E’ PARTITA TRIVELLA SELVAGGIA: ALLA RICERCA DI GAS E ORO NERO NELL’ADRIATICO
DALLA PUGLIA ALLA SICILIA TUTTI CHE VOGLIONO PERFORARE, MA BENEFICI E DANNI NON SONO CHIARI
Un’esca che galleggia lenta nell’Alto Adriatico rischia di provocare una marea nera lungo tutte le coste italiane, dal Veneto alla Sicilia.
A lanciarla è stato l’ex premier Romano Prodi che, in una lettera al Messaggero, ha chiesto al governo di darsi una mossa per cogliere un’occasione d’oro.
In questo caso l’oro è nero, come petrolio.
Proprio lungo la linea di confine delle acque territoriali della Croazia, sotto 12mila km quadrati di mare, si nasconderebbero enormi giacimenti di gas e oro nero.
Basterebbe prenderli — assicura il professore — per migliorare la bilancia dei pagamenti, aumentare le entrate fiscali, ridurre la bolletta energetica e la dipendenza da Russia, Libia, Algeria.
Problema: rientra tra i tesori che l’Italia non sfrutta, scrive Prodi, per il principio di precauzione che tutto blocca.
Nel caso del Golfo di Venezia, le attività di esplorazione e coltivazione di idrocarburi sono bloccate dal 1991 per il rischio di subsidenza delle coste e lo rimarranno finchè Regione Veneto e Consiglio dei Ministri — supportati dagli enti di tutela ambientale — avranno accertato l’assenza di rischi in via definitiva. Ma in Italia, si sa, nulla è più definitivo del provvisorio.
La gara con la Croazia
Ecco servita, allora, l’altra ragione per trivellare in quell’area: se non lo facciamo noi, comunque lo fa la Croazia.
Il nostro dirimpettaio, quel tesoro, non intende farselo sfuggire. E corre tanto che a gennaio ha concluso la fase di prospezione dei fondali, entro fine anno assegnerà le concessioni di sfruttamento delle 19 piattaforme che dal 2019 inizieranno a pompare, secondo le stime, fino a 3 miliardi di barili.
La mossa, ragiona Prodi, mette due volte in difficoltà l’Italia: se non fa nulla rischia di condividere tutti i rischi dell’impresa croata (già evidenziati dal ritrovamento di carcasse di delfini e tartarughe lungo le coste italiane) e di lasciare tutti i vantaggi al governo di Zagabria; se si muove in ritardo rischia poi l’effetto “granita”, per cui chi succhia per primo dallo stesso giacimento mette in pancia la parte più nobile e ricca di idrocarburi. L’idea di uscire dall’angolo deferendo il vicino a un arbitrato internazionale non sfiora il governo. E non solo per le scarse possibilità di successo.
Il fatto è che la contesa a largo di Chioggia, con le sue contraddizioni, potrebbe segnare il match point di una partita ultraventennale che vede contrapporsi, anno dopo anno, gli evocatori della nuova Dallas italiana e le associazioni di ambientalisti, pescatori e cittadini non arresi all’imperio del petrolio.
Una tempesta perfetta in un bicchier d’acqua, vista l’estensione dell’area marina, che consentirebbe però ai primi di schiacciare le resistenze dei secondi sotto il peso di mirabolanti vantaggi economici.
Prodi ricorda, ad esempio, che se l’Italia accelerasse su progetti e giacimenti già individuati “potrebbe produrre 22 milioni di tonnellate entro il 2020, con investimenti per 15 miliardi di euro e dare lavoro a decine di imprese”.
Messaggio diretto anche a Palazzo Chigi: “Come i governi precedenti non sa dove trovare i soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni…”.
E che fa il Governo? Al richiamo della sirena risponde subito Federica Guidi, ministro del Petrolio in pectore.
“Non solo in Adriatico ma in diverse zone del Paese, spesso localizzate nelle regioni più svantaggiate del Mezzogiorno, abbiamo importanti giacimenti. Non capisco perchè dovremmo precluderci la possibilità di utilizzarli, pur mettendo al primo posto la tutela dell’ambiente e della salute”, ha detto all’ultimo G7.
