RICATTI E MINACCE: TUTTI I MESSAGGI DI TOTO’ RIINA ALLA POLITICA
CONTINUA A DIPINGERSI COME CAPRO ESPIATORIO EPPURE OGNI VOLTA LANCIA AVVERTIMENTI PER RICORDARE CHE LUI SA TUTTO. E PUà’ PARLARE
A farlo parlare provò, il 22 aprile del ’96, il capo della Direzione Nazionale Antimafia Pierluigi Vigna, accompagnato dal suo vice Piero Grasso.
Ma “Totò ‘u curtu”, scuotendo la testa, lo raggelò: “Parlare? Dottore, la prego, si fermi qui, non la pronunci neanche quella parola. Voi sbagliate persona”.
Si è sempre proposto come il più fedele apostolo dell’omertà .
Eppure Riina Salvatore, classe 1930, da Corleone, una decina di ergastoli sulle spalle (compresi quelli per Capaci, via D’Amelio e le stragi del ’93), negli ultimi vent’anni passati tra l’isolamento del 41-bis e le aule giudiziarie di tutta Italia, di parole ne ha spese tante.
Per ribadire, sostanzialmente, sempre lo stesso concetto: “La verità è che allo Stato io servo come parafulmine, perchè tutto quello che è successo in Italia alla fine si imputa a Riina”.
L’ossessione del Capo dei Capi, insomma, è una sola: quella di essere un capro espiatorio, una vittima sacrificale di oscuri patti tra politica e magistratura che, come il boss ha spiegato agli agenti del Gom, costituiscono “la vera mafia: si sono coperti tra loro e scaricano ogni responsabilità sui mafiosi”.
La sua teoria è che i pentiti “dicono fandonie e si prendono per mano”, ovvero concordano le loro deposizioni, come dichiarò fresco di cattura il 9 marzo del ’93 nell’aula bunker dell’Ucciardone.
In quell’occasione venne zittito dall’allora pm Vittorio Teresi.
Ma un anno dopo, a Reggio Calabria, nel processo per l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, il superboss alzò il tiro verso il governo e lo mise in guardia dal “giustizialismo di sinistra”: “Io dico che un governo vale l’altro. Ma c’è sempre il partito. Sono i comunisti che portano avanti queste cose: il signor Violante, il signor Caselli da Palermo. C’è tutta una combriccola… loro portano avanti queste cose. Il governo si deve guardare da questi attacchi comunisti”.
La politica è la sua mania. E ai politici sono rivolti quasi sempre i messaggi dello ‘zu Totò dal carcere. Pochi giorni fa si è professato “di area andreottiana”, eppure il 10 giugno 2008, durante un colloquio in carcere con moglie e figlia, confidò la sua ammirazione per l’allora presidente del Senato: “Schifani è una mente”.
Nel luglio 2010, intercettato in carcere con il figlio, si abbandonò invece a uno sfogo di natura opposta: “Berlusconi, che ci credo poco e niente, la vita che faccio con questo… io mangio come un pazzo e metto su chili”. Pillole di veleno.
Che siano foriere di ricatti oppure di minacce, le parole del Capo dei Capi hanno sempre un significato doppio e usano i codici mafiosi, mescolando abilmente verità e menzogna.
Come quando, nell’estate 2009, incaricò il suo avvocato Luca Cianferoni di divulgare il suo pensiero sullo stragismo.
“L’ammazzarono loro”, disse, parlando di Paolo Borsellino. E poi — riferendosi agli uomini dello Stato — aggiunse: “Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi”.
Da allora il leitmotiv del Riina-pensiero è tutto qui: tirarsi fuori dalla carneficina delle stragi e lanciare avvertimenti, per far capire a chi di dovere che lui sa tutto di quel periodo, che se volesse potrebbe parlare, e che il suo preziosissimo silenzio ha sempre un prezzo.
Ma quale? Il 10 marzo 2009, a Firenze, nel processo per la mancata strage dell’Olimpico, il superboss si scatenò: “Nel processo Falcone c’è un aereo nel cielo che vola mentre scoppia la bomba: questo aereo non si può trovare di chi è, e così si condanna Riina perchè fa comodo. E il processo Borsellino? Lì sul monte Pellegrino c’è l’hotel con i servizi segreti, quando scoppia la bomba i servizi scompaiono, però non vengono mai citati perchè si condanna Riina, perchè l’Italia è combinata così”.
Il boss, però, volle far sapere che non ci stava, e da capo dell’Antistato si paragonò all’inquilino del più alto Colle: “Signor Presidente, lei ricorda quando Scalfaro disse ‘Non ci sto’, io ora devo dire lo stesso: non ci sto, non ci sto a queste condanne così, queste sono condanne di Stato fatte a tavolino”.
Qualche tempo fa, dopo un’ennesima condanna all’ergastolo, Riina in carcere è sbottato: “Questi vogliono farmi morire, ma sarò io a far morire loro”.
E come? L’unica arma di un vecchio boss detenuto è la parola.
Proprio quella che lui utilizza con un sapiente dosaggio di messaggi, anche nei confronti dei “servizi”: “Non ho mai sentito parlare dell’esistenza del signor Franco o del signor Carlo — ha dettato a verbale ai pm nisseni —. Io gliel’ho detto: mi chiamo Riina… Riina… questo è Riina, accetta Riina per quello che è…”.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizzo
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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