Destra di Popolo.net

MAKE AMERICA GALLINA AGAIN

Marzo 22nd, 2025 Riccardo Fucile

LA STORIA DI TRUMP CHE IMPLORA IL VENETO DI VENDERGLI UN PO’ DELLE SUE UOVA

Dispiace per le galline americane decimate dall’aviaria, ma questa storia del pollaio di Trump che implora il Veneto di vendergli un po’ delle sue uova in vista della Santa Pasqua suscita un ghigno sulfureo. Come la mettiamo con la tracotanza degli ultimi mesi, condita dalla minaccia di infliggerci strazi e dazi? Se fossi un contadino veneto, o una gallina, glielo farei pesare.
Gentili (?) americani, volete le uova della tanto bistrattata Europa perché le vostre sono diventate più rare delle terre rare e costano al chilo come il paraurti di una Tesla? Ebbene, sediamoci (sulle uova) e trattiamo. Intanto la Groenlandia rimane a noi, non si discute. Quanto ai dazi sul vino, provatevi a tassare anche un solo tappo e la frittata, poi, ve la fate da soli. C’è stato un tempo in cui il dollaro era ancorato all’oro. Non ci spingiamo a pretendere di ancorarlo all’uovo, però un po’ più di rispetto, che diamine. Saremo anche diventati un Paese senza figli, come ci rinfaccia
di continuo quella testa d’uovo di Elon Musk, ma i pochi rimasti fanno ancora colazione con l’ovetto fresco sbattuto e certi ciambelloni da paura. Fino a qualche mese fa, avremmo rinunciato a mezza carbonara per dirottare un po’ di materia prima sulle vostre tavole. Vi avremmo fatto persino lo sconto. Ma adesso…
Del resto, non abbiamo cominciato noi. Il guaio, quando uno si mette a fare il prepotente, è che le vittime, appena possono, gli presentano il conto. Un ragionamento semplice, il famoso uovo di Colombo. Sapeste quanto è buono alla coque.
(da corriere.it)
–

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MELONI, LA STORIA NON SI PUO’ RISCRIVERE

