DAL SECESSIONISMO E DAL FEDERALISMO DI BOSSI ALL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
L’INVOLUZIONE DI UNA CHIMERA CHE NON SCALDA I CUORI PADAGNI
Che cosa è rimasto dell’indipendenza della Padania, del federalismo anzi della secessione, dell’autodeterminazione dei popoli, dello staccarsi a Roma per guardare a Monaco di Baviera, addirittura del minacciato scisma dalla Chiesa cattolica per confluire nelle chiese protestanti del Nord? Tutto questo era, è stato, fu la Lega: questi erano gli ideali del suo popolo, e solo fino a un certo punto si trattò di folclore.
Bene: di tutto questo è rimasta una discussione (non so quanto seguita dagli stessi elettori leghisti) sull’“autonomia differenziata”, termine gelido e perfino orribile che richiama alla mente i sacchetti dell’umido e le campane per il vetro, e che certo non scalda il cuore di quello che fu il popolo di Pontida.
Cerco di spiegare la materia con poche e sintetiche parole, perché ci si muove in un terreno freddo, burocratico, complesso, pieno di norme codici codicilli e commi.
L’autonomia differenziata è il riconoscimento, da parte dello Stato, dell’attribuzione a una regione a statuto ordinario di autonomia legislativa sulle materie di competenza concorrente e, in tre casi, di materie di competenza esclusiva. In base all’attribuzione a sé di queste competenze, le regioni possono trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive. Cerchiamo di semplificare ancora di più: ogni Regione tiene per sé una buona parte delle tasse che prima mandava a Roma per essere ridistribuite fra tutte le Regioni, e se le spende a seconda delle proprie, interne, necessità.
Tutto questo sarebbe permesso per ventitré capitoli di spesa, fra cui il commercio con l’estero, la tutela e la sicurezza del lavoro, l’istruzione, le professioni, la ricerca scientifica e tecnologica, la tutela della salute, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile, il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e navigazione, la comunicazione, l’energia, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, la cultura e l’ambiente, le casse di risparmio e gli enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Tutte queste “forme e condizioni particolari di autonomia” alle regioni sono previste dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Il quale, tuttavia, non è mai stato attuato perché si è tenuto conto del fatto che le regioni italiane non sono tutte ricche allo stesso modo, anzi: e concedere a quelle più ricche la possibilità di tenere per sé più entrate fiscali è considerato pericoloso. C’è il rischio di aumentare le diseguaglianze fra i cittadini.
Roberto Calderoli, che è un leghista della prima ora, ha presentato un disegno di legge per attuare questa autonomia differenziata. Disegno di legge contestato dalle opposizioni e da molti studiosi – che temono appunto che si possa spaccare il Paese – ma accolto con freddezza anche da ampie parti della maggioranza, Fratelli d’Italia per primi.
Uno dei punti cruciali sono i Lep, cioè i livelli essenziali di prestazione, che devono garantire “i diritti civili e sociali” in modo equo ai cittadini di tutto il Paese, e che con l’autonomia differenziata sarebbero a rischio. Tanto che proprio su questo tema c’è una commissione che deve garantire questi diritti civili e sociali in modo equo per tutti, e nei giorni scorsi quattro illustri membri della commissione medesima – Giuliano Amato, Franco Gallo, Alessandro Pajino e Franco Bassanini – si sono dimessi.
La legge sull’autonomia differenziata è dunque a rischio e Calderoli ha detto che, se non passa, lascia la politica, aggiungendo: “La lascio davvero, mica come Renzi”.
Sperando che il lettore abbia avuto la forza di giungere fino a qui, perché la materia è ostica, ecco, il punto è questo: sarà anche un’importantissima questione di competenze e soprattutto di soldi, questa autonomia differenziata: ma, ammesso che passi, era questo il sogno di Umberto Bossi? E del suo popolo?
La Lega nacque che si chiamava Lombarda, erano quattro gatti e all’inizio degli anni Ottanta spedivano nelle case dei cittadini con cognomi “dei nostri” (Brambilla, ad esempio) un giornaletto che si chiamava “Lumbard, tass”, lombardo taci. Il tema era il seguente: oggi i professori nelle nostre scuole sono in gran parte meridionali, non si parla più la nostra lingua, ci hanno silenziati.
