IL CASO DEL GOVERNO ALL’ASSALTO DEL SALONE DEL LIBRO DI TORINO: LA PRESSIONE È ARRIVATA SOTTO FORMA DI RICHIESTA DI “AFFIANCARE” ALLA DIREZIONE DI GIORDANO 4 INTELLETTUALI DI AREA DI CENTRO-DESTRA
MA LA CREAZIONE DI UNA CLASSE INTELLETTUALE RICHIEDE TEMPO, NON ASSALTI
«Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato!». Così, in un celebre corsivo, Palmiro Togliatti attaccò, sarcastico, lo scrittore quando nel 1951 dichiarò pubblicamente che non era più comunista. Era il punto di arrivo di uno scontro drammatico che si era consumato tra il romanziere siciliano e il segretario del più grande partito comunista d’Europa sulle pagine de Il Politecnico, una delle più belle riviste del Dopoguerra, diretta da Elio Vittorini, legata al Pci e finanziata dall’Einaudi.
Alle mazzate dei dirigenti comunisti Vittorini rispose che la letteratura non poteva «suonare il piffero della rivoluzione»: la rivista uscì dalla polemica a capo chino, rifilata e censurata, prona al diktat della politica, e poco dopo morì. Non aveva più ragione di esistere: testimoniava così che la cultura non si può occupare a colpi di dirigismo politico e di ordini su cosa la letteratura, l’arte, il cinema e i giornali debbano fare.
La storia stranamente si ripete. Di recente allo scrittore Paolo Giordano è stato chiesto dalla politica, questa volta di destra-centro, di “suonare il piffero” alle richieste dei suoi partiti.
Il narratore, in procinto di tagliare il traguardo della direzione del Salone del libro di Torino, ha denunciato: «Sono state fatte richieste specifiche per dei nomi da includere nel comitato editoriale, aspetto su cui non avrei potuto negoziare. La cultura, e il Salone del libro, non meritano di essere lottizzati dal partitismo».
La pressione esercitata dal partitismo è arrivata sotto forma di richiesta di “affiancare” alla direzione di Giordano quattro intellettuali di area di centro-destra.
Il tentativo di assaltare la cittadella del Salone torinese non è un fenomeno isolato: si manifesta come un ulteriore, per il momento non riuscito, escamotage degli “uomini nuovi” di scalare il mondo della cultura.
Emerge ancora una volta il desiderio degli underdog intellettuali della nostra destra di uscire dalla marginalità e di sostituirsi a quella che considerano l’egemonia culturale della sinistra. L’ambizione si è manifestata fin dalle prime sortite del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Neoeletto, ha subito annunciato di voler programmare «il recupero dell’identità della nazione, soprattutto come identità culturale, oltre che linguistica e geografica». In questo contesto è arrivata la sua rivelazione della scoperta di Dante «fascio», come scherzosamente ha detto il vignettista Osho, o in camicia nera o comunque come esponente di una cultura di destra.
A Sangiuliano si è accodato il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara che ha esortato a «ripartire da noi stessi, ad amare di più la nostra gente, il vicino di casa, la nostra cultura» e ha progettato per gli scolari lo studio del folclore e delle realtà locali. Poi è arrivata la battaglia per la cancellazione del bonus cultura per i giovani: un modo, anche questo, per far la voce grossa e rimettere in riga ragazzi orientati verso consumi assai poco legati alla “nazione” e molto esterofili o “cosmopoliti” che dir si voglia.
Come dimostra il caso del Politecnico – o come appare dalle tormentate vicende della cultura novecentesca schiacciata dai regimi dittatoriali – la produzione intellettuale non si può completamente irregimentare, si può soffocare e noi possiamo in emergenza ricorrere ai samizdat e affini
(da la Stampa)
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