da un clima generale di decomposizione del sistema politico ordinato. Un clima che in Italia oggi è aggravato dal fatto che a essere intaccate sono le istituzioni centrali di governo.
Mentre in altri paesi europei le destre populiste non sono al potere, per ora, in Italia invece dalla posizione di governo e di potere, questa destra rischia di portare modifiche irreversibili alle istituzioni perché assume il carattere di agente del nuovo ordine.
C’è una responsabilità delle opposizioni. Ed è lo sfuggire alla responsabilità di un coraggioso atto di denuncia di quello che si va diffondendo all’interno dello Stato. Inutile convincersi che si tratti di una forza, sebbene della destra radicale, appartenente alla dialettica politica ordinaria. Sfuggire a questa responsabilità è rinviare una resa dei conti: che si sta realizzando per conto suo.
Le stesse esortazioni alla Costituzione rischiano di essere fuori tempo quando ormai la Costituzione di fatto è stata intaccata da questa malattia.
La politica nazionale non è più in condizioni di autosanarsi. Serve un appello sul piano sovranazionale. Anche le istituzioni europee non se la passano bene, ma la differenza rispetto all’Italia è che in altri paesi le destre populiste non sono alla guida dei governi. In Italia siamo, al momento, il modello alla rovescia delle democrazie occidentali. E questo ci trasforma, anziché nel governo leader di un bilanciamento del trumpismo, nel suo apripista.
Anche perché, al netto delle diverse dimensioni, fra il melonismo e il trumpismo ci sono molte similitudini. Entrambi non sono un movimento politico, ma malattie delle democrazie già indebolite dal populismo
L’opposizione non si illuda di imboccare la semplice via della critica, né di blandire la premier chiedendole di mediare al suo interno: il morbo per sua natura non tratta, la guarigione non arriverà con un miracoloso e pietoso intervento di Padre Pio.
Fratelli d’Italia non ha imboccato la via sbagliata della demolizione della Costituzione: ha imboccato la via per cui è nato. Il tema non è chi è il segretario del Pd, o la segretaria, né e se è più o meno efficace per una fase ordinaria della vita democratica del paese: la verità è che l’opposizione più importante, più organizzata, più presente nel territorio, quella che ha una classe dirigente diffusa nel paese, continua a non vedere il salto di qualità in corso.
Il melonismo sta intaccando i poteri di controllo interno delle democrazie, dall’informazione ai bilanciamenti costituzionali. Tutto si affievolisce. Quando finirà, non ci restituirà la Repubblica italiana, non potrebbe farlo: se riuscisse nell’intento, l’intento è quello demolirla.
(da agenzie)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
ELON MUSK E’ UN TEST PER L’UMANITA’: POSSONO I SOLDI E LA TECNOLOGIA VINCERE SENZA MEZZO GRAMMO DI CULTURA?
Le fesserie di Elon Musk sulla Germania (ignora che gli Afd sono contro l’auto
elettrica, proto-tecnologici e reazionari come quasi tutti i fascisti; ignora che il presidente della Repubblica non partecipa alle elezioni, e dunque non può perderle come lui gli augura; non sa scrivere correttamente il nome dei quotidiani tedeschi cui fa riferimento), le fesserie di Musk sulla Germania, dicevo, saranno anche fesserie di estrema destra; ma restano prima di tutto fesserie. Cose di poco conto, insulsaggini da tifoso, opinioni non istruite e di zero autorevolezza.
Fanno notizia perché l’autore è l’uomo più ricco del mondo. E certo, che l’uomo più ricco del mondo non sia in grado di pagarsi un’istruzione dignitosa, o perlomeno un correttore di bozze, è cosa che fa riflettere, e non depone a favore della ricchezza.
Però le scempiaggini di Musk sulla Germania (domani sulla Francia, sulla Cina, sull’Italia, su tutto ciò che non conosce) rientrano in un filone antico, quello dell’americano che non sa niente del mondo però ha tutte le intenzioni di sottometterlo, molto spesso con esiti disastrosi, perché fare la fatica di conoscere chi vuoi dominare sarebbe parte non piccola del dominio stesso.
Un John Wayne che al posto della Colt ha le astronavi, e soldi quanti ne bastano a corrompere mezza umanità, indubbiamente preoccupa. Ma rimane John Wayne, un uomo semplice, un maschio primordiale, che nella sua versione proba è in grado di sgominare i cattivi, ma nella sua versione narcisa, e forse paranoica, può fare cose allucinanti.
Elon Musk non lo sa, ma è un test per l’umanità: possono i soldi e la tecnologia vincere a mani basse senza nemmeno mezzo grammo di cultura, e zero umanesimo? L’intelligenza è una serie di numeri o un sistema più sofisticato?
(da La Repubblica)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
L’AVVOCATO DELL’IRANIANO HA DEPOSITATO L’ISTANZA DI ARRESTI DOMICILIARI, UNA MISURA DETENTIVA PIÙ BLANDA SAREBBE LETTA COME UN’APERTURA DA TEHERAN… GLI AMERICANI, CHE LO ACCUSANO DI ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE, LO VOGLIONO IN CELLA: TEMONO POSSA FUGGIRE
E’ nella doppia partita giudiziaria in corso in Iran e in Italia (dove l’ingegnere Mohammad Abedini-Najafabani è detenuto in attesa della decisione sull’estradizione richiesta dagli Stati Uniti) che si gioca la possibilità di liberare Cecilia Sala.
