Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
MARCO TRAVAGLIO SULLA RIFORMA NORDIO
L’8 gennaio la Camera inizierà a discutere la legge Nordio-Gelli per separare le carriere
di giudici e pm e i rispettivi Csm. Noi non vediamo l’ora che entri in vigore malgrado siamo contrari, anzi proprio per questo. Solo la prova su strada farà capire ai somari del garantismo all’italiana di aver prodotto l’effetto opposto a quello che auspicavano.
Oggi requirenti e giudicanti fanno parte dell’unico Ordinamento giudiziario. Ma i passaggi da una funzione all’altra, un tempo normali (Falcone e Borsellino furono prima giudici e poi pm), sono già così ostacolati da leggi infami di destra&sinistra da risultare statisticamente irrilevanti: nel 2023 hanno riguardato 34 magistrati su 9mila (lo 0,37%). Eppure il Consiglio d’Europa li raccomanda per l’arricchimento professionale dei giudici e dei pm accomunati dalla “cultura della giurisdizione”. E la nostra Costituzione affida a entrambi lo stesso obiettivo: cercare la verità con imparzialità.
Se il pm si stacca dal giudice, sarà sempre meno imparziale: un avvocato della polizia, tutto teso a far condannare più gente possibile. La cultura dell’imparzialità cederà il passo a quella del risultato, la stessa del poliziotto che fa carriera a suon di statistiche: tot perquisizioni, tot sequestri, tot arresti…
I somari citano, a sostegno della separazione, il caso dei due pm milanesi condannati in primo grado per aver nascosto prove favorevoli agli imputati nel processo Eni. Ma è proprio perché le carriere sono unite che è stato possibile condannarli. Il pm non ha il cottimo sulle condanne: se si convince dell’innocenza dell’imputato, deve chiedere di assolverlo. Ma se diventa come l’avvocato, pagato per far assolvere il cliente anche se lo sa colpevole, ignorerà le prove a discarico.
Se un avvocato porta al giudice una prova contro il suo assistito, viene punito per infedele patrocinio; il pm invece viene punito se non porta una prova a favore del suo imputato.
Perciò pm e difensore non sono sullo stesso piano: l’uno mira alla verità (come il giudice), l’altro all’assoluzione. Due figure essenziali che meritano armi pari, ma una rappresenta la collettività, l’altra il privato. Separandoli dai giudici, i “garantisti” trasformeranno i pm in una casta di Torquemada molto popolari e “giustizialisti” che chiederanno condanne purchessia a furor di popolo: il “partito dei pm”, oggi inesistente, si materializzerà proprio grazie a questi somari.
È già accaduto in Portogallo nel 1974 quando, caduto Salazar, la Rivoluzione dei Garofani separò i pm dai giudici, ma senza metterli sotto il governo: i pm divennero una falange di inquisitori assatanati, anche contro i potenti. Tant’è che lì i “garantisti” vorrebbero riunificare le carriere per riportare un po’ di equilibrio. Se hanno qualche amico in Italia, è il caso che lo avvisino per tempo.
Marco Travaglio
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
IL DESTINO DI CECILIA SALA È APPESO AGLI AMERICANI, IL SILENZIO DI UNA SETTIMANA, È DOVUTO ALLA TRATTATIVA DIPLOMATICA: TEHERAN INIZIALMENTE HA CHIESTO IL RILASCIO DELL’IRANIANO MOHAMMAD ABEDINI-NAJAFABADI, ARRESTATO DALLA DIGOS, SU RICHIESTA DEGLI STATI UNITI, IL 16 DICEMBRE A MALPENSA. MA LO SCAMBIO È IMPRATICABILE: ABEDINI-NAJAFABADI È NEL PENITENZIARIO DI BUSTO ARSIZIO E SARÀ LA CORTE D’APPELLO A DECIDERE SULLA SUA ESTRADIZIONE NEGLI USA
Sette giorni di silenzio. La notizia embargata. Con l’obiettivo di intavolare una trattativa coperta col regime iraniano. Poi, ieri mattina, la Farnesina ha deciso di rendere pubblica la vicenda: Cecilia Sala è agli arresti nel carcere di Evin, la prigione degli oppositori politici della repubblica islamica.
