CONTE NON TIENE I GRUPPI M5S, BRUTTE NOTIZIE IN VISTA QUIRINALE
FALLITO IL TEST CAPOGRUPPO AL SENATO, FINISCE PARI TRA LICHERI E CASTELLONE
“Un’elezione al primo turno? L’altra volta ci sono andato vicino, oggi è più difficile”. Ettore Licheri solca ad ampie falcate il corridoio delle vetrate del Senato. Sotto la mascherina si intravede il consueto sorriso, ma di certezze non ne ha. “Fammi un imbocca al lupo”, dice prima di andarsene verso l’aula.
A Palazzo Madama si vota il rinnovo del capogruppo. È una sfida a due: Licheri per succedere a sé stesso e Maria Domenica Castellone, oncologa campana, che lo sfida. La posta in gioco è alta, e travalica la semplice guida del gruppo.
Finisce 36 pari, nessuno raggiunge il quorum necessario all’elezione, servirà un secondo voto, domani, forse un terzo a maggioranza semplice fissato per martedì. Ma è stallo.
″È un test in vista del Quirinale”, spiega un senatore. La cartina tornasole di quanto Giuseppe Conte ha il polso dei gruppi, e il risultato è da questo punto di vista inquietante. Perché i suoi smussano, minimizzano, smentiscono, ma che Licheri sia il candidato appoggiato dal capo politico del Movimento da queste parti è un segreto di Pulcinella.
Il Senato è un ribollire di sospetti e preoccupazioni, i giallorossi si specchiano nelle contorsioni del centrodestra dopo la spaccatura in Forza Italia, dopo le parole di Giancarlo Giorgetti, e si accorgono di non essere messi meglio in vista del Quirinale. Anzi.
I senatori del Pd andranno al redde rationem domani mattina, alle 8. Una specie di seduta di autocoscienza dopo il fragoroso botto del ddl Zan, voci di un Enrico Letta presente subitamente smentite, perché “per carità, partirebbe il processo”.
Conte e Letta guardano da lontano, non sono sereni, per dirla alla Renzi: il centrodestra avrà pure i suoi problemi, ma parte avanti nel collegio dei grandi elettori, con tutte le sue contraddizioni dimostra di controllare molto più il corpaccione parlamentare rispetto ai competitor. E sono soprattutto i 5 stelle ad essere in difficoltà.
Per capire quanto monta la preoccupazione basta fare un giro per gli ovattati corridoi di Palazzo Madama. Un brulicare di big che acchiappano i senatori, li blandiscono, spiegano la bontà delle ragioni per votare Licheri.
L’obiettivo era è farlo passare al primo turno, servono 38 voti, la maggioranza assoluta dei 74 aventi diritto. Il borsino di giornata è impazzito. “Ce la dovrebbe fare”, dice Andrea Cioffi, senatore di lungo corso.
Ma la vulgata comune ha sempre raccontato di un testa a testa. Castellone ha costruito una candidatura che inaspettatamente ha attirato consensi, salda malumori di ogni genere, raccoglie un voto di protesta nei confronti della nuova gestione.
“Facciamo entrambi parte del progetto di Conte”, ha smorzato la senatrice sentita da Repubblica, anche per mettere a tacere le insistenti voci di una telefonata dell’ex premier per invitare a desistere. Ma subito dopo ha invocato una discontinuità, “una squadra dove le competenze delle persone siano valorizzate appieno”, sottintendendo che il vecchio corso, benedetto da Conte, non lo abbia fatto.
E criticando il diktat di mandare in tv solo i vice del capo. “Se raggiungesse 20/25 voti sarebbe uno schiaffo a Conte”, diceva un capannello di senatori al mattino. Il ceffone è arrivato sonoro.
Insomma, la fumata nera al primo turno è un segnale preoccupante per la tenuta del gruppo, incrina le residue certezze di potersi muovere “come una falange” (cit.) quando il segreto delle urne quirinalizie permetterà di esprimere il dissenso senza timore di pagare dazio.