La comunicazione ufficiale dell’accusa, nei suoi confronti, di «violazione delle leggi della Repubblica islamica dell’Iran», fatta ieri dal ministero della Cultura e della Guida islamica, può avere un doppio significato. Da un lato è la conferma che contro la giornalista non c’è niente di concreto; nessun riferimento a comportamenti trasgressivi di una norma, quando e in che modo.
E il fatto che a quasi due settimane dall’arresto manchi ancora una contestazione specifica dimostrerebbe una volta di più che il fermo della reporter è stato una ritorsione all’arresto in Italia di Abedini, per farne «moneta di scambio».
Ipotesi ribadita persino dall’orario, oltre che dal giorno, in cui le forze di sicurezza iraniane hanno prelevato Sala: le 12.30 circa di giovedì 19 dicembre, un’ora dopo la conclusione dell’udienza davanti alla Corte d’appello di Milano in cui il detenuto iraniano ha negato il consenso all’estradizione, avviando una procedura legale (con lui in prigione) destinata a durare diverse settimane, se non mesi.
Dall’altro lato, però, l’assenza di accuse circostanziate lascia aperta la strada per la soluzione immediata del caso: l’espulsione dal Paese, che le autorità locali potrebbero decidere prima di avviare un procedimento penale incardinato su fatti concreti. È come se a Teheran si tenessero le mani libere per rispondere in breve tempo ai segnali che dovessero giungere da Milano o da Roma a proposito di Abedini, l’oggetto dell’altra partita giudiziario-diplomatica in corso che tuttavia coinvolge non solo Italia e Iran, ma pure gli Stati Uniti, stretto alleato di un Paese e nemico giurato dell’altro. È il fattore che rende tutto più complicato.
Ieri l’avvocato difensore dell’ingegnere iraniano ha depositato l’annunciata istanza di arresti domiciliari in attesa del verdetto sull’estradizione chiesta dagli Usa. È chiaro che l’eventuale concessione di una misura detentiva più blanda sarebbe letta come un segnale di apertura nei confronti della Repubblica islamica, molto interessata alla sorte del proprio cittadino esperto di droni e sistemi militari.
Gli Stati Uniti lo accusano di associazione per delinquere, violazione delle leggi sull’esportazione di armi (i droni prodotti dalla società di Abedini, secondo gli americani, sarebbero stati utilizzati anche dai russi nella guerra all’Ucraina) e supporto ai pasdaran del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, che gli Usa considerano un’organizzazione terroristica.
Anche per questo il tribunale del Massachusetts ha segnalato ai giudici italiani, tramite il ministero della Giustizia, il grave pericolo di fuga dell’estradando e la necessità di tenerlo in carcere. I tempi della decisione su questa richiesta preliminare potrebbero essere accelerati se la Procura generale e il difensore di Abedini rinunciassero ai termini fissati dalla legge per le rispettive norme.
E l’inedita garanzia a non evadere comunicata dall’avvocato su assicurazione fornita della rappresentanza diplomatica iraniana in Italia potrebbe aiutare i giudici a dire «sì», nonostante le pressioni statunitensi e il precedente della fuga dai domiciliari del detenuto russo Arthem Uss, anche lui reclamato dagli Usa.
Se invece la Corte d’appello dovesse negare la misura attenuata, potrebbe entrare in gioco il potere politico, attraverso la facoltà del ministro della Giustizia di revocare gli arresti a fini estradizionali. Per giungere a questa decisione il Guardasigilli Carlo Nordio potrebbe ricorrere a valutazioni tecniche sulla configurabilità delle accuse mosse a Abedini in base alle norme statunitensi, che non troverebbero riscontro nelle leggi italiane; un’ipotesi risolutiva per l’Iran ma potenzialmente dirompente sul piano dei rapporti tra Italia e Usa. Che però aiuterebbe Cecilia Sala a lasciare la prigione di Evin.
(da Corriere della Sera)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
PROPONE ENCOMI PER GLI AGENTI DELLA PENITENZIARIA A GIUDIZIO PER TORTURA, NON RICORDA CHI SPARO’ AL SUO VEGLIONE UN ANNO FA, E’ IMPUTATO PER AVER RIVELATO SEGRETI E NON GRADISCE CE GLI ARRESTATI RESPIRINO
Andrea Delmastro delle Vedove, 48 anni, detto Satanello, ma anche Satanasso,
sottosegretario alla Giustizia, con delega al disastro delle carceri, porta la frangetta di sguincio sulla fronte come certi imbianchini a Monaco di Baviera, negli Anni Venti del secolo scorso. Il carattere litigioso ne consegue: persino si azzuffò con una gamba rotta, per dire l’indole.
Gli piace esibire un piglio militaresco che lo colloca sempre vicinissimo alle guardie penitenziarie e sempre lontanissimo dai detenuti che pure dovrebbero essere di sua istituzionale competenza, visto che sono in custodia dello Stato, entità che incredibilmente rappresenta.
Lui proprio non li vede, non li conta, non li considera, salvo provare per loro “una intima gioia”, ma solo quando stanno per soffocare. Le sue visite alle carceri si fermano sempre al di qua delle sbarre: “No, non mi inginocchio alla mecca dei detenuti”.
