INTERVISTA A CESARE ROMITI: “MARCHIONNE OTTIMO NEGOZIATORE, MA BISOGNA VEDERE CHI HA SALVATO CHI”
PARLA L’UOMO AZIENDA PER 22 ANNI ALLA FIAT: “NEL 1990 CI TIRAMMO INDIETRO PER I TROPPI DEBITI DI IACOCCA”
«Fiat-Chrysler? Faccio i miei auguri al Lingotto. Quando trattammo l’avvocato Agnelli e io per comprare Detroit da Lee Iacocca nel 1990 ci tirammo indietro perchè i debiti della società Usa rischiavano di trascinare a fondo noi. Mi auguro che oggi i conti di Chrysler siano diversi… Ma, è ovvio, spero che tutto vada bene».
Cesare Romiti è rimasto al volante della Fiat per 22 anni, dal 1976 fino al 1998.
Il blitz americano di Marchionne — per lui che trent’anni fa fu a un passo dalla stessa acquisizione a stelle e strisce — è un deja-vu senza troppi rimpianti. E soprattutto — assicura — è un’operazione vitale per il gruppo torinese colpevole negli ultimi anni di «mancanza di coraggio sugli investimenti».
Come giudica l’operazione dottor Romiti?
«È indubbio che Marchionne sia stato un ottimo negoziatore. Ma non saprei dire chi ha salvato chi tra le due società . L’avvocato Agnelli e io siamo stati accusati anche negli ultimi giorni di esserci lasciati sfuggire la Chrysler negli anni ’90. Non è vero. Rinunciammo noi ad acquistarla, dopo molte riunioni e con dispiacere. Ma allora i conti non tornavano. Noi eravamo perplessi e Umberto Agnelli era addirittura profondamente contrario: i guai di Detroit rischiavano di affondare la Fiat. Spero ora abbiano fatto bene i conti e che i numeri siano cambiati. Se non fosse così, faccio i miei auguri…»
Non crede che oggi come oggi la Fiat senza Chrysler avrebbe rischiato di andare a fondo lo stesso?
«Non lo so. Di sicuro io imputo al Lingotto la mancanza di coraggio sugli investimenti degli ultimi anni. Da molto tempo non si vedono nuovi modelli e gli investimenti sulla produzione e nei paesi emergenti sono fatti con il contagocce. Facendo così si sono persi molti treni».
Non rischiavano di essere soldi buttati dalla finestra?
«No, è stato un errore. Noi nei periodi di crisi ne approfittavamo per investire di più. Buttavamo sul mercato nuove autovetture all’avanguardia, puntavamo sulla progettazione. Nel 1974 dopo la crisi petrolifera di soldi ce n’erano pochi. Ma abbiamo avuto il coraggio di costruire lo stabilimento di Belo Horizonte in Brasile che — me lo lasci dire con soddisfazione oggi — ha tenuto in piedi per tanti anni i conti della Fiat».
Il sindacato teme che ora Fiat trasferisca la produzione verso gli Usa a danno degli stabilimenti italiani. C’è davvero questo rischio?
«Non voglio entrare in campi che non mi competono. Qualche dubbio ce l’ho, ma preferisco tenerlo per me…».
Come giudica il ruolo della politica nella partita Fiat e più in generale della difesa del sistema manifatturiero tricolore?
«La politica non è intervenuta nè ha chiesto garanzie al Lingotto. Ormai scende in campo solo a cose fatte, quando c’è da sistemare le questioni sindacali. Per carità , anche quello è necessario. Ma i risultati di questalatitanza si vedono. Qualche anno fa l’Italia aveva cinque o sei grandi aziende di respiro mondiale. Oggi non ce ne sono più. Colpa di tutti, maggioranze e opposizioni. E ora rischiamo pure di perdere Telecom Italia».
Colpa solo della politica o c’è anche lo zampino di un’imprenditoria inadeguata alla sfida della globalizzazione?
«Di tutte e due. Di sicuro l’imprenditoria di casa nostra si è seduta sugli allori e non si è rinnovata in tempo. Ha fatto la scelta provinciale di non scommettere sull’estero preferendo la sicurezza del mercato domestico. E oggi paghiamo il conto».
Nostalgia della sua Mediobanca? Molti dicono che proprio il sistema un po’ asfittico dei salotti buoni e dei patti di sindacato sia una della cause principali del declino dell’Italia Spa…
«Mediobanca ha fatto un lavoro eccezionale. Ha rimesso in piedi il sistema nel dopoguerra e creato gruppi di dimensioni globali. Ma i tempi cambiano. Oggi non ci sono più un Raffaele Mattioli, una Banca Commerciale e un Enrico Cuccia, artefici di questo processo. E l’addio ai patti sindacato e al capitalismo di relazioni, in un mondo del tutto differente, è un fatto del tutto fisiologico».
Ettore Livini
(da “La Repubblica”)
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