IL CAPITANO GARANTISTA SOLO CON VLAD
DAVANTI AL REGIME PUTINIANO VIENE MENO IL GIUSTIZIALISMO CHE SALVINI RISERVA A IMMIGRATI, MAGISTRATI E SCIENZIATI
C’è un solo personaggio che suscita in Matteo Salvini riflessi garantisti: Vladimir Putin. C’è solo un tipo di magistrati che ha la sua fiducia a prescindere: gli inquirenti nominati da Putin. C’è solo un tipo di scienziati che giudica incontestabili: i medici che Putin incaricherà dell’autopsia su Alexei Navalny.
Davanti all’autocrazia di Mosca i capisaldi del pensiero salviniano cambiano di segno. Cade il giustizialismo del “buttate le chiavi” utilizzato in ogni vicenda di cronaca, cade la diffidenza verso i magistrati engagé, cade il pregiudizio complottista sulla scienza che portò ripetutamente in piazza la Lega contro chi spiegava la necessità di vaccinarsi
Le dichiarazioni del vicepremier sulla morte del più celebre dissidente russo – «Bisogna fare chiarezza, ma la chiarezza la fanno giudici e medici, non la facciamo noi» – hanno un significato molto chiaro: Salvini rifiuta di prendere posizione su un delitto che ha scosso l’intero mondo libero e delega ogni giudizio alle autorità del Cremlino, che evidentemente ritiene assolutamente credibili. Lo fa platealmente, il giorno dopo la fiaccolata romana per Navalny alla quale i suoi hanno partecipato, con la chiara intenzione di minimizzare quell’adesione e ribadire la sua fiducia nel regime di Mosca.
Le contraddizioni del leader leghista, le distanze tra il suo abituale giustizialismo e questo inchino ai diritti dell’ “accusato Putin”, sarebbero solo uno dei soliti corto-circuiti italiani, uno dei tanti esempi del doppio binario della nostra politica – severa con gli avversari, generosissima con gli amici – se non chiamassero in causa questioni enormi. Al momento Salvini è il solo esponente di governo in tutta Europa a sposare la linea russa della “morte senza un perché”.
Persino Viktor Orban non se l’è sentita e ha lasciato cadere il veto ungherese al tredicesimo pacchetto di sanzioni contro Mosca. Persino l’onnipotente Elon Musk ha dovuto inchinarsi all’indignazione del mondo riattivando l’account X della vedova Navalny, con il suo atto d’accusa contro Putin, pochi minuti dopo averlo oscurato. L’unicità della posizione del nostro vice-premier rischia di ricordare a tutti l’unicità italiana: siamo i soli, tra i grandi Paesi d’Europa, ad avere al governo un partito e un leader incapaci di riconoscere il rischio russo, sia sotto il profilo geopolitico sia come minaccia ai diritti consolidati dalle democrazie: la libertà di pensiero, di espressione, di manifestazione, di dissenso.
Le stesse libertà che sono costate a Navalny una persecuzione costante, un tentativo di avvelenamento, una detenzione crudele, e infine la morte. No, l’ultimo caso Salvini non è solo una piccola questione di doppiopesismo. Il capo della Lega marca una posizione ideologica precisa, in linea con la sua vecchia simpatia per il padrone del Cremlino, con le t-shirt putiniane di una volta, con i video da Mosca «città pulita, dove non c’è un mendicante, non c’è un lavavetri, non c’è un rom, non c’è un rompiscatole». Ed è immaginabile che, nella visione salviniana, Alexei Navalny, appartenga a quest’ultima categoria: i “rompiscatole” che insidiano con le loro proteste e rivendicazioni il perfetto equilibrio della Casa Russia, mettendo a rischio la continuità presidenziale che l’ha resa grande. Loro sì che meritano il “buttate le chiavi” di buona memoria, e poco importa se si realizza nel modo più spietato, in un gulag oltre il circolo polare artico, senza testimoni né spiegazioni, senza nemmeno un corpo su cui le madri e le mogli possano piangere.
(da lastampa.it)
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