Per mecca intende le celle fatiscenti, i letti a castello, il bugliolo e gli 89 suicidi di quest’anno. Un paio di anni fa è arrivato al punto di chiedere in Parlamento l’encomio solenne per il centinaio di agenti di custodia indagati per avere massacrato di botte altrettanti detenuti nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere. E lo ha fatto quando l’inchiesta e le immagini registrate durante quel pestaggio erano diventate scandalo pubblico e nazionale, cioè una vergogna per tutti, tranne che per lui.
Le sue radici sono l’antefatto. L’antefatto è la Fiamma. Anche lui viene dalla palestra muscolare del Fronte della Gioventù di Era missina, come Ignazio La Russa, Fabio Rampelli, Francesco Lollobrigida, Tommaso Foti, tutti di stretta osservanza meloniana, tutti affetti dalle identiche frustrazioni patite durante le rispettive giovinezze trascorse nella penombra degli Underdog, dunque aggressivi a prescindere.
A brevissimo Delmastro festeggerà, speriamo per lui armato di bombette alla crema, il primo anniversario della piccola sparatoria dello scorso anno, un ferito a saldo, accaduta alla combriccola di camerati riuniti intorno a lui a illuminare la notte del 31 dicembre 2024 nella Pro Loco di Rosazza, paesello di alta valle e di alta massoneria, nella provincia di Biella, terra natale di mazziniani dediti ai misteri dell’esoterismo.
Misteriosa resta ancora quella notte. Protagonista l’amico fraterno di Delmastro, un tale deputato Emanuele Pozzolo intelligente al punto da portarsi in tasca la sua pistoletta North American Arms LR22 che al primo sguardo sembra un giocattolo, ma in verità spara proiettili calibro 22, come quello partito intorno all’una di notte e andato a conficcarsi nella coscia sinistra di Luca Campana, 31 anni, elettricista, a tre centimetri dalla femorale e dunque a tre centimetri dall’omicidio.
Al colpo d’occhio stavano tutti intorno allo stesso tavolo. Ma al colpo di pistola un fuggi fuggi di versioni li ha dispersi. La vittima accusa Pozzolo: è lui che mi ha sparato. Pozzolo nega: ho fatto vedere la pistola, la pistola è caduta, ma io non ho sparato. Pablito Morello, il caposcorta di Delmastro, dice anch’io ho visto la pistola, ma non l’ho toccata. Il figlio Maverick più o meno lo stesso. Gli altri hanno solo sentito il botto, ma visto niente. E Delmastro? Lui meno di tutti: “Ero uscito a mettere gli avanzi della cena in macchina”, quando si dice la fortuna. Il botto lo ha sentito, ma solo in lontananza: “Credevo fosse un fuoco d’artificio”L’artificio migliore è che dopo tanti mesi di inchiesta, 130 pagine di interrogatori, avvocati, interrogazioni parlamentari, inchieste giornalistiche, se ne sa quanto il primo giorno. E dire che parliamo non di furbastri qualunque, ma di patrioti, tutti campioni di Legge, Ordine, Disciplina, Onore, almeno fino a quando non è roba loro il giallo da sbrogliare, la vittima e le seccature a seguire. Tant’è che alla vigilia dell’udienza preliminare, tre mesi fa, la vittima ha fatto pace con la sorte, ha ritirato la querela, incassato 25 mila euro di risarcimento da Pozzolo, niente processo, nessuna verità.
E Delmastro? Archiviato lo sparo, ben altro labirinto di seccante giustizia borghese lo assedia: l’accusa di avere rivelato notizie coperte da segreto al suo coinquilino e camerata Giovanni Donzelli, Minnie per gli amici, mostrandogli la trascrizione di alcuni colloqui sul 41 bis dell’anarchico Alfredo Cospito con alcuni mafiosi, segretamente registrati il 12 gennaio 2023, durante l’ora d’aria nel carcere di Sassari. Minnie se li è rivenduti in Parlamento, come prova di una alleanza “tra terroristi e mafia per l’abolizione del carcere duro” ma specialmente per chiedere all’Aula sorda e grigia se la sinistra (strillando: “La sinistraaa!”) “sta con i terroristi e la mafia o con lo Stato?” Apriti cielo. E apriti pure un doppio procedimento giudiziario, visto che Delmastro non doveva rivelare un bel nulla di quelle intercettazioni e il suo Donzelli, che fa pure parte del Copasir, l’organismo di controllo sui Servizi segreti, non doveva rivendersi un bel nulla. Due procedimenti tutt’ora in corso. Ma per il nostro Delmastro che volentieri si fa fotografare mentre fuma accanto al cartello del divieto (carcere di Brindisi) o mentre partecipa a una grigliata nel cortile del carcere di Biella, con agenti indagati per tortura, gli inciampi giudiziari fanno curriculum.