Ma anche il vano schieramento di forze per impedire che ciò accada è un segnale che i gruppi sono in fibrillazione. Il Senato si riempie degli uomini forti di Conte. Ci sono Paola Taverna e Vito Crimi, ovviamente. C’è poi il braccio destro Mario Turco, che di queste parti è di casa. Sorride, prende sotto braccio il ministro, passa da un collega all’altro.
A un certo punto si apparta in un angolo con Raffaele Fantetti, che per qualche settimana fu tra i principali promotori dei responsabili che avrebbero dovuto salvare il Conte II, e che dopo il naufragio di quell’operazione è finito in Coraggio Italia, senza rinunciare a tessere la sua tela.
È il “metodo responsabili” a finire sotto accusa da parte dei malpancisti. Raccontano che Agostino Santillo, vice designato di Licheri, sia attivissimo: “Chiama, parla, promette incontri con Conte in caso di esito felice per il suo ticket”. Al presidente M5s avevano raccontato di un plebiscito, che la partita fosse chiusa, è tutt’altro che così, si rischia la debacle.
Da queste parti si fa una gran chiacchiera della pizza mangiata ieri sera da Luigi Di Maio con Giorgetti. Un rapporto tra i due nato ai tempi del Conte I, quando tra l’ufficio dell’allora vicepremier e quello del sottosegretario correvano pochi metri.
I due si vedono con regolarità, attorno alla tovaglia della centralissima Da Michele hanno parlato anche di Quirinale.
E non è un mistero che la linea generale sia condivisa, avanti con Mario Draghi fino al 2023 per non mettere a rischio la legislatura, mentre Matteo Salvini lo spingerebbe su al Colle per ottenere le urne, e a Conte non dispiacerebbe affatto per costruire le sue liste e il suo Movimento per non finire logorato.
Sergio Battelli, influente deputato considerato molto vicino a Di Maio, non fa mistero della linea: “Draghi oggi è la persona giusta per guidare la transizione del Pnrr, un progetto che non può accettare pause anche di mesi per formare nuovi esecutivi)”. Carlo Sibilia segue a ruota: ” “Sarebbe folle un ritorno alle urne anticipato mentre sono da ‘mettere a terra’ 230 miliardi del recovery: occorre stabilità”.
In tutto questo caos i due leader arrancano. “Una proposta comune tra noi e i 5 stelle alternativa a quella del centrodestra? Ma se Conte qui dentro non controlla nulla”, dice un senatore Pd. Che poi sibillino aggiunge: “Certo che anche Letta…”. L’assemblea di domani sarà uno snodo.
Nel Pd c’è consapevolezza che nel cesto dei franchi tiratori sul ddl Zan si possono trovare anche tessere Dem. Un senatore è caustico: “Non si può andare in aula senza sapere quello che succede. E i capigruppo, Simona Malpezzi e Licheri, non lo sapevano”.
Con queste avvisaglie ci si avvicina all’elezione del presidente della Repubblica. Andrea Marcucci, ex capogruppo, e la sua corrente Base riformista sono sospettati di gestire una partita parallela: filtrano con i centristi, dicono, fanno sponda con Italia viva, nel risiko del Quirinale come si muoveranno?
Sono una quindicina di senatori sui 38 che compongono il gruppo. Il Pd rappresenta il 12% del collegio elettorale, e non è certo che nel segreto delle urne la percentuale rimarrà tale, i 5 stelle rischiano di arrivare come una Babele all’ora X.
La prudenza di Letta, che fino a gennaio ha detto di non voler affrontare l’argomento, è dovuta anche a questo, alla consapevolezza di una partita complicatissima, giocata con una squadra che parte in inferiorità numerica.
Al Senato si fa già di calcolo: se il centrodestra proponesse un nome potabile (Pierferdinando Casini è gettonatissimo in queste ore), insieme a Italia viva arriverebbe a soli 11 voti dalla maggioranza assoluta.
Calcoli e scenari che lasciano il tempo che trovano, ma che testimoniano un’unica, grande preoccupazione: i giallorossi rischiano di non toccare palla.
(da Huffingtonpost)
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