IL PAREGGIO DI BILANCIO: QUANDO LE CAMERE BRINDARONO AL “LACRIME E SANGUE”
COME FU CHE IL PARLAMENTO, ALL’UNANIMITà€, CI IMPOSE IL VINCOLO SUL DISAVANZO… L’EROISMO SOLITARIO DI IANNACCONE
Nell’aula della Camera, proprio mentre gli afflati europeisti toccavano vette tuttora inesplorate, il solo Arturo Iannaccone — medico avellinese di tradizione Dc, passato nel Ccd, poi nell’Udc, poi in Mpa e infine in Noi Sud — faceva sentire la voce della sinistra politica: “Riteniamo che sia sbagliato imporre ulteriori vincoli. Stiamo rincorrendo questa folle corsa della Germania a realizzare un’Europa austera che non guarda alla crescita e alle condizioni dei più deboli, ma solo al rigore e ai bilanci”.
La battaglia contro l’austerity, Iannaccone, la faceva già nel novembre 2011, quando la patria si stringeva attorno a Mario Monti e votava in cinque minuti l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio.
Per unico alleato trovò Giorgio La Malfa: “Se questa norma venisse intesa nel senso letterale daremmo addio agli investimenti in questo Paese”, scolpì a uso dei distratti colleghi.
Ancor peggio andò in Senato: l’unico a sventolare la bandiera rossa fu Mauro Cutrufo, democristiano pure lui, ma in forza al Pdl.
BREVE RIEPILOGO
Forse Matteo Renzi non lo sa, ma ha ragione: il vincolo del 3 per cento tra deficit e Pil è “anacronistico”.
Nel senso che il Parlamento italiano — all’unanimità — solo due anni fa ha avuto modo di darsene un altro assai più stringente: il pareggio di bilancio, appunto, cioè il vincolo dello zero per cento. Il pareggio, o equilibrio, di bilancio è stato introdotto nella Costituzione italiana il 20 aprile del 2012: regnava — da cinque mesi — Mario Monti, ma lo zero per cento era nato già con Silvio Berlusconi.
Deriva infatti dal patto “Europlus” del marzo 2011, da cui nasce il Fiscal Compact, e compare anche nella famosa lettera della Bce al governo dell’agosto 2011.
Fu, infatti, proprio il governo dell’ex Cavaliere a presentare alle Camere (il 7 settembre) un ddl per inserire il pareggio di bilancio all’articolo 81 della Carta.
Si trovò in buona compagnia visto che ddl analoghi li avevano presentati quasi tutti i partiti: dal Pd (prima firma Pier Luigi Bersani) a Italia dei Valori, dal Pdl al Terzo Polo.
Il dibattito sul tema cominciò in ottobre alla Camera, entrò nel vivo a novembre, dopo il cambio di governo, ad aprile era tutto finito. Rileggerlo è istruttivo.
La voglia di bondage economico — mani legate, sacrifici, tagli — dei partiti italiani in quei giorni aveva raggiunto il culmine, anche di quelli come Forza Italia o Lega Nord che oggi vogliono la rivolta contro l’Europa.
IL PAREGGIO?
Non basta, fateci soffrire di più, smaniavano i parlamentari d’ogni colore (eccetto Iannaccone). Prendiamo Pier Paolo Baretta, Pd, sottosegretario all’Economia di Renzi: “Il metro di misura del risanamento è un bilancio non in rosso. Il discrimine non è obbligatoriamente l’avanzo, che pure non guasta, ma certo l’abbattimento del disavanzo”.
Giuseppe Marinello, Pdl, uomo di Angelino Alfano, vedeva già il sangue per le strade: “Non sono bastate le lezioni del Cile del 1973, dell’Argentina degli anni scorsi, della Grecia quest’anno? Paesi dove un welfare insostenibile ha alimentato il debito e poi portato alla bancarotta e alla guerra civile”.
Il berlusconiano, poi montiano, Giuliano Cazzola, addirittura si astenne per protesta: “La norma doveva essere netta: non può contenere riserve che consentano di derogare al pareggio”.
Pure un altro montiano, Benedetto Della Vedova, voleva di più: “Mancano strumenti che ‘inchiodino’ la politica” (oggi è sottosegretario di quello che il 3 per cento è anacronistico).
Pure Francesco Barbato (Idv) partecipò a suo modo: “Basta cda pubblici, basta auto blu, basta casta!”.
Alcuni, va detto, fecero sfoggio di erudizione fuori dal comune.
L’attuale viceministro all’Economia Luigi Casero, allora Pdl, ricorse ad arditi paragoni scientifici: “È la fisica che dimostra che una leva troppo lunga, la leva finanziaria, si spezza quando deve sollevare pesi troppo elevati come l’economia occidentale”.
Peppino Calderisi, altro berluscones: “Lo short-termism che caratterizza le moderne democrazie di massa riduce drammaticamente gli spazi per un uso coerente del deficit spending”.
Roberto Simonetti, Lega Nord: “L’economia sociale di mercato ha messo in crisi il dogma del pareggio di bilancio che fu raggiunto in tempi lontani, per esempio nel 1897, dal biellese Quintino Sella. Lo dico da presidente della provincia di Biella”.
Daniela Melchiorre, Liberaldemocratica già diniana, inneggiò alla cosa — per così dire — con la doppietta: “È un segnale forte e chiaro in un momento di incertezza e travaglio per la nostra economia e il nostro Paese”.
Altri, invece, lo dicevano da anni che bisognava pareggiare.
Tipo Renato Cambursano di Italia dei Valori: “Questo impegno avremmo dovuto assumerlo molto prima… Siamo in ritardo”.
Ma di quanto? Rispose Linda Lanzillotta, ex ministro: “È un passaggio importante anche se arriva, purtroppo, con trent’anni di ritardo”.
Altri, in questa orchestra, sceglievano senz’altro di suonare il trombone. Antonino Lo Presti, finiano: “È un momento solenne, una svolta di portata storica per il legislatore italiano, che sceglie di vincolare le proprie decisioni future al rigore finanziario”.
Enrico Letta, ex premier: “Noi assumiamo questa sfida: la assumiamo per il destino dei nostri paesi, per il destino di noi europei e, soprattutto, per il futuro dei nostri figli”.
Gianclaudio Bressa, Pd, dopo aver scomodato Luigi Einaudi, Ezio Vanoni e Costantino Mortati, concludeva leggermente su di tono: “Torniamo protagonisti del riscatto della democrazia parlamentare!”.
Ci voleva un vero democristiano come Roberto Occhiuto, giovine deputato Udc, per riportare il tutto ad una dimensione più consona: “Tutti negli anni abbiamo sbagliato: chi più, chi meno”.
E in coerenza con questo aureo principio alla Camera, in due letture, si contarono solo 3 voti contrari, in Senato nessuno.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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