Le radici, dicevamo. Le sue sbocciano l’11 luglio del 1976 a Gattinara, provincia di Vercelli, da quelle del padre Sandro, camerata anche lui, deputato negli Anni Novanta. Studia a Biella e a Torino. Laurea in Giurisprudenza, carriera da avvocato penalista, i primi passi politici nei consigli comunali e provinciali di Biella. Le cronache lo segnalano per un rogo “di libri di sinistra” davanti al liceo classico di Biella, qualche zuffa, e un convegno per terrapiattisti: “Mussolini uomo di pace”. Fulminato dall’ascesa di Giorgia Meloni, entra a Montecitorio nel 2018: “Porto in parlamento l’anima profonda del popolo italiano”. E insieme una ginnastica politica che procede a spallate: contro l’infingarda sinistra, contro il “correntismo cancerogeno” della magistratura, contro il reato di tortura “che disarma la polizia penitenziaria”. È un cattivista a tutto tondo, con il fanatismo del “cuore puro” e “dell’alto ideale”, specialmente quando dice: “Sono solo gli idealisti che cambieranno il mondo”. Lui e la frangetta che lo precede, solo in marcia per dimostrarlo.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
LE CORTI “VERIFICANO LA VALUTAZIONE MINISTERIALE” E DECIDONO CASO PER CASO
La confusione sotto il cielo rimane massima, fino a quando la Corte di giustizia dell’Unione europea non chiuderà una volta per tutte la corretta interpretazione delle norme e delle sentenze europee da applicare ai trattenimenti nei Centri per i rimpatri in Albania.
Eppure, al netto dei cavilli giuridici, tutte le decisioni della Cassazione vanno nella stessa direzione e così, da ultimo, anche l’ordinanza pubblicata ieri secondo cui, certamente, la valutazione dei paesi sicuri «spetta, in generale, soltanto al ministro degli Affari esteri e agli altri ministri che intervengono in sede di concerto» e il giudice «non si sostituisce nella valutazione».
Tuttavia, sottolinea la Suprema corte, il giudice «è chiamato a riscontrare la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo paese di origine come sicuro».
Addirittura, si legge, «egli è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia varcato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul paese di origine del richiedente)».
Questa, dunque, è l’interpretazione che la Cassazione italiana offre, secondo il principio di leale collaborazione, ai giudici europei che dovranno decidere.
In estrema sintesi, la linea della Cassazione rimane quella di ritenere perfettamente legittimo che il giudice italiano sindachi in ogni caso concreto la nozione di paese sicuro, che è un concetto generale, valutando se sia corretto o meno.
La sua decisione è, nelle conclusioni, in linea con la pronuncia del 19 dicembre, che aveva stabilito come il potere di accertamento dei giudici non possa essere limitato al fatto che uno stato sia inserito nell’elenco dei paesi sicuri ma, siccome tale inserimento «è guidato da requisiti e da criteri dettati dal legislatore europeo e recepiti dalla normativa nazionale», il giudice deve «verificare la sussistenza in concreto dei criteri, normativamente predefiniti, che consentono di qualificare un paese come sicuro».
In attesa che la Corte di giustizia dell’Ue si esprima – la decisione è attesa per il 25 febbraio, le motivazioni per la primavera – la linea interpretativa dei giudici, sia di merito sia di legittimità, va in direzione non favorevole alla tesi del governo, secondo cui il giudice, per convalidare il trattenimento in Albania, deve farsi bastare il fatto che il paese di provenienza del migrante sia inserito nella lista dei paesi sicuri stilata dal ministero degli Esteri (ora con valore di legge, dopo il decreto legge dei mesi scorsi).
Ferma questa sintesi, il dato politico continua a mostrare la volontà dell’esecutivo di fare propri alcuni passaggi delle sentenze di Cassazione per sostenere la linea dell’esecutivo sulla utilizzabilità dei Cpr in Albania, vuoti da mesi e che avranno un costo di 653 milioni di euro in 5 anni.
La propaganda
Palazzo Chigi, infatti, ha da settimane mobilitato tutte le forze per fare contro-informazione. Già nella peculiare sede delle comunicazioni prima del Consiglio Ue, la premier aveva pubblicamente invitato i giudici europei a non avallare le «sentenze italiane dal sapore ideologico» che, se sposate dalla Corte di giustizia Ue, «rischierebbero di compromettere i rimpatri da tutti gli stati membri: una prospettiva preoccupante e inaccettabile che occorre prevenire».
Sul fronte interno, invece, Meloni ha scelto di leggere – e di rilanciare – in maniera solo parziale le decisioni della Cassazione. Durante il viaggio istituzionale in Finlandia ha parlato dei centri in Albania e detto che «mi pare che la Cassazione abbia dato ragione al governo, è diritto dei governi stabilire quali siano i paesi sicuri» mentre i giudici possono «entrare nel singolo caso, non disapplicare in toto».
Lo stesso è accaduto ieri con l’ultima ordinanza. Un fuoco di fila di dichiarazioni da parte di esponenti del centrodestra hanno avuto come ritornello che «la Cassazione ha dato ragione al governo» e addirittura, secondo il capogruppo di FdI, Galeazzo Bignami, «mette fine alla indecorosa campagna di mistificazione».
Il sottosegretario Andrea Delmastro ha addirittura sostenuto che «la Cassazione pone una pietra tombale sulle speranze immigrazioniste della sinistra italiana: la lista della definizione dei Paesi sicuri spetta al governo, così come le politiche migratorie».
In realtà, l’ordinanza della Cassazione è interlocutoria e rinvia la sua decisione a dopo la sentenza Ue, riconfermando il primato europeo e dunque non dando ragione a nessuno nello specifico caso.