Marzo 22nd, 2025 Riccardo Fucile

SIAMO ALL’ATTO FINALE DELLA PROPAGANDA DI REGIME

Se fosse ancora tra noi, Eugenio Scalfari sorriderebbe dell’audace colpo della solita Meloni. Uno degli ultimi grandi intellettuali italiani, europeista e progressista, laico e liberale, accusato di aver condiviso i «principi anti-democratici» del manifesto di Ventotene e di aver teorizzato che «l’unica forma di democrazia è l’oligarchia». Siamo all’atto finale della propaganda di regime.
La presidente del Consiglio che, scimmiottando l’attitudine dei despoti studiati da Hannah Arendt, non è una “bugiarda qualsiasi”, ma è capace di menzogne che nella loro enormità ambiscono “a generare una nuova realtà”.
La statista trasfigurata in anti-Stato che nel tempio della democrazia rappresentativa consuma un’impostura istituzionale, mescolando falsità, ipocrisia, nichilismo.
Non le bastava l’ennesimo stupro della storia compiuto alla Camera, trattata da aula sorda e grigia e poi incendiata a colpi di molotov ideologiche contro i padri fondatori dell’Unione europea. Non le bastava imbrattare con il fango il ricordo di tre eroi perseguitati dalla dittatura fascista, confinati in un’isoletta del Tirreno e ora sviliti ad agenti provocatori del bolscevismo rosso, nemici del popolo e della proprietà privata.
Non le bastava la manipolazione selettiva e strumentale di un testo visionario scritto nel 1941, sotto le bombe dell’Asse e sotto il tallone del Duce, sul quale l’Europa ha pensato e costruito se stessa non più solo come civiltà ma anche come comunità.
Non le bastava occultare la verità, Altiero Spinelli transfuga dal Pci già nel ’38, Ernesto Rossi azionista liberale, Eugenio Colorni massacrato e ucciso dalle camicie nere nel 1944.
Non le bastava tacere che in quegli stessi anni, mentre a Ventotene nasceva «il sogno europeo» raccontato magnificamente da Roberto Benigni, Giorgio Almirante, padre putativo della destra tricolore e fondatore del Msi dal quale figliarono An e poi FdI, vomitava così i suoi deliri xenofobi e antisemiti su La difesa della razza: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti… il razzismo nostro ha da essere quello della carne e dei muscoli… non c’è che un attestato con il quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”.
Non le bastava tutto questo. La Sorella d’Italia ha voluto aggiungere ancora una dose di veleno, alla pozione già altamente tossica impastrocchiata a palazzo Chigi dai patrioti al servizio del Rasputin post-missino Giovanbattista Fazzolari: quelli che incubavano da giorni “l’operazione Ventotene”, che ne avevano dettato subito
l’infame contronarrazione ai giornali-cognati e che adesso, in piena trance delmastriana, provano intima gioia nell’aver teso la «trappola alla sinistra» e nell’aver «abbattuto il muro rosso». Come se il manifesto di Spinelli e Rossi fosse il Manifesto di Marx e Engels. Come se il federalismo europeo fosse lo stalinismo sovietico.
Quella dose supplementare di veleno ci riguarda direttamente, perché integra il piano di killeraggio politico orchestrato contro i cinquantamila europeisti irriducibili chiamati a Roma da Michele Serra esattamente una settimana fa. Bisognava buttare a ogni costo giù il totem di Ventotene, intorno al quale quella splendida piazza si era riunita il 15 marzo. L’hanno fatto, Giorgia e i suoi bravi.
Ma ora lei, evidentemente non del tutto paga del risultato, completa la missione con l’attacco a Scalfari, e quindi a Repubblica, che in piazza del Popolo era presente con il corpo e con lo spirito. Ripeto: sono convinto che il fondatore di questo giornale liquiderebbe con un sorriso questo fetido venticello di calunnia. Buttato nel tritacarne di una montatura miserabile e bollato come simbolo di una sinistra «dall’anima illiberale e nostalgica» (sic!) dai rozzi agit-prop della destra più estrema, che prima di pronunciare il suo nome dovrebbero sciacquarsi la bocca.
Lui, che in quell’editoriale su “democrazia e oligarchia” volava così alto che nessuna Meloni potrà mai riuscire a raggiungerlo, e innescava un dibattito filosofico-politico con Gustavo Zagrebelsky che scriveva “tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette, cambia solo la forma, democratica o dittatoriale”. Lui, che in uno dei suoi ultimi libri denunciava come “grave rischio” la frattura tra opinione pubblica e classi dirigenti, il populismo accompagnato dall’astensionismo e dall’indifferenza, e quindi “il completo stravolgimento della democrazia partecipata” e il “declino dei partiti liquidi” con “un capo e un gruppo dirigente a lui devoto”.
Meloni, allora, faceva opposizione dura e pura. Invocava l’uscita dall’euro, chiedeva i blocchi navali, inneggiava a Putin e — si stenta a crederlo — lodava «i firmatari del manifesto di Ventotene detenuti in un carcere», che nel 1941 «avevano le idee più chiare» di «Renzi, Hollande e Merkel» nel 2016
Questa è la Sorella d’Italia, dispersa su una zattera nell’Atlantico e sempre più propensa ad approdare sulla costa americana. Per le sue sparate sfasciste ci si può indignare, ma non ci si deve meravigliare. Nell’arena di Montecitorio come al roof-garden del The Hotel, la premier ci regala “melonismo in purezza”.
Un po’ alla volta, l’Underdog della Garbatella cresciuta nel Fronte della Gioventù lascia cadere tutte le maschere con le quali si è mimetizzata in questi due anni e mezzo. Mostra il suo vero volto: a-fascista, nazional-populista, non-europeista. La Meloni autentica è quella che nell’emiciclo svilisce i martiri dell’antifascismo e tradisce i valori dell’europeismo. Lo spirito di Ventotene non le appartiene, perché lei ha davvero un’altra “matrice”.
Certo, cadono le braccia a vedere le convulsioni dei 27, che da un Consiglio Ue considerato “decisivo” alla vigilia non hanno cavato un ragno dal buco. Nonostante Trump che spaccia per pace la resa ucraina e brandisce il suo jet F-47 come «l’arma più letale di sempre»; nonostante Putin che minaccia di prendersi anche Odessa ed esige oggi lo stop degli aiuti a Kiev per poterla invadere domani; nonostante Netanyahu che per non mollare il suo potere riprende il massacro dei bambini a Gaza; nonostante tutto questo, la Ue non fa un solo passo avanti, né sulla difesa comune né sulle risorse per finanziarla. Se ne riparla al vertice di giugno.
Un mezzo disastro: ma abbiamo alternative a questa comunità di destino imperfetta e irrisolta? Soprattutto ne ha la nostra premier, che definisce «rappresaglia» le contromisure di Bruxelles da opporre ai dazi di Washington?
Non chiediamole più di rinnegare il Ventennio e di rilanciare l’Unione: non farà mai né l’una né l’altra cosa. Continuerà a galleggiare, alternando furore e finzione, vittimismo e autoritarismo. Espedienti utilissimi a mascherare i fallimenti del governo e i tormenti della maggioranza. Ma oggi come allora, vale l’antica lezione di Antonio Gramsci. Correva l’anno 1918, e lui — non ancora vittima dello squadrismo nero — già avvertiva i suoi futuri carnefici: «Non basta cambiare le parole, sperando di far dimenticare le cose».
(da Repubblica.it)