Segnale che il negoziato con Teheran difficilmente potrà chiudersi a stretto giro. Servirà tempo. La premier Giorgia Meloni e il vice Antonio Tajani seguono dal 19 dicembre l’evolversi della mediazione diplomatica e d’intelligence, affidata all’Aise, i servizi di sicurezza per l’estero.
Quello che governo, ambasciata e servizi stanno cercando di capire da 8 giorni è cosa voglia in cambio Teheran per la liberazione della nostra connazionale. Secondo fonti di maggioranza, contattate da Repubblica, la trattativa diplomatica in un primo momento, su richiesta di Teheran, avrebbe «riguardato l’iraniano Mohammad Abedini-Najafabadi», arrestato dalla Digos il 16 dicembre a Malpensa, su richiesta Usa. Il governo sapeva delle proteste di Teheran almeno dal 22 dicembre, ma l’ipotesi di uno scambio è irrealistica e impraticabile, perché Abedini-Najafabadi è nel penitenziario di Busto Arsizio e sarà la Corte d’appello a decidere sulla sua estradizione negli Stati Uniti. Anche fonti della Farnesina ieri sera negavano: «Non è l’oggetto della trattativa». Escluse pure contropartite economiche, secondo esponenti della nostra diplomazia.
Non è una partita semplice, per Palazzo Chigi e Farnesina. In una riunione d’urgenza ieri con Tajani, Mantovano e i servizi, il guardasigilli Carlo Nordio ha confermato che nulla può sull’estradizione di Abedini-Najafabadi, essendo una decisione che spetta unicamente alla Corte d’appello.
La stessa magistratura che aveva messo ai domiciliari Artem Uss, il figlio di un oligarca russo vicino a Putin, poi evaso lo scorso anno e fuggito clamorosamente a Mosca. I tre giudici che gli avevano accordato i domiciliari sono stati assolti solo a ottobre, dopo una lunga indagine del Csm. A maggior ragione in questo quadro, il governo non può certo forzare la mano. L’unica garanzia che forse potrebbe offrire è tergiversare sull’estradizione, fino a un anno.
Palazzo Chigi e Farnesina lavorano allora per trovare una scappatoia politico-diplomatica. La premier potrebbe sentire il presidente iraniano Masoud Pezeshkian nei prossimi giorni. Così come Tajani potrebbe attivarsi con l’omologo agli Esteri.
(da agenzie)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
I 30 MILIARDI DELLA LEGGE DI BILANCIO SERVONO QUASI TUTTI PER RICONFERMARE TAGLIO DEL CUNEO. NIENTE TAGLIO DELLE TASSE AL CETO MEDIO, NÉ RIFORMA DELLE PENSIONI: ALLA SANITÀ VANNO SOLO 1,3 MILIARDI IN PIÙ NEL 2025, MA IN RAPPORTO AL PIL LA SPESA SCENDERÀ
La terza finanziaria di Meloni oggi diventa legge dello Stato. Una manovra da 30
miliardi, impiegati quasi tutti per riconfermare misure in scadenza come il taglio del cuneo e dell’Irpef, la superdeduzione per le assunzioni, la detassazione dei premi di produttività, i fringe benefit, il pacchetto pensioni.
Non c’è la spinta promessa alla natalità col quoziente famigliare. Né il taglio delle tasse al ceto medio. O la riforma delle pensioni. Alla sanità vanno solo 1,3 miliardi in più nel 2025, ma in rapporto al Pil la spesa scenderà nei prossimi anni. Arrivano tagli alla spesa di ministeri (7,7 miliardi in 3 anni) ed enti locali. E il blocco del turn over nella pubblica amministrazione. Le pensioni minime aumentano di appena 1,8 euro al mese. Un miliardo viene recuperato, a regime, dal taglio delle detrazioni. Il canone Rai aumenta da 70 a 90 euro. Molte “mance”.