Inoltre, applica le norme precedenti al decreto legge sui paesi sicuri varato dal governo, perché il caso trattato è precedente. Infine, le conclusioni a cui la Suprema corte arriva confermano il diritto dei giudici di valutare, motivando la scelta, se un paese sia sicuro o meno nel caso concreto in esame.
L’unico dettaglio davvero nuovo contenuto nella decisione, invece, riguarda l’interpretazione alla pronuncia della Corte di giustizia europea del 4 ottobre scorso. Anche su questo il giudizio finale è della Corte di giustizia ma, secondo la Suprema corte, la sentenza «si occupa esclusivamente delle eccezioni territoriali, chiarendo che l’esistenza di aree interne di conflitto e violenza indiscriminata è incompatibile con la designazione di un paese terzo come sicuro», mentre «le eccezioni per categorie di persone non hanno formato specifico oggetto della decisione».
La precedente decisione del tribunale di Roma, invece, aveva interpretato la sentenza Ue nel senso di ritenere che la qualifica di “sicuro” dovesse essere attribuita alla «situazione di ordine generale, concernente intere categorie di cittadini o zone di quel dato paese».
Anche alla luce di questa discrepanza, tuttavia, le conclusioni rimangono le stesse: la discrezionalità del giudice permane anche davanti alla valutazione generale dei paesi sicuri da parte del ministero.
(da editorialedomani.it)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
IL GOVERNO HA ABOLITO ANCHE LA TRASPARENZA… IL MINISTRO NON VUOLE CHE VENGANO PUBBLICATI
Il Reddito di cittadinanza (Rdc), come argomentato a lungo sul Foglio, aveva tanti
difetti e necessitava una riforma che il governo Draghi non è riuscito a fare (per opposizione del M5s e opportunismo del Pd). Ma aveva un aspetto positivo: ogni mese l’Inps, attraverso il suo Osservatorio sul Rdc, pubblicava i dati sul numero dei beneficiari (nuclei familiari e persone), la loro distribuzione territoriale, la loro cittadinanza, l’entità dell’importo medio, etc.
La riforma voluta dal governo Meloni, che dal 1° gennaio 2024 ha sostituito il Rdc con l’Assegno di inclusione (Adi) per i “non occupabili” e il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) per gli “occupabili”, ha eliminato anche questo importante elemento del Rdc: la trasparenza. La ministra del Lavoro Marina Calderone non vuole diffondere i numeri dell’Adi e del Sfl. Gli ultimi dati pubblici, diffusi dal governo attraverso l’Inps, risalgono a giugno e sono quelli del report semestrale che indicava 697 mila nuclei familiari percettori di Adi (per quasi 1,7 milioni di persone coinvolte) e 96 mila individui beneficiari di Sfl. Da allora, ormai si è chiuso anche il secondo semestre del 2024, non è stato possibile sapere più nulla e non se ne capisce bene la ragione.
L’ipotesi che non ci sia la disponibilità dei dati è certamente da escludere. L’Adi si basa su dati amministrativi, che le istituzioni competenti come l’Inps gestiscono quotidianamente, e che possono quindi pubblicare quasi in tempo reale, certamente su base mensile, a limite con un ritardo temporale di un mese (a febbraio quelli di gennaio, a marzo quelli di febbraio, etc.). D’altronde era esattamente ciò che accadeva con il Rdc, che aveva criteri d’accesso diversi, ma i cui dati venivano raccolti sulla base della medesima procedura amministrativa.
La controprova che questi dati esistono (se mani ne servisse una) è data dalla legge di Bilancio. Il governo, con un emendamento alla manovra, ha modificato i criteri di accesso all’Adi e al Sfl alzando il tetto Isee da 9.360 euro (la soglia indicata nel 2019 per il Rdc) a 10.140 euro, e aumentando l’importo massimo per l’Adi da 6.000 a 6.500 euro all’anno (da moltiplicare per la scala di equivalenza) e per il Sfl da 350 a 500 euro al mese. Queste modifiche hanno ampliato la platea dei beneficiari di circa 100 mila nuclei familiari per un costo di circa 600 milioni, derivanti dai risparmi del fondo già stanziato per le misure.
Per stimare i costi di questa riforma, è evidente che il ministero e la Rgs hanno dovuto fare delle valutazioni sui dati più recenti di adesione e non su quelli di giugno. Nella relazione tecnica del provvedimento, infatti, c’è scritto che le adesioni per l’Adi previste nella norma originaria dovevano essere nel 2025 pari a circa 760 mila mentre nella revisione “sulla base delle evidenze empiriche” saranno 660 mila. Pertanto, con la modifica, saliranno a circa 750 mila. Per il Sfl si prevedevano nel 2025 284 mila adesioni, ne sono 85 mila e con le modifiche saliranno a 110 mila.
Il paradosso è quindi che sappiamo quanti saranno i percettori di Adi nel 2025, ma non sappiamo quanti ne sono ora. E non lo sappiamo perché il governo non vuole che si sappia. È infatti difficile ipotizzare che sia una scelta dell’Inps, dato che il nuovo presidente Gabriele Fava ha parlato spesso dell’importanza della trasparenza e, in effetti, il rapporto annuale dell’Inps pubblicato a settembre è ricco di dati e analisi, inclusa una sui primi mesi dell’Adi.