Il governo ha dunque intenzione di dar seguito agli strampalati obiettivi della “Strategia energetica nazionale” che un dimissionario governo Monti ha lasciato in eredità , con l’indicazione di raddoppiare la produzione di idrocarburi nazionali entro il 2020, tornando ai livelli degli anni Novanta, e di portare il loro contributo al fabbisogno energetico dal 7 al 14 per cento.
La leva individuata nella Sen per “liberare” questo potenziale imprigionato nella roccia è la stessa chiesta a gran voce dai petrolieri: accelerare e semplificare le procedure di rilascio dei titoli minerari.
La risposta è un “nuovo modello di conferimento dei permessi che preveda un titolo abilitativo unico per esplorazione e produzione, con anche un termine ultimo per gli enti interessati dalle procedure di valutazione”, fanno sapere dal Mise.
Una volta passato il termine, la decisione spetta solo al Consiglio dei Ministri (come previsto dal DL 83/2012).
In pratica si ridimensiona, fino a estrometterli del tutto dai processi di valutazione, proprio quegli enti, territori e associazioni che negli ultimi 20 anni hanno dato battaglia contro la devastazione ambientale e accresciuto la sensibilità pubblica in tutto il Paese
Lo sblocco delle piattaforme
“L’effetto sarebbe devastante”, spiega Giorgio Zampetti di Legambiente. In una manciata d’anni, dalla dorsale adriatica alle coste dell’Abruzzo, fino al tratto di mare tra Sicilia e Malta, si assisterebbe a un’epopea delle trivelle in mare che non ha precedenti.
Alle 105 piattaforme e ai 366 pozzi attivi oggi nell’offshore italiano si aggiungerebbero quelli derivanti dallo sblocco di 44 istanze per permesso di ricerca e 9 istanze di coltivazione depositate dalle compagnie.
Per non dire dell’effetto-calamita che una regolazione del settore ancor più favorevole ai produttori avrebbe sulla presentazione di ulteriori richieste.
Senza scomodare gli scenari dei rischi e dei costi ambientali che tutto questo comporta tocca chiedersi: a che pro?
Alessandro Giannì, direttore della campagne di Greenpeace, non ha dubbi. “Questa campagna per le perforazioni si basa su presupposti falsi. I nostri fondali marini non sono poi così ricchi di giacimenti, come si vuol far credere. Le riserve certe ammontano a soli 10,3 milioni di tonnellate di petrolio che, ai consumi attuali, sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno nazionale per qualche mese. Alla luce di questo vorrei che qualcuno ci spiegasse che senso ha questa corsa al raddoppio delle produzioni che espone le nostre coste, soprattutto quando i consumi nazionali di idrocarburi sono in costante calo”.
Obiezione cui ministero (e petrolieri) rispondono all’unisono: “Lo Stato avrà sempre valori delle riserve sottostimati se agli operatori non viene concessa la possibilità di condurre operazioni di accertamento e quantificazione delle potenzialità del sottosuolo”, replica Franco Terlizzese, capo della direzione per le risorse minerarie ed energetiche del Mise.
“Anzichè ragionare su come aumentare la produzione d’idrocarburi — insiste Zampetti — potremmo mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili, a partire da settori arretrati come l’autotrasporto cui in 10 anni abbiamo regalato qualcosa come 4 miliardi tra buoni carburante, sgravi fiscali e bonus pedaggi autostradali. Basterebbe usare diversamente quei soldi per incentivare il trasporto merci su rotaia e ridurre senza sforzi la nostra bolletta petrolifera”.
Ma su questi temi la “svolta buona” sembra lontana.
Far consumare carburante in Italia – attraverso tasse, accise e Iva — resta il modo più comodo per ripagare buona parte della spesa corrente dello Stato.
Il petrolio, a suo modo, è welfare.
Rendere altrettanto profittevole l’oro blu richiederebbe ai decisori pubblici ben altro impegno.
Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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