(da agenzie)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
COME SI MUOVERA’AD ESEMPIO, SULL’UCRAINA? DAVANTI ALLE MOSSE ISOLAZIONISTICHE DEL TRUMPONE (DAZI SULL’EXPORT ITALIANO), CON UN ALLEATO DI GOVERNO TRUMPISSIMO COME SALVINI, COME AGIRA’? LA SORA GIORGIA STARÀ CON L’EUROPA DI URSULA O CON L’AMERICA DI “THE DONALD”? GLI AMMICCAMENTI CON ELON MUSK E LE MOSSE SULL’ALBANIA
Va bene, c’è Matteo Salvini che, dopo l’assoluzione, si è ringalluzzito: prima i desideri (il Viminale), poi, in omaggio agli antichi amori, i segnali frenanti sulle armi a Kiev. E ci sono anche le varie sfumature sull’Ucraina, sia pur all’interno di una tenuta nel sostegno, che è stato fin qui l’architrave della politica estera del governo.
Si avverte, in alcune dichiarazioni dei ministri Guido Crosetto e Antonio Tajani, il cambiamento di clima che si respira in Europa. Per la serie: ciò che è necessario va fatto, ma prima o poi le ferite vanno rimarginate, ammesso che Putin torni a ragionare.
Non ci vuole una Cassandra per prevedere che, alla fine, Salvini voterà anche il decimo pacchetto di aiuti, secondo un copione che si ripete. La sensazione, però, è che il tema sia più grande di quel che racconta il Palazzo.
Lo svolgimento ce lo dà proprio l’agenda: visita di Joe Biden a Roma tra il 9 e il 12 gennaio, nell’ambito della quale incontrerà anche Giorgia Meloni lodandola per come ha gestito il G7; voto sugli aiuti a Kiev; insediamento di Trump alla Casa Bianca. Ecco, quel momento parlamentare segna in maniera icastica il passaggio da un “prima” a un “dopo”. Che ha a che fare con quale ruolo la premier vuole agire nel mondo di Trump, di cui l’Ucraina è un rilevante tassello, anche se non l’unico. Salvini, a modo suo, si è messo avanti col lavoro ma, del mosaico, è un tassello marginale.
Finora – è la storia di questi anni – Giorgia Meloni ha agito un ruolo da “populista gentile”, apprezzata, con tanto di bacio sulla fronte, dal mondo dei non populisti – Biden, appunto e l’establishment europeo – in termini di fedeltà atlantica.
Operazione di leadership politica non banale in termini di affrancamento rispetto all’impostazione pregressa e di tenuta, nel suo partito e nella coalizione. Ha negato il Viminale a Salvini, non solo per il processo ma proprio per la questione russa. Ha arginato, puntando sull’asse con Tajani, le pulsioni di allora del Cavaliere, popolari ancora oggi nel suo partito ma anche nel mondo dell’impresa italiana perché le materie prime costano.
Ha gestito la conversione dei suoi sulla via di Kiev (il suo capogruppo al Senato era tra gli osservatori, banditi da Kiev, che riconobbero Crimea e Donbass). C’è anche questo elemento, perché dentro Fdi non tutti sono come il sottosegretario alla presidenza Fazzolari, tra i più schierati sul sostegno a Kiev: le antiche incrostazioni pesano eccome.
Ora la populista gentile si ritrova nel mondo di un populista assai poco garbato. E tutto ciò che ha costruito finora da valore può diventare un disvalore, se letto con la lente della radicalità. Bel problema: deve capire come stare in questo mondo. Siamo esattamente in questo punto della storia.
Vanno di gran moda, nel suo entourage, la parola “pontiere” o la parola “mediatrice”. Vengono ripetute in continuazione. E tutti, nel governo, ma anche nella classe dirigente economica preoccupata dai dazi, le consigliano di lavorare per diventare, in Europa e a nome dell’Europa, la principale interlocutrice di Trump.
Stavolta, da questo lato del ponte, l’Europa è terremotata nel suo asse franco-tedesco. Questa potrebbe anche essere un’occasione per Giorgia Meloni, se la volesse giocare prendendo in mano la bandiera dell’integrazione europea. Però non pare sia questa la scelta che avrebbe dentro una svolta (europeista) e in fondo una sfida (a Trump), che non riconosce l’Europa in quanto tale ma i singoli Paesi. Quel che si registra, al momento, è piuttosto uno slittamento verso una radicalità di destra, sulla base dell’idea che una certa affinità ideologica, anche se non proprio una inversione a U, aiuti proprio nella costruzione del ponte. E infatti ad Atreju non c’era un socialista convertito come Eddy Rama ma Javier Milei, e poi gli ammiccamenti costanti con Elon Musk e poi l’enfasi sul dossier migranti con toni d’antan.