È chiaro che l’indicazione di non pubblicare i dati arriva dal ministero del Lavoro, che probabilmente ritiene sconveniente che l’opinione pubblica e i partiti siano informati sull’andamento dell’Adi, probabilmente per il numero di adesioni inferiore alle previsioni iniziali. Un problema chiaro e noto per il Sfl, ma che evidentemente riguarda anche l’Adi. Questo, in realtà, potrebbe derivare da diversi fattori: il miglioramento del mercato del lavoro, l’instabilità del primo anno della nuova policy o l’inflazione che ha spinto oltre soglia molte famiglie. Le interpretazioni possono essere varie, ma per poter fare un’analisi è necessario che vengano resi pubblici i dati. E non c’è alcuna ragione per tenerli nascosti se non quella di voler silenziare il dibattito pubblico e politico. Se è questa la ragione del ministro Calderone è una pessima ragione.
(da agenzie)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
“HA ATTACCATO ME INVECE DI INVITARE LA MAGGIORANZA A FARE SILENZIO”
«Un presidente fa parlare l’opposizione, un camerata la zittisce». Matteo Renzi non è pentito di aver criticato apertamente il presidente del Senato Ignazio La Russa durante il suo intervento in Aula prima dell’approvazione della legge di bilancio.
In quell’occasione, il 28 dicembre scorso, il leader di Italia Viva ha definito la seconda carica dello Stato “camerata”, il termine usato dai fascisti per definire i propri militanti. «Quello che ha detto mi è scivolato addosso», ha minimizzato due giorni più tardi La Russa al Corriere.
Ed è su questo che il senatore toscano torna ad attaccarlo, ancora sulle pagine del quotidiano milanese. «La Russa doveva richiamare la maggioranza che faceva confusione e invece ha attaccato me. Dopo di che il problema è che io gli do del camerata e lui lo prende come un complimento», dice Renzi, «il vittimismo ipocrita di chi cerca di trovare degli alibi perché sa di aver sbagliato è insopportabile. Quando il presidente ha affermato che in Aula c’era silenzio gli ho suggerito di fare un controllo acustico. Peraltro, sei mesi fa, l’ho fatto pure io che sono più giovane di lui».
Anzi, gli augura «lunga vita», giocando ancora una volta sulle simpatie nere del parlamentare di Fratelli d’Italia: «Umanamente gli auguro il meglio: che viva i prossimi vent’anni con grande energia. Anche se con La Russa bisogna stare attenti a parlare di Ventennio, c’è il rischio che si emozioni».
Renzi e lo scontro con La Russa: «Non è super partes»
Renzi era intervenuto in aula anche per criticare la norma contenuta in manovra contro le consulenze di paesi stranieri a membri del governo. Una norma, sottolineava il senatore toscano, ad personam rivolta contro di lui. Ma, sottolinea, non era quello l’oggetto del contendere in quel momento in Aula. «Non è stata la norma ad personam l’elemento dello scontro. Peraltro proprio La Russa, ad Atreju, aveva detto che quella legge era sbagliata», è convinto Renzi, «lui non ha gradito che io ironizzassi sull’assenza di Giorgia Meloni, che va in Lapponia a incontrare Babbo Natale, ma fugge dal Senato per la legge di Bilancio. Che sta facendo di così importante la premier per scappare dai suoi obblighi istituzionali?». La critica poi a La Russa diventa fortemente politica: l’ex premier contesta l’imparzialità e il rispetto degli obblighi istituzionali del presidente del Senato. «Aveva giurato che sarebbe stato il presidente di tutti, si è rivelato un bugiardo, peccato», ha aggiunto al Corriere, Senza contare che prova campagne acquisti di senatori per la maggioranza. Un esempio? Dafne Musolino, senatrice di Italia Viva, che però è donna tutta d’un pezzo e ha subito denunciato le avances politiche ricevute».
(da agenzie)
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Dicembre 31st, 2024 Riccardo Fucile
“PER I PAZIENTI IN TERAPIA, PUO’ ESSERE UN’INGIUSTA CONDANNA”
Il nuovo Codice della Strada non perdona. Mettersi alla guida da lucidi, senza
presentare alcuna alterazione psico-fisica ma avendo fumato una canna anche due giorni prima del viaggio in auto, rientra ufficialmente nei comportamenti soggetti a sanzione. Sono le nuove regole decise dal ministero dell’Interno per una maggiore sicurezza stradale: entrate in vigore dal 14 dicembre 2024, oltre a occuparsi di guida in stato di ebrezza e sotto sostanze stupefacenti, prendono nel mirino il consumo di psicotropi come la cannabis. Il sistema sanzionatorio è diventato di fatto più punitivo, con una multa «dai 1.500 ai 6.000 euro e l’arresto dai sei mesi ad un anno», come spiega l’articolo 187 del Codice. Quando il reato viene accertato poi il regolamento prevede «sanziona amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni». Un aggiornamento che continua a creare non poco dibattito e malcontento: nelle ultime ore la diffida al governo è arrivata dai migliaia di pazienti in cura con la cannabis, utilizzata da chi combatte con la sclerosi multipla o segue terapie oncologiche, soggetti che convivono con dolori cronici, insonnia, gravi problemi motori e che ora temono anche di non poter più guidare. Chi ne fa uso ludico invece cerca di capire quale fondamento scientifico possa giustificare un inasprimento senza appello.
