AUMENTANO LE QUOTAZIONI DELL’ACCORDO PD-M5S: SARA’ UN PREMIER DONNA?
ANCHE QUESTA SAREBBE UNA SVOLTA
Si gioca tutto tra le ore 11, quando nello studio del presidente Sergio Mattarella entrerà la delegazione del Partito democratico, la prima volta al Quirinale di Nicola Zingaretti, e le cinque del pomeriggio, quando sarà la volta del Movimento 5 Stelle, il partito più grande e dunque l’ultimo a essere consultato.
Nella notte, le quotazioni dell’Accordone erano in aumento, dentro Forza Italia si dà per certo il governo M5S-Pd già fatto, con un bel sospiro di sollievo per i parlamentari berlusconiani che manterranno il seggio, pur restando all’opposizione.
Ieri, nelle consultazioni presidenziali, con la pletora delle sottoformazioni accalcate nei gruppi misti di Camera e Senato che si è esibita davanti alle telecamere, si è manifestato il partito di gran lunga maggioritario in Parlamento: quello del Non Voto.
Mattarella chiede (e si aspetta) una disponibilità di Pd e M5S per fare un governo insieme.
La direzione del Pd ha concesso a Zingaretti i pieni poteri, per usare l’espressione cara a Salvini, il mandato a fare un nuovo governo. Tutti uniti, voto all’unanimità , l’ultima volta era successo quando nel 2013 la platea del teatro Capranica aveva applaudito la proposta di candidatura al Quirinale di Romano Prodi avanzata dal segretario Pier Luigi Bersani.
Risultato: la sera Prodi fu pugnalato alle spalle da 101 parlamentari infedeli e Bersani si dimise. Non è un gran precedente. Oggi nel Pd c’è una tregua provvisoria. Fino a due settimane fa un sorriso di troppo di Zingaretti nei confronti di un esponente dei 5 Stelle avrebbe scatenato la reazione dei pretoriani renziani, sentinelle dell’impossibilità di parlare con i grillini.
Dopo la giravolta del capo, sono diventati tutti sostenitori del governo con Di Maio. Nei 5 Stelle la capriola è altrettanto spettacolare: dal Pd partito di Bibbiano sono passati alla trattativa a tutto campo. Sulle poltrone, soprattutto. La compiuta trasformazione di M5S da movimento di rottura del sistema a partito del restare al governo a tutti i costi. La reincarnazione del corpaccione pronto a votare qualsiasi cosa pur di sopravvivere.
Colpisce la facilità con cui il Pd e il Movimento 5 Stelle sono disposti a fare adesso, in poche ore, quello che non fecero nel 2013, quando il povero Bersani fu sottoposto alla gogna dello streaming con i capigruppo di M5S Roberta Lombardi e Vito Crimi, e un anno e mezzo fa, quando Renzi mise il veto a un governo Di Maio, dopo aver trattato in segreto fino all’ultimo minuto e aver fatto saltare il tavolo in serata con un’intervista in tv da Fabio Fazio.
Era il 29 aprile 2018, quella mattina Di Maio aveva pubblicato una lettera sul Corriere della Sera con la mano tesa verso il Pd. Lettera che i vertici del Partito democratico, Matteo Renzi compreso, avevano letto e approvato. Saltò tutto in giornata, non sui contenuti di programma, ma sull’organigramma di governo, sui nomi più indigesti per il Movimento, a partire da quello di Maria Elena Boschi che oggi annuncia di non voler entrare nel governo, una concessione gentile.
Negli anni Sessanta servì tempo per la Dc e per il Partito socialista per costruire un governo di centrosinistra “organico”, con ministri socialisti accanto a quelli democristiani, e per vincere le resistenze che la prospettiva scatenava nei rispettivi campi.
Nel 1976-1978 il Pci impiegò quasi due anni per passare dall’astensione al voto favorevole al governo monocolore Dc presieduto da Giulio Andreotti, oggi sembrerebbe un passaggio impercettibile, quasi metafisico, ma all’epoca fu drammatico e il passaggio finale avvenne nel giorno più tragico, quello della strage di via Mario Fani e del rapimento di Aldo Moro, il tessitore dell’operazione.
La nuova politica, post-ideologica, leggera, indifferente ai contenuti, cambia fronte e schieramento senza troppa difficoltà : un cambio di abito per l’aperitivo serale.
Per arginare l’effetto trasformista, Zingaretti prova la mossa più hard: chiedere a Grillo, Di Maio e Casaleggio un’alleanza politica, non un contratto di governo come fu quello tra Lega e M5S, con la richiesta ai5 Stelle di un’abiura sulla democrazia diretta, con la difesa della centralità del Parlamento, e sulle politiche sui migranti che Di Maio (e il premier Giuseppe Conte, fino all’altro ieri) ha condiviso in tutto con Matteo Salvini.
Su un altro punto di Zingaretti, lo sviluppo e la sostenibilità ambientale, si intravede l’influenza del professor Enrico Giovannini, uno dei candidati a guidare il nuovo governo, già ministro del Lavoro nel governo Letta, l’uomo che di recente ha accompagnato Greta Thunberg nella visita a Roma.
Sulla lotta alle disuguaglianze, ci sono le proposte del Forum di Fabrizio Barca, che i lettori dell’Espresso conoscono bene : ecco un’altra figura che qualsiasi governo di svolta dovrebbe ambire a reclutare in squadra, chissà se ci penseranno.
Per la poltrona di presidenza del Consiglio, scendono le quotazioni del Conte bis, giù anche il presidente della Camera Roberto Fico (Di Maio non lo vuole), Zingaretti resiste a chi lo vorrebbe a Palazzo Chigi, si cerca, al solito, il nome terzo.
Un tecnico-politico con qualche esperienza istituzionale: il magistrato Raffaele Cantone, l’avvocato Paola Severino che fu ministro della Giustizia nel governo Monti, la giudice della Corte costituzionale Marta Cartabia .
La crisi macha potrebbe partorire la prima presidente del Consiglio donna della storia italiana. Sarebbe una svolta, almeno questa.
(da “L’Espresso”)
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