Il rischio è che, su questo terreno, si trovi sempre qualcuno più pontiere. Come Orban, che per Trump è perfetto. Finora la premier italiana, proprio in virtù del suo ruolo nel mondo di prima, è riuscita a farlo ragionare sull’Ucraina. Adesso, nel mondo di Trump, il leader ungherese diventa un leader un bel po’sfidante. C’è poi chi suggerisce un’altra via che non è l’affinità ideologica con Trump, ma quella di giocare dove il ponte è meno accidentato: nel Mediterraneo, come cerniera tra Europa, Stati Uniti e Sud del mondo, lì dove l’Italia può contare qualcosa.
È il suggerimento dell’ex ministro Marco Minniti coinvolto nella cabina di regia del piano Mattei. Al momento però, più dell’Africa piace l’Albania. Che funzioni o no, consente il racconto. Anch’esso serve per costruire il famoso ponte.
Alessandro De Angelis
per la Stampa
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
CON IL CALO PARALLELO DI MEDIASET, GLI UNICI A GODERE SONO URBANO CAIRO ED ENRICO MENTANA: IL TGLA7 GUADAGNA IL 18,64%, PARI A 191.810 UTENTI IN PIÙ, SULL’EDIZIONE DELLE 20
Non è un buon momento per l’informazione televisiva, specie quella pubblica. Alla
grande fuga dai telegiornali, con l’eccezione del Tg La7, corrisponde un crollo degli ascolti che colpisce in particolare il Tg1 e il Tg2, senza tuttavia risparmiare il Tg5, che comunque perde assai meno delle prime due testate Rai.§
Secondo la fotografia scattata dallo Studio Frasi su dati Auditel, nel periodo che va dal primo gennaio al 14 dicembre 2024, il notiziario diretto da Gian Marco Chiocci — imposto dall’amica premier sulla tolda dell’ammiraglia — ha smarrito rispetto al 2023 la bellezza di 163.414 ascoltatori, pari al — 3,79%, pur restando in testa alla classifica con uno share del 23,56.
E ancora peggio fa il collega in quota forzista Antonio Preziosi: il suo Tg2 sprofonda al — 8,88%, pari a 96.782 paia di occhi che ormai preferiscono guardare altrove. Resiste invece il Tg3, che a dispetto del calo verticale della terza rete registra solo una leggera flessione: — 0,44% e 7.522 spettatori persi, rimanendo in termini di share (12,5%) due volte e mezzo sopra il telegiornale cadetto. L’unica in controtendenza è la testata regionale, che sale dello 0,78%.
In casa Mediaset non va molto meglio. Il Tg5, secondo classificato con il 19,54% di share medio, scende del 2,42%: significa che 86.099 persone che l’anno scorso l’avevano scelto, non lo guardano più. Il Tg4 va giù del 4,44%, pari a — 24.756 ascoltatori. Studio Aperto del 3,52%, ovvero — 18.014 teste.
A lucrare sull’emorragia è Enrico Mentana, che guadagna invece il 18,64%, pari a 191.810 utenti in più sull’edizione delle 20. «Una crescita che tuttavia va inserita nell’ottima performance della rete: se La7 aumenta il pubblico, ne beneficia anche il suo telegiornale », spiega Massimo Scaglioni, ordinario di Economia dei media alla Cattolica di Milano.
Secondo il quale «il calo dei Tg, a partire dai due principali, è comunque fisiologico, legato al consumo di informazione che ormai passa meno per la tv e va online. Dunque non è un caso se, proprio su input della Rai, dal 30 dicembre l’Auditel introdurrà una nuova forma di rilevazione, la total audience , che monitorerà non solo i programmi in onda sui televisori tradizionali, ma anche quelli trasmessi sui dispositivi elettronici.
