“COSA FARESTI AL MIO POSTO?”. “DOVRESTI RESTARE”
LA MORAL SUASION DI DRAGHI SU MATTARELLA NELLE ORE CONCITATE DEL VOTO SUL QUIRINALE
Da ieri restano orfani quanti speravano di fondare un partito di Draghi senza Draghi, trasformando il premier in un brand per il loro merchandising elettorale. Ma se l’ex capo della Bce non sarà di nessuno, è perché fino al 2026 sarà di tutti.
Il voto dell’attuale Parlamento sul Pnrr ha posto infatti un’ipoteca sul futuro Parlamento, siccome il Piano – in base ai trattati – rappresenterà la parte più rilevante del prossimo governo e avrà un valore vincolante per le Camere, le Regioni, persino per la Pubblica amministrazione.
Così anche quanti vogliono sbarazzarsi del premier e non vedono l’ora di riprendersi ciò che considerano loro, saranno costretti a fare i conti con la sua eredità. Perciò ieri Draghi ha fatto Draghi. Escludendo un impegno politico durante e dopo il voto, è rimasto agganciato al suo ruolo istituzionale. E tenendosi lontano dalle beghe dei partiti ha iniziato a proteggere il suo governo dalle beghe che verranno in campagna elettorale.
D’altronde, fin dall’inizio della sua esperienza si mostrò guardingo davanti alle espressioni festanti che il Palazzo gli tributava: «Anche di una colf si dice bene nei primi sette giorni», sorrise con una delle sue solite battute. Con il passare del tempo ebbe contezza di essere vissuto «con fastidio» dai partiti e il passaggio del Quirinale è stato emblematico.
Al di là degli errori commessi nella vicenda – anche per l’assenza di un regista politico che gli evitasse un’esposizione diretta – Draghi è rimasto amareggiato per il fatto che non gli sia stato riconosciuto il ruolo svolto proprio nell’ultimo tornante della corsa per il Colle: quando cioè rappresentò a Mattarella il «pericoloso livello di confusione» che si era prodotto e gli chiese di rivedere i suoi progetti personali.
«Cosa faresti al mio posto?», gli domandò il capo dello Stato. «Dovresti restare». Adesso – come racconta un autorevole ministro – «è tornato sulla palla, perché è suo e nostro interesse che l’azione di governo vada a buon fine».
Per farlo, Draghi ripropone il metodo applicato fin da quando è entrato a palazzo Chigi: se c’è qualcosa che non va, lo dice. In passato ha fatto così con Letta e più volte con Salvini. Ieri è stato il turno di Conte e dei grillini, additati per le falle nel progetto del superbonus che hanno prodotto «azioni fraudolente per oltre due miliardi». E poco gli importa se i Cinquestelle siano insorti: la sua priorità è tutelare la crescita del Paese minacciata da quelle nuvole nere di cui aveva parlato con il presidente della Repubblica: la fiammata inflattiva e il balzo dei costi dell’energia, che minano la ripresa. Immaginando di diventare sempre più il bersaglio dei partiti con l’avvicinarsi delle urne, Draghi ha preso ad attaccare per difendersi e portare a compimento il progetto del Pnrr: la sua vera scommessa.
Ecco il motivo per cui ha reagito dinnanzi all’ennesima punzecchiatura, stavolta giunta da Tajani. Tra i due ci sono vecchie storie tese, risalgono alla formazione del governo, quando il premier non accolse la richiesta di Berlusconi d’inserire il dirigente forzista nella lista dei ministri. «Non posso farlo, perché lui è un leader di partito», spiegò Draghi. «Il leader sono io», rispose piccato il Cavaliere. Ieri Tajani, parlando dell’ex capo della Bce, ha detto di vederlo come «un eccellente presidente del Consiglio europeo o della Commissione europea». Una sorta di promoveatur ut amoveatur.
«Ringrazio i molti politici che con straordinaria sollecitudine mi candidano per tanti posti», ha replicato Draghi: «Ma se decidessi di trovarmi un lavoro lo farei da solo». Il modo tranciante con cui ha sgombrato il campo da ogni futura prospettiva politica – «lo escludo, sono stato chiaro?» – rende di fatto impraticabile qualsiasi ipotesi che possa immaginarlo ancora a palazzo Chigi.
Draghi tiene al suo profilo istituzionale. E un conto è aver fatto il presidente del Consiglio perché chiamato dal capo dello Stato a formare un gabinetto di emergenza nazionale «senza colore politico», nel finale di una legislatura.
Altra cosa sarebbe guidare subito dopo le elezioni un gabinetto retto da una maggioranza parlamentare, pure se fosse di larghe intese. Il rapporto con i partiti sarebbe diverso, anche in Consiglio dei ministri: dove da primus super pares, che è il suo status attuale, diverrebbe un primus inter pares. Insomma, gli orfani di Draghi si dovranno rassegnare a non poterlo strumentalizzare.
Gli altri potranno prepararsi a sostituirlo con un «premier politico», sapendo tuttavia che dovranno muoversi nel solco delle scelte fatte dall’attuale governo. In questo senso va interpretato il tour per l’Italia che il premier ha iniziato, e che serve – spiega un rappresentante dell’esecutivo – a «rafforzare la sua immagine nell’anno di campagna elettorale». Perché i partiti – per quanto malmessi – stanno già iniziando la competizione. E la sfida si giocherà attorno al perimetro di palazzo Chigi. Oggi con la riforma del Csm, domani con la Finanziaria.
(da il Corriere della Sera)
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