Nasceva l’epopea e la retorica del Nord che la mattina presto tira su la saracinesca della bottega; che mantiene il Paese mentre i terroni vivono di sussidi, clientele, pensioni anticipate, false invalidità. Bollata dai giornali con troppa faciloneria come un fenomeno folcloristico, la Lega cresceva, il suo pensiero correva di bar in bar e di mercato in mercato (per mercato intendendo le bancarelle dei paesi, non la City), forte di quell’idem sentire di cui Bossi parlava.
E lo prendevano in giro, Bossi: con i suoi Rayban a goccia anni Settanta, le sue canottiere, il suo stuzzicadenti all’angolo della bocca, la sua “gabina elettorale”, il suo “laoro”, il suo “Nort”: ma Bossi aveva dietro a sé un popolo. E un progetto politico. Bello, brutto, giusto o sbagliato: ma un progetto politico forte, forse il più forte che circolasse in giro fra i partiti, tanto che il suo, di partito, che doveva sparire in un battibaleno secondo i giornalisti, è oggi il più longevo del Parlamento.
In principio fu, questo progetto politico, il federalismo del professor Gianfranco Miglio: la divisione del territorio italiano su base cantonale secondo il modello svizzero, con la costituzione di tre macroregioni (il Nord o Padania, il Centro o Etruria, il Sud o Mediterranea) più cinque regioni a statuto speciale.
Ci fu poi, dal 1995 al 1998, la svolta secessionista. Niente più federalismo: indipendenza. Bossi e suoi cominciarono con il rito dell’ampolla, prelevavano acqua dal Po a Pian del re di Crissolo e la portavano a Venezia. A Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova, fu istituito il Parlamento del Nord, che legiferava per conto proprio. A Bagnolo, Bossi arrivava verso le due del pomeriggio perché la mattina ha sempre dormito: arrivava e disfaceva gli articoli della Costituzione messi insieme la mattina dai vari Calderoli, Speroni, Castelli, Borghezio, Boso detto Obelix. I soliti giornali prendevano in giro tutto questo, dicevano che sembrava di essere a Paperopoli, ma Bossi – ripeto – aveva un popolo. Una notte arrivò, verso le tre o le quattro, in un bar a Ponte di Legno per giocare a calcio balilla e ordinare la sua cena, cioè gli immancabili spaghetti in bianco con Coca Cola. C’era un gruppo di tifosi dell’Atalanta che lo vide e lo accolse come un dio vichingo al grido “Bergamo nazione / il resto è meridione”.
Bossi aveva un popolo, un’idea. A Pontida si celebrava, ogni anno, la solenne liturgia. Chiunque andasse sul palco a parlare prima del Capo intercalava ogni discorso con “la nostra gente”. Anche Rosi Mauro che era nata a San Pietro Vernotico in provincia di Brindisi (l’avevate rimossa Rosi Mauro, vero?) diceva sempre così: la nostra gente.
Una sera, mi pare a Porta a Porta, Bossi annunciò che oltre a uno Stato voleva farsi una Chiesa: “Via da Roma”, disse, come Lutero aveva detto (e fatto) “Los von Rom”. Pochi giorni dopo lo colse un accidenti, la famosa e maledetta notte dell’ictus nella neve fra Gemonio e Varese, e qualcuno ipotizzò una punizione del Padreterno, offendendo più quest’ultimo che Bossi.
Ecco, tutto questo era, è stato, fu la Lega. Molte cose sono cambiate, Salvini soprattutto. E questa storia dell’autonomia differenziata – che pure è certo, economicamente, rilevantissima – passa ormai nell’indifferenza degli elettori e tutto sommato anche in quella della Lega stessa, un partito che ormai da tempo ha perso il dna, e che probabilmente vive oggi nella speranza che Giorgia Meloni prenda la guida di un polo conservatore per poter ritagliarsi uno spazio ancora più a destra. Lontanissimo, comunque, da Pontida e dintorni.
(da Huffingtonpost)
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