Dopodiché la minore attrattività dei Tg resta scolpita nei numeri. «Nonostante il periodo storico sia di quelli importanti, con due guerre in Ucraina e in Medio Oriente destinate a sconvolgere gli equilibri del nostro continente, quasi tutti i telegiornali soffrono, quelli Rai più degli altri», osserva Francesco Siliato, media analyst dello Studio Frasi. Ma perché accade? Per l’esperto il calo sarebbe da ascrivere al «racconto monocorde della situazioni belliche, poco pluralista sotto il profilo delle forze in campo, unito probabilmente a una impaginazione con tanta cronaca nera e tanto spettacolo».
E a risentirne sono anche i canali all news. Rainews24, diretto da Paolo Petrecca, ha ormai uno share da prefisso telefonico, lo 0.52, con un calo di audience del 17,9%. Peggio ancora fa Tgcom24, che pur scendendo solo del 4%, totalizza appena mezzo punto di share. Persino più in basso SkyTg24, che scende poco meno del 4 e si attesta sullo 0,33% di share medio. Una vera débâcle.
(da agenzie)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
RAPPORTO CNEL: “URGONO POLITICE DI SVILUPPO E INCLUSIONE”
L’Italia si trova di fronte a una sfida che potrebbe compromettere la sua capacità di crescita economica e sostenibilità sociale: l’invecchiamento della popolazione e la conseguente diminuzione della forza lavoro attiva. In questo scenario, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) ha recentemente approvato un documento, “Demografia e forza lavoro”, redatto dal consigliere Alessandro Rosina, che mette in evidenza i gravi squilibri demografici in corso e le strategie necessarie per affrontarli.
Rosina non ha dubbi: la strada per garantire benessere e sviluppo all’Italia non può prescindere dal rafforzare l’attrattività e la valorizzazione del capitale umano.
La qualità della formazione, l’efficienza dei servizi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, e la possibilità di conciliare il lavoro con la vita privata sono diventati obiettivi prioritari delle politiche di sviluppo. Solo così, sostiene Rosina, sarà possibile garantire un futuro solido per il Paese. Un futuro che, secondo il rapporto, oggi poggia su basi fragili, minacciate proprio dalla combinazione di una popolazione sempre più anziana e una forza lavoro sempre più ridotta.
L’Italia e il peso crescente degli anziani
Secondo il rapporto, l’Italia sta vivendo una transizione demografica che avrà effetti devastanti sull’economia, se non affrontata con politiche mirate. Da un lato cresce in modo esponenziale la popolazione anziana, con un incremento dei cittadini sopra i 65 anni, i cosiddetti “inattivi”. Dall’altro, la componente più giovane e attiva della popolazione è in costante diminuzione. Secondo il documento del CNEL, l’indice di dipendenza degli anziani, che misura il rapporto tra persone di età superiore ai 65 anni e la popolazione tra i 20 e i 64 anni, ha superato il 40% in Italia, un dato che è circa 14 punti percentuali sopra la media dell’Unione Europea. Questo significa che per ogni lavoratore, ci sono sempre più anziani da sostenere, con un impatto diretto sulla produttività e sulla sostenibilità del sistema di welfare.
Ma il problema non è solo l’aumento del numero degli anziani, quanto la riduzione della forza lavoro attiva. L’indice di dipendenza economica, che misura il numero di persone in pensione rispetto agli occupati tra i 20 e i 64 anni, ha superato il 60%, ben al di sopra della media europea. La causa di questa situazione risiede in una combinazione di fattori, tra cui la maggiore longevità della popolazione, ma soprattutto il calo della popolazione in età lavorativa, che da anni subisce un progressivo ridimensionamento.
La drammatica riduzione della fascia centrale della forza lavoro
Un aspetto particolarmente preoccupante riguarda la fascia di età 35-49 anni, tradizionalmente quella al centro della vita lavorativa. La popolazione maschile di questa fascia è passata da oltre 7 milioni nel 2014 a meno di 5,7 milioni nel 2024, con una continua e inesorabile diminuzione prevista nei prossimi decenni. Sebbene il tasso di occupazione di questa fascia di età sia ancora molto alto, attorno all’85%, la riduzione di questa componente demografica è un colpo durissimo per l’economia italiana. Gli uomini tra i 35 e i 49 anni sono, infatti, il motore della crescita economica del paese, poiché contribuiscono significativamente al PIL e alle entrate fiscali. Se questa fascia continua a ridursi, l’Italia rischia di trovarsi in una condizione di svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi europei.