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I GOVERNATORI LEGHISTI ATTACCANO SALVINI MA NON HANNO LE PALLE PER SFIDARLO E LA BASE MUGUGNA: “PER VINCERE BISOGNA SALIRE SUL RING E VOI TEMETE DI NON FARCELA”

Marzo 22nd, 2025 Riccardo Fucile

LA MINORANZA ANTI-SALVINIANA DEL CARROCCIO SCARICA I TRE CABALLEROS ZAIA-FONTANA-FEDRIGA: SPARANO A SALVE CONTRO LA LINEA DEL SEGRETARIO, E ORA CHE IL GIOCO SI FA DURO, CON IL CONGRESSO, FANNO PIPPA

La minoranza leghista mena il can per Zaia. I governatori del Carroccio fanno distinguo, rilasciano interviste quotidiane in cui sconfessano la linea salviniana del partito, ma poi, quando il gioco si fa duro, fanno pippa.
È grazie a questo atteggiamento che Salvini ha evitato la resa dei conti interna, riuscendo di fatto a blindare la sua leadership nella Lega, in vista del Congresso di aprile.
Il fu “Truce del Papeete” è uscito vincitore e ha messo a tacere la dissidenza interna non tanto per meriti suoi, quanto per assenza di alternativa.
E i tre caballeros Fontana-Zaia-Fedriga? Sono rimasti zitti e buoni. Dissentono dalla linea salvinian-vannacciana, e pur continuando a cannoneggiare contro il loro segretario dalle colonne dei giornali, non scendono in campo.
Le ultime bordate le ha lanciate il “Doge” Luca Zaia, che in un colloquio con il “Corriere della Sera” ha preso a sberle indirettamente il trumpismo senza limitismo di Salvini (che è arrivato a dire che la guerra commerciale di Trump, che rischia di mettere in ginocchio 23mila aziende italiane, è “un’opportunità”): “I dazi non ce li possiamo permettere”.
Ma è solo l’ennesimo colpo a salve. E infatti i leghisti insofferenti per le scelte Salvini mugugnano. Si sarebbero aspettati ben altro nerbo da Zaia, Fedriga e Fontana. Una mancanza di coraggio che è stata presa di mira: “Cari governatori, per vincere bisogna salire sul ring e voi temete di non farcela…”
(da agenzie)

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ELON MUSK E’ SCESO IN POLITICA E LE QUOTAZIONI IN BORSA DI TESLA SONO CROLLATE NEGLI ULTIMI MESI

Marzo 22nd, 2025 Riccardo Fucile

GLI AZIONISTI SONO INCAZZATISSIMI PER IL SUO DISIMPEGNO MANAGERIALE E PERSINO ALCUNI MEMBRI DEL CDA, COME JAMES MURDOCH E KIMBAL MUSK, STANNO VENDENDO I TITOLI

Alla vigilia di Natale un’azione della Tesla era arrivata a valere 461 dollari, più del doppio dei 226 del 4 novembre, vigilia dell’elezione di Trump. E gli analisti che avevano attaccato Elon Musk criticando la scelta politica di diventare il suo apripista e giudicando economicamente folle aver gettato più di 250 milioni di dollari nella sua
campagna elettorale, facevano un rabbioso mea culpa.
Da allora la Tesla ha dimezzato il suo valore scendendo addirittura sotto il livello pre voto presidenziale. Giorni neri soprattutto per Musk che ci ha messo del suo tra licenziamenti di massa di dipendenti federali, sostegno al partito neonazista tedesco e quel saluto romano che, qualunque fosse l’intenzione di Elon (gesto autistico secondo gli amici) trasforma l’auto Tesla in «Swasticar» con un meme satirico del quale il miliardario può lamentarsi ma non sorprendersi, visto che è uno specialista di quel genere.
La verità è che l’azienda, molto sopravvalutata in Borsa, in difficoltà per l’esaurirsi della sua spinta innovativa e il rapido avanzare di vari concorrenti, rischia la tempesta perfetta: scarseggiano nuovi prodotti mentre l’ultimo, il cybertruck, è poco venduto. E la politica che doveva dare una spinta è, invece, un freno: toglie popolarità e carisma a Musk la cui persona è da sempre l’asset principale dell’azienda.
Gli azionisti sono furiosi per il suo disimpegno manageriale. Alcuni di loro vicini a Elon — James Murdoch, gli stessi manager della società, perfino suo fratello Kimbal — vendono titoli Tesla. L’aiuto di Trump con la scena surreale della Casa Bianca trasformata in showroom della Tesla, non ha giovato: titolo sempre più giù mentre si moltiplicano i casi di vandalismo contro le vetture.
(da agenzie)

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