A rispondere alle domande sul tema il professor Diego Fornasari, Direttore della scuola di Specializzazione in Farmacologia e Tossicologia Clinica dell’Università Statale di Milano e presidente dell’Associazione italiana terapia del dolore.
Professore per riuscire a rispondere sulla questione sicurezza stradale, partiamo dal principio: perché e in che modo il THC ha un effetto sul nostro cervello?
«Il THC contenuto nella cannabis agisce sul nostro sistema nervoso centrale perché siamo in possesso di un sistema cerebrale cosiddetto “endocannabinoide”, un insieme di recettori, molecole su cui tutti i neurotrasmetittori si legano e che regola alcune delle funzioni importanti del nostro cervello. Quando assumiamo THC andiamo ad interferire con il funzionamento di queste funzioni. In maniera appropriata se si usa come terapia farmacologica per il dolore, in un modo incontrollato se si usa a scopo ludico, provocando danni».
Quali sono i meccanismi alla base che legano il cervello all’utilizzo ludico del THC?
«La natura non si è fidata completamente di noi e ha ritenuto che affinché ripetessimo comportamenti importanti per la nostra sopravvivenza, ha associato a questi un sistema di gratificazione e piacere. Continuiamo a ripetere fisiologicamente l’atto del mangiare, del bere, del dormire, l’attività sessuale, perché stimolati nel nostro cosiddetto centro del rewarding o “centro della gratificazione” presente nella nostra struttura cerebrale. Tutte le sostanze per essere d’abuso devono stimolare il centro del rewarding, dagli oppiacei, all’alcol, alle droghe in generale. Con la differenza che rispetto a cibo e attività sessuale, queste producono una stimolazione brutale, colpendo il centro del piacere spesso modificandone la modalità di assorbimento e tracciando così la strada per una dipendenza. Se mangiando lo stesso identico tipo di cibo per giorni potremmo andare incontro a un senso di nausea e di rifiuto, nonostante le prime volte ci sia piaciuto molto, nel caso delle sostanze psicotrope questo non succederà. Da un punto di vista medico, ci troviamo spesso ad affrontare due lati opposti della stessa medaglia. Da un lato l’effetto farmacologico ad oggi salvifico per molte persone, dall’altro il rischio dipendenza da non sottovalutare mai soprattutto negli effetti».
Professore di che effetti parliamo?
«Il THC agisce sui cannabinoidi di tipo 1, quelli che nel nostro cervello per esempio coordinano l’attività motoria, sugli animali provocano assoluta catatonìa, che gestiscono la percezione del dolore, l’appetito. Rispetto a quelli di tipo 2, che regolano il nostro sistema cardiovascolare e immunitario, i CB1 hanno maggiori effetti psicotropi con un forte collegamento con il centro di gratificazione. Per questo motivo a preoccupare è più il THC, la sostanza che stimola i CB1, che il CBD, altra sostanza cannabinoide che però non ha effetti sul sistema nervoso centrale. Da qui anche la netta distinzione tra cannabis light che non contiene THC e quella che la contiene. Per effetti psicotropi intendiamo modifiche nella percezione della realtà con un grosso potere ansiolitico, interferenze sulla socialità, stimolazione del sonno e dell’addormentamento, fame accentuata. È scientificamente verificato inoltre che nell’utilizzo persistente di cannabinoidi si possono sviluppare sindromi psichiatriche. Quello che non sappiamo ancora è se la cannabis stana delle situazioni di psicosi preesistenti o le fa nascere a causa della sovrastimolazione dei recettori cannabinoidi. Dunque sfatiamo il racconto che la cannabis non crea dipendenza. La nicotina stimola altamente il centro del piacere ed ha una capacità di instaurare dipendenza molto rapidamente, ma la conosciamo di più, sappiamo che non interferisce con aree del cervello alterando i comportamenti, e quindi viene più accettata. Stesso discorso vale per l’alcol. E per i cannabinoidi. Tutto dipende da dosaggio e frequenza».
La cannabis paragonabile all’eroina?
«Gli effetti sui comportamenti provocati dall’eroina sono molto più drastici ma è una questione di capire entro quanto tempi certi effetti si attuano: le sindromi psichiatriche di cui parlavamo prima incitate dal THC non sono da sottovalutare soprattutto se l’utilizzo anche saltuario contiene fisiologicamente un rischio di auto-mantenere il consumo e quindi di sviluppare una dipendenza. Sulla questione tempistiche per esempio centrale è il fattore età. Quello che non si dice abbastanza è che il lobo prefrontale del cervello con le sue connessioni maturano nell’adolescenza, tra i 15 e i 21 anni. E quali sono i mediatori fondamentali per la maturazione di questo circuito cerebrale? I recettori endocannabinoidi di cui parlavamo all’inizio, quelli più stimolati e modificati dal THC. Questo è il motivo per cui stiamo assistendo a un’epidemia silenziosa di psicosi, schizofrenie, alimentate dall’utilizzo di cannabinoidi nei ragazzi che fumano sistematicamente. Ai ragazzi a cui insegno in Università dico sempre, volete fumare? Fatelo almeno dopo i 23 anni».