L’impasse dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro
Altro dato allarmante riguarda il calo degli occupati giovani e femminili. Se guardiamo agli ultimi vent’anni, vediamo un forte declino del numero di giovani tra i 25 e i 34 anni. Questa fascia di popolazione è passata da oltre 8,5 milioni nel 2004 a circa 6,2 milioni nel 2024. In parallelo, gli occupati tra i 25 e i 34 anni sono scesi da 6 milioni a circa 4,2 milioni, con un tasso di occupazione che è rimasto ben al di sotto della media europea. In particolare, nella fascia 15-24 anni, il tasso di occupazione è sceso dal 27% del 2004 al 20% del 2023, mentre nella fascia 25-34 è diminuito dal 70% al 68%.
A peggiorare la situazione c’è il dato preoccupante relativo all’occupazione femminile. Le donne italiane, in particolare quelle nella fascia 35-49 anni, sono quelle che più di altre soffrono la scarsità di opportunità nel mercato del lavoro. Con un tasso di occupazione femminile in questa fascia che si attesta solo al 65%, l’Italia è ben lontana dai livelli medi europei, che sono circa 13 punti percentuali più alti. Se non si interviene, si rischia di non riuscire a riequilibrare la forza lavoro, che vedrà progressivamente crescere la componente anziana a discapito di quella giovane e femminile.
Le soluzioni per contrastare il declino: una simulazione ottimistica
Nel suo rapporto, il CNEL propone anche una simulazione su come l’Italia possa contrastare la riduzione della forza lavoro nei prossimi decenni, se si adottano politiche di sviluppo mirate. L’ipotesi di base è che, nei prossimi 15 anni, l’Italia possa allinearsi alle previsioni più favorevoli relative alla natalità e ai flussi migratori. Se il numero medio di figli per donna risalisse verso i 1,5 figli (livello medio europeo) e il saldo migratorio con l’estero si stabilizzasse a 240mila unità, e se l’occupazione giovanile e quella femminile adulta raggiungessero i livelli medi europei, si potrebbero recuperare circa 1,3 milioni di occupati under 35 e mantenere costante l’occupazione femminile nella fascia 35-54 anni, che altrimenti sarebbe destinata a diminuire di circa un milione di unità.
La necessità di un cambiamento radicale nella cultura del lavoro
Il rapporto del CNEL sottolinea che, per ottenere questi risultati, non bastano politiche pubbliche più incisive, ma è necessario un cambiamento radicale nella cultura del lavoro. Le aziende italiane devono superare il modello tradizionale che ha al centro la figura dell’uomo adulto, e iniziare a valorizzare tutte le componenti della forza lavoro, in particolare i giovani, le donne e le persone immigrate. Ciò significa favorire una maggiore inclusione e valorizzazione di queste categorie, non solo per un motivo etico, ma anche per una questione di efficienza economica. Inoltre, è fondamentale promuovere politiche che consentano una lunga vita lavorativa, attraverso misure che incentivino la partecipazione degli over 50 al mercato del lavoro.
Paradossalmente, l’Italia ha oggi maggiori margini di crescita rispetto agli altri paesi europei proprio perché ha sottoutilizzato queste categorie. Investire in queste aree, combinando politiche attive e l’uso delle nuove tecnologie, potrebbe essere la chiave per sostenere l’economia italiana nei decenni a venire.
(da Fanpage)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
MA NON ERANO I SOVRANISTI QUEI “PATRIOTI” CHE AVREBBERO DIFESO L’INDUSTRIA ITALIANA DALLE ACQUISIZIONI STRANIERE?
Il governo Meloni, attraverso il ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha
autorizzato la vendita dell’azienda dell’aeronautica Piaggio Aerospace al gruppo turco Baykar che è presieduta dal genero del presidente Recep Tayyp Erdoğan, Selçuk Bayraktar.
