INDUSTRIA DISTRUTTA, I NUMERI DEL TRACOLLO
PERSO IL 15% DELLA BASE PRODUTTIVA: 55 MILA AZIENDE , 539 MILA POSTI, UN QUARTO DELLA PRODUZIONE. DAL 2008, PIL GIÙ DELL’8,6%
La ripresa. Oramai è un essere mitologico il cui avvistamento è predetto di sei mesi in sei mesi da governi e economisti.
Basta poco ad eccitare gli animi: ora c’è una tenuta della produzione industriale a giugno (-0,1%) a far sperare gli ottimisti, che però dimenticano che quel dato è su base mensile, mentre rispetto a un anno fa il calo è del 2%.
“Non sappiamo se siamo alla fine della caduta o all’inizio di una ripresa”, diceva ieri Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma.
Che succede, però, mentre aspettiamo l’unicorno del rilancio?
Il nostro sistema manifatturiero — il secondo in Europa, il settimo nel mondo, con una quota di oltre il 3% sul commercio mondiale — chiude o perde pezzi o finisce in mani straniere (il che vuol dire che gli utili che produrrà emigreranno nel paese di residenza dei nuovi proprietari): quando e se la domanda ripartirà , in altre parole, non saremo in grado di cavalcarla.
La fotografia l’ha fatta qualche settimana fa il Centro studi di Confindustria e non è piacevole: tra il 2009 e il 2012 è andato distrutto oltre il 15% della base produttiva industriale; nello stesso lasso di tempo sono sparite 55mila aziende, una quarantina al giorno; tra il 2008 e il 2012 i posti di lavoro persi nel solo manifatturiero ammontano a 539mila “e si tratta di un bilancio provvisorio perchè questa crisi non è ancora finita”, dice il vicepresidente di Confindustria Fulvio Conti.
Anche perchè, la stretta del credito sta ormai uccidendo persino le aziende sane, quelle che anche ora farebbero utili.
In generale, sempre secondo le stime del Csc, la produzione industriale italiana nei primi tre mesi del 2013 risultava di quasi il 25% più bassa rispetto a quella del 2008 (prima dell’inizio della crisi), il Prodotto interno lordo era invece inferiore del-l’8,6% a paragone di quello di cinque anni fa, mentre la disoccupazione — come rivelato dall’Istat — ha raggiunto ormai il record da quando esistono le rivelazioni trimestrali (1977): tasso al 12,2%, oltre tre milioni di persone a spasso, il 38,5% nella fascia d’età 15-24.
Com’è chiaro tanto dai dati quanto dall’opinione degli interessati, questa è una crisi di domanda.
Nelle ultime interviste semestrali che la Bce ha fatto alle imprese, la principale preoccupazione degli operatori risulta essere la ricerca di clienti: non la burocrazia e nemmeno la detassazione delle assunzioni, ma trovare a chi vendere.
In Italia, per dire, nel 2012 i consumi finali delle famiglie sono calati del 4,3% (e soprattutto nell’acquisto di beni), gli investimenti fissi lordi sono scesi addirittura dell’8% penalizzando particolarmente mezzi di trasporto, macchinari, attrezzature e costruzioni , l’ossatura del nostro sistema produttivo.
Ovviamente questi numeri hanno effetti anche sulle finanze pubbliche.
Per due motivi: da un lato i numeri del bilancio — ad esempio deficit e debito — vengono misurati non tanto in sè, quanto proprio in rapporto al Pil, dall’altro meno ricchezza prodotta significa minori entrate per le casse dello Stato (“il gettito Iva ha avuto un calo indecoroso”, secondo la direttrice del Dipartimento delle Finanze del Tesoro).
E così i vari governi si trovano costretti ad ulteriori manovre correttive di tagli e/o tasse che hanno l’effetto di deprimere ulteriormente l’economia: è tanto vero che secondo il Fondo monetario internazionale il vero punto di equilibrio per il rapporto deficit/Pil italiano arriverà a metà del prossimo decennio.
I bilanci pubblici insomma — come ha spiegato ieri anche il sito del Sole 24 Ore con un articolo di Vito Lops — sono le vittime di una crisi che inizia nel settore privato con un’esplosione del debito estero nei paesi periferici, inondati nel decennio scorso dai capitali degli stati del nord (Germania in testa) liberati dal rischio di cambio dall’unione monetaria.
Quando la bomba esplode, viene richiesto l’immediato rientro di quei debiti ed è a questo punto che la faccenda si scarica — attraverso, ad esempio, salvataggi bancari, spesa sociale che sale e Pil che decresce — anche sulle finanze pubbliche.
A questo punto, in Europa, arrivano a finire il lavoro i rigidi vincoli di bilancio europei, sostanzialmente quelli imposti dai paesi creditori ai paesi debitori : pareggio di bilancio, rapida riduzione del debito pubblico.
Questo significa che l’unico soggetto in grado di rilanciare la domanda durante una recessione, lo Stato, non può farlo: prova ne sia che negli anni di crisi (2008-2012) la spesa pubblica per investimenti — quella che più incide su domanda e Pil — è calata addirittura del 35% divenendo in sostanza irrilevante.
Però, dice il ministro, tra qualche mese arriverà la ripresa.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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