Alla luce di tutto questo, c’è una base scientifica per cui punire la positività al THC anche dopo diversi giorni dall’assunzione e senza presentare stati di alterazione?
«L’uso ludico prevede disturbi di attenzione, c’è poco da discutere. Nello specifico però, trovare tracce di THC assunto magari due giorni prima, non può essere dal punto di vista scientifico considerato fonte di pericolosità per chi si mette in strada. La decisione di sanzionare a prescindere non ha una base farmacologica solidissima: una volta che la concentrazione della sostanza è scesa a livelli minimi gli effetti farmacologici non sono più presenti».
Quali sono questi livelli minimi?
«Si parla di un valore al di sotto del milligrammo. In questo caso vuol dire che il soggetto ha assunto la sostanza il giorno prima, due giorni prima e che di conseguenza in quel momento non è particolarmente pericoloso».
Quanto durano gli effetti dell’assunzione in ore? Con il test posso capire se c’è un utilizzo reiterato della sostanza?
«Tutte le sostanze hanno un tempo necessario perché la loro concentrazione nel sangue si dimezzi e quindi anche gli effetti collegati. Per il THC siamo nell’ordine delle 6-8 ore dall’assunzione. Non posso sapere con un test se si tratta di un’assunzione frequente o occasionale. Saprò soltanto che c’è stato un utilizzo. Ma la decisione del legislatore ha seguito evidentemente altri criteri rispetto a quello farmacologico».
Quali criteri sono stati seguiti secondo lei?
«Si tiene conto che i cannabinoidi, come l’alcol, hanno effetti progressivi sul sistema nervoso. Un soggetto che fa uso costante di THC potrebbe non avere riflessi e capacità motorie integre. Il reale dubbio è che abbia subìto nel tempo delle alterazioni. C’è quindi un’idea preventiva e repressiva, più che un fondamento scientifico, a guidare la decisione del nuovo Codice stradale. Se ti trovo con una quantità minima di cannabis in circolo questo vuol dire che domani potresti assumerla mentre guidi. Di conseguenza ti blocco prima che tu possa fare una cosa di questo tipo. Un discorso di prevenzione che forse a questo punto andrebbe applicata in maniera più ampia. Forse anche all’alcol».
I test salivari utilizzati dalle forze dell’ordine sono attendibili?
«Si tratta di test abbastanza sensibili ormai, tecnologie correlate alla possibilità di individuare la presenza di THC anche se l’assunzione è lontana nel tempo. Sicuramente l’esame del sangue rimane sempre la cosa migliore ma non li escluderei per un utilizzo immediato».
Alcuni studi ipotizzano che si possano verificare risultati positivi anche su un soggetto che abbia subìto fumo passivo.
«Sono piuttosto scettico su questa possibilità. Rimane un fronte da testare ma non so fino a che punto una quantità inalata in modo passivo possa rimanere in tracce notevoli. La possibilità che ci siano testimoni innocenti, chiamiamoli così, credo faccia parte più del dibattito politico e meno scientifico».
Per l’alcol esistono delle soglie al di sotto delle quali non si viene considerati soggetti pericolosi per la sicurezza stradale. Perché non vale la stessa cosa per il THC?
«Questo sarà un ulteriore passo da affrontare e con non poca urgenza. Lo dico soprattutto per tutelare i tanti pazienti che fanno uso terapeutico e che si ritrovano oltre al danno anche la beffa di non poter guidare. Il legislatore ha ritenuto valido penalizzare questi comportamenti a prescindere, non una mancanza dovuta a sbadataggine quindi ma una precisa decisione di natura sociale e politica. Il discorso che non ci sia una soglia crea problemi a noi medici per l’utilizzo farmacologico. Da presidente dell’Associazione italiana per lo studio del dolore, sto agendo assieme a più di 20 realtà che si occupano della di dolore nei pazienti: abbiamo già scritto al Ministero dei trasporti e a quello della salute sollevando il problema. Non si può penalizzare il paziente con dolore che non fa uso ludico di cannabis ma uso controllato, con dosaggi prescritti da ricetta medica, compatibile con la possibilità di guidare l’auto e soprattutto stabile, senza picchi nell’assunzione».
Qual è stata la risposta del governo?
«Hanno condiviso con noi la necessità, per questo a breve si aprirà un tavolo di lavoro per cercare di trovare una soglia che vada a definire i confini dell’uso terapeutico. Non c’è niente di peggio per un paziente oncologico di sentirsi beffato da una regola, con l’impedimento di poter guidare ed essere autonomo. Senza contare che per chi si occupa di dolore, dove le sostanze come oppioidi e cannabinoidi sono farmaci di prima linea, è complicato dover fronteggiare narrazioni terroristiche. Pensate al fentanyl, chiamata la droga degli zombie, considerato in verità dall’Oms un vero e proprio farmaco salvavita. E poi c’è un altro profilo da prendere in considerazione: quello del tossicodipendente in terapia con metadone. Anche in questo caso un soggetto controllato e stabile. Cosa facciamo, non guiderà per tutta la vita? Questi sono i discorsi che dovranno essere affrontati, ma al momento mi sembrano step successivi rispetto alle decisioni prese».
(da Open)
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