CONTRASTO ALLA VIOLENZA SULLE DONNE: LA SEDICENTE DESTRA CHE PIANGE E NON FA NIENTE
L’APPROCCIO SOLO REPRESSIVO SENZA L’EDUCAZIONE
“Si finge di non vedere molto spesso quello che sta accadendo, perché il problema della violenza sulle donne è un problema che continua a essere estremamente presente nella nostra società, ma che tutti hanno il coraggio di denunciare, salvo quando i responsabili sono i clandestini o sono immigrati”. Era il 9 giugno 2022 e Giorgia Meloni era solo la leader di Fratelli d’Italia. Il riferimento era alle molestie verificatesi a Peschiera del Garda durante un raduno organizzato col passaparola su Tik Tok, al quale avevano partecipato molti ragazzi di origine africana. Il suo governo sarebbe arrivato tre mesi dopo. E, si sa, un conto è stare all’opposizione, un conto al governo. Per cui, quando si è trattato di mettere in piedi rapidamente un piano di contrasto alla violenza di genere, di concreto l’esecutivo non ha fatto nulla – se non, vedremo, un ddl non ancora in vigore – ma le belle parole si sono sprecate.
Il femminicidio di Giulia Cecchettin si è portato dietro uno tsunami emotivo, che ha obbligato anche la maggioranza a intervenire. A partire proprio da colei che nel frattempo è diventata presidente del Consiglio: “È già stato approvato all’unanimità dalla Camera, e mercoledì prossimo sarà in aula al Senato – ha annunciato l’altro ieri Meloni –, il nostro disegno di legge per il rafforzamento delle misure di tutela delle donne in pericolo grazie a una maggiore prevenzione – ammonimento, braccialetto elettronico, distanza minima di avvicinamento – l’arresto anche in ‘flagranza differita’ e soprattutto attraverso tempi stringenti – 20 giorni – per valutazione da parte della magistratura del rischio e applicazione delle misure cautelari”.
Un ddl, che approda oggi in commissione e domani in aula (il Pd non presenterà emendamenti, ma ordini del giorno), che interviene sulle misure giudiziarie e non su quelle culturali. È passato un anno da quando la premier annunciava, il 22 novembre 2022: “C’è molto lavoro da fare e intendiamo portarlo avanti a 360 gradi, incentrando il nostro impegno su tre pilastri d’azione: prevenzione, protezione e certezza della pena”. Sul primo, non esiste nulla se non un eterno battibecco tra maggioranza e opposizione (su tutti, il leghista Sasso che il 26 ottobre ha attaccato la proposta 5S di reintrodurre l’educazione affettiva nelle scuole bollandola come “porcheria”) e proposte di legge nei cassetti.
Tra l’insediamento del governo e l’uccisione di Giulia Cecchettin, è avvenuto però un altro femminicidio che ha scosso il Paese: quello di Giulia Tramontano, ammazzata al settimo mese di gravidanza dal suo compagno, Alessandro Impagnatiello. In quell’occasione, Meloni aveva parlato di “grande sfida culturale”, auspicando un “accordo trasversale sulle nostre norme”. La premier non è stata l’unica a dire e ridire le stesse cose. Il vicepremier, Matteo Salvini, che l’altro giorno ha usato un “se” di troppo nel caso di Filippo Turetta – “se è stato lui”, salvo poi rimangiarselo –, ritiene che certezza della pena e castrazione chimica siano la soluzione a tutti i mali: “Penso a quel bastardo, che deve marcire in galera fino alla fine dei suoi giorni – il giudizio su Impagnatiello –. Il giudice per il momento non ravvisa crudeltà e premeditazione… A maggior ragione, approveremo una riforma della giustizia che in questo Paese serve come il pane”. E ancora, il 22 agosto: “Spero che le Commissioni parlamentari prendano in esame il prima possibile la proposta che la Lega ha copiato da altri Paesi europei e del mondo di sperimentare il blocco androgenico per chi stupra una donna o un bambino”. L’ultima perla è di ieri: “La famiglia deve fare la famiglia”.
Si ripete anche l’altro vicepremier, Antonio Tajani: “Basta con i femminicidi. Non sono sufficienti le norme in vigore” (16 agosto); “Questa vicenda deve farci riflettere sulla questione dei femminicidi. Ci siamo impegnati sia al governo che in Parlamento per avere delle norme che finalmente blocchino questa mattanza” (19 novembre).
Di “azione collegiale, confronto in Parlamento, collaborazione e condivisione” aveva parlato a giugno il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che domenica ha rincarato: “In Parlamento è in corso di esame il ddl che rafforza l’azione di prevenzione agendo su più fronti. In quella sede si possono valutare tutti quegli ulteriori interventi. Ma non basta. Occorre agire sul piano culturale ed educativo”.
Il 9 giugno era intervenuta anche la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella, a proposito del testo che rafforza il Codice Rosso: “Il cuore di questo ddl è la prevenzione. Anche gli strumenti repressivi servono a interrompere il ciclo della violenza prima dell’irreparabile”. Ieri, in un’intervista alla Stampa, ha pronunciato nuovamente la parola “prevenzione”, mostrandosi disponibile a discutere con l’opposizione di una legge sull’affettività nelle scuole, ma peggiorando il vecchio stereotipo secondo cui i figli sono delle madri: “È fondamentale che le madri educhino i figli maschi ad avere rispetto delle donne e della loro libertà”. Nei prossimi giorni, il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, presenterà la sua proposta di educazione scolastica, progetto dedicato solo alle superiori e che vedrà la partecipazione di cantanti e influencer. Per tre mesi all’anno. “Prevenire la violenza di genere attraverso l’educazione: una questione culturale”, aveva annunciato il 28 settembre la ministra per l’Università, Anna Maria Bernini, che l’altroieri ha rimarcato: “Non è più un fatto penale: serve un rafforzamento della prevenzione, più che l’aspetto sanzionatorio”. Quasi non appartenesse a questo governo.
(da Il Fatto Quotidiano)
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