Dal 2014 la società italiana era gestita dal fondo sovrano emiratino Mubadala. Ma gli affari non sono decollati. Da qui la decisione dell’esecutivo di cedere l’azienda al produttore turco di droni.
L’azienda turca è guidata dal fratello di Selçuk, Haluk Bayraktar. Il Mimit in una nota ha spiegato che «la terna commissariale ha ritenuto che quella di Baykar fosse la più idonea a garantire gli interessi dei lavoratori dipendenti e dei creditori di Piaggio Aero e Piaggio Aviation e a rilanciare le prospettive industriali del gruppo».
A garanzia dei lavoratori ci sarebbero gli ottimi risultati di Baykar. Come riporta il Corriere, nel 2023 la società turca ha aumentato i suoi ricavi del 25% sfiorando i due miliardi di dollari. La maggior parte, circa il 90%, deriva dalle esportazioni. Baykar, insieme a molte altre aziende, dell’Anatolia ha fatto della Turchia uno dei mercati principali della compravendita di droni militari. Grazie a normative sulla loro esportazione meno stringenti, la Turchia ha conquistato i due terzi del relativo mercato globale. Baykar ha un’identità chiara e riconosciuta in questo settore: i suoi droni militari sono economici e molto efficaci in guerra. Il modello TB2 è stato impiegato dall’esercito ucraino, nelle guerre civili in Siria e in Libia, dall’Azerbaigian nella regione del Nagorno-Karabakh.
(da agenzie)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
E I POLIZIOTTI DELLA PENITENZIARIA IN ITALIA PROTESTANO: “NOI ATTENDIAMO ANCORA GLI ANFIBI…”
Duecento gilet tattici, altri 36mila euro di spesa, per non si sa quali agenti della polizia penitenziaria destinati al carcere fantasma per migranti a Gjader, dove chissà se e quando arriveranno ospiti. L’operazione Albania continua a regalare un paradosso dietro l’altro. E sempre a carico dei contribuenti italiani.
L’ultima spesa è stata autorizzata dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a fine novembre, quando la nuova bocciatura da parte del tribunale di Roma ai provvedimenti di fermo del secondo gruppo di migranti portato in Albania, ha di fatto sospeso l’operazione a tempo indeterminato. Tanto da indurre tutte le amministrazioni interessate a richiamare in Italia la gran parte del personale che avrebbe dovuto essere impiegato nei centri di Shengjin e Gjader.
A Gjader sono rimasti comunque quindici agenti della Penitenziaria, non si sa bene a fare cosa, ma questo non ha impedito — denuncia il sindacato Osapp — che il Dap (che già ad agosto aveva acquistato cento gilet tattici, ovviamente rimasti inutilizzati) raddoppiasse l’ordine.
«Si tratta di una decisione che appare del tutto immotivata, considerando che la struttura di Gjader continua a rimanere vuota. Mentre il personale di polizia penitenziaria nelle carceri italiane attende ancora gli anfibi, il Dap continua la sua discutibile gestione delle risorse pubbliche — dice il segretario generale Leo Beneduce — Trentaseimila euro per 200 gilet tattici alla polizia penitenziaria significano, forse, che presto gli agenti saranno direttamente impiegati in zone di guerra (e non ce l’hanno detto)».
In attesa che il governo riesca a portare e soprattutto a far rimanere nel centro di Gjader migranti soccorsi nel Mediterraneo e provenienti da Paesi sicuri, al momento gli unici immigrati irregolari che l’Italia riesce a mandare in Albania sono proprio gli albanesi.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha riportato indietro quest’anno appena 5.389 migranti, la maggior parte in Tunisia, seguita da Albania e Marocco.
(da agenzie)
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Dicembre 28th, 2024 Riccardo Fucile
ABBASSA IL LIVELLO DI COMPATIBILITA’ DEL DIRITTO ITALIANO CON LA CONVENZIONE DI MERIDA
Nell’ultimo mese ben quattro tribunali italiani hanno fatto ricorso alla Corte
costituzionale ritenendo illegittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Le ordinanze di rimessione invocano gli art. 11 e 117 primo comma: il primo che costituisce lo strumento di aggancio costituzionale del diritto dell’Unione europea, il secondo il quale impone al legislatore italiano di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Quest’ultimo, in particolare, è evocato con riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (nota anche come “Convenzione di Mérida”), adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003. È il caso di ricordare che un trattato internazionale, una volta ratificato da uno Stato, entra in vigore nell’ordinamento internazionale ma per produrre effetti nell’ordinamento interno di quel medesimo Stato, ivi compreso quello italiano, ha bisogno che venga fatto oggetto di norme di adattamento, di “esecuzione”.
Ebbene, l’Italia ha eseguito la Convenzione di Mérida con la quale il legislatore italiano ha adottato le norme che erano necessarie ad adeguare il nostro ordinamento alla Convenzione; tali norme erano, quindi, individuate sulla base dello stato del medesimo ordinamento nel 2003, quando esso contemplava il reato di abuso d’ufficio.
Quanto alle previsioni della Convenzione che l’abrogazione del reato di abuso di ufficio avrebbe violato, e che quindi opererebbero come norme interposte nel giudizio di costituzionalità, è opinione dei Tribunali che la Convenzione preveda un obbligo di criminalizzazione – o quanto meno di “non decriminalizzazione” – che sarebbe stato violato dall’abrogazione del reato di abuso di ufficio.
Premesso che il diritto internazionale generale, il quale vincola tutti gli Stati indipendentemente dalla loro volontà, non impone agli stessi di non modificare, successivamente e “in peggio” rispetto agli obblighi internazionali così assunti, lo stato del proprio ordinamento interno. Ora, la Convenzione di Mèrida contiene una norma che “aggiunge” per i suoi Stati membri, all’obbligo di rispettarlo sul piano internazionale che è conseguenza della sua ratifica anche quello di conformarvi il proprio ordinamento interno.
Una clausola di questo tipo, insomma, ha la funzione di creare un obbligo internazionale “supplementare”, quello di assicurare la conformità delle leggi nazionali con i vincoli assunti nell’ordinamento internazionale, al fine di radicare la responsabilità internazionale degli Stati membri che non abbiano provveduto ad eseguire o ad eseguire correttamente al loro interno la Convenzione. Inoltre la stessa Convenzione contiene una norma che impone agli Stati membri di adoperarsi per adottare, rafforzare e, per quanto ci interessa, mantenere sistemi che promuovano la trasparenza e prevengano i conflitti di interessi, come effettivamente il reato abrogato faceva.
Si tratta, quindi, di una norma che, se applicata in buona fede, forse, potrebbe effettivamente implicare, se non un obbligo di criminalizzazione, quanto meno uno di non decriminalizzazione o una sorta di standard minimo di criminalizzazione, e questo al fine di garantire una certa stabilità del regime di lotta alla corruzione, con il quale l’abrogazione totale di un reato come quello di abuso d’ufficio potrebbe essere incompatibile. E questo anche in considerazione delle attività svolte in sede di esecuzione interna della Convenzione da parte del legislatore italiano: come abbiamo detto, infatti, la Convenzione impone agli Stati membri di rendere i propri ordinamenti interni compatibili con gli obblighi derivanti dalla sua ratifica e la modalità concreta di attuazione di questo obbligo di adattamento dipende, ovviamente, dallo stato degli ordinamenti interni e quindi varia da Stato a Stato e anche, nel tempo, rispetto al singolo ordinamento considerato.
Nel 2003, quando l’Italia ha proceduto all’adattamento, il nostro ordinamento era comprensivo del reato di abuso d’ufficio, la cui abrogazione è ragionevole presumere abbassi il livello di compatibilità del diritto italiano con gli obiettivi che la Convenzione si pone.
Non stiamo qui sostenendo, si badi bene, che ogni depenalizzazione costituisca una violazione della Convenzione ma che, probabilmente, una norma come quella dell’abuso d’ufficio, di portata piuttosto generale, era particolarmente adatta a rappresentare una norma di “chiusura” (“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”…) dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione, e che, in considerazione di questo la sua abrogazione potrebbe effettivamente comportare una violazione del vincolo di rispetto degli obblighi internazionali che l’art. 117 Cost. impone al legislatore.
(da editorialedomani.it)
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