INTERVISTA A EDOUARD LOUIS: “HO VOTATO MELENCHON, ANCHE SE NON LO AMO VOTERO’ MACRON”
LO SCRITTORE: “LA VERA NOVITA E’ MELENCHON CHE HA GUADAGNATO DIECI PUNTI, NON MARINE LE PEN CHE NE HA PERSI OTTO”
Lo scrittore francese à‰douard Louis risponde da New York dove sta presentando l’edizione americana dei suoi due romanzi «Il caso Eddy Bellegueule» e «Storia della violenza» (finalista al premio Gregor von Rezzori di Firenze).
Orienta per un istante il computer per mostrare via Skype i grattacieli di Manhattan, sorride, poi accetta di parlare di politica, quindi di sè.
Per chi ha votato al primo turno?
«Jean-Luc Mèlenchon. Per la prima volta dopo decenni una parte delle classi popolari si è finalmente sentita rappresentata dalla sinistra, e questo per me è il dato più importante delle presidenziali. Mio fratello minore 18enne mi ha scritto un’ email per dirmi che faceva il volontario per Mèlenchon. Una rottura straordinaria con il nostro ambiente. In un villaggio dove alle elezioni europee il Front National ha preso più del 50%, se mio fratello vota Mèlenchon è successo davvero qualcosa a sinistra».
In «Eddy Bellegueule» lei descrive la sua famiglia di sottoproletari poverissimi del Nord della Francia, elettori entusiasti della dinastia Le Pen.
«Quando Jean-Marie Le Pen passò al secondo turno, nel 2002, mi ricordo l’esplosione di gioia di mio padre davanti alla tv, era commosso fino alle lacrime. Nel nostro piccolo villaggio mio padre accompagnava mio nonno e mia sorella fin dentro il seggio per verificare che votassero FN».
Come mai questa passione per il FN?
«Dicevano sempre “in ogni caso destra e sinistra sono la stessa cosa, non fanno niente per noi”, e in quel ”in ogni caso” c’era tutta la delusione per essere stati abbandonati dalla sinistra che si è messa al servizio del mercato. La sinistra ha smesso di difendere i deboli, e si è occupata al massimo di come gestirli all’interno di rapporti di forza ormai accettati».
Invece i Le Pen, padre e figlia, parlano al popolo?
«Per quanto sia paradossale, i miei genitori si sentono considerati da loro. Quando ero piccolo li sentivo dire “sono gli unici che parlano di noi”, e questo è decisivo. I miei volevano esistere agli occhi degli altri, che in fondo è quello che vogliamo tutti. Mio padre e mia madre non potevano godersi il lusso di votare in base a un programma, un’opinione. Quella è una cosa da privilegiati. Per loro il voto è il tentativo di esistere. La differenza tra dominanti e dominati, come diceva Pierre Bourdieu, sta certamente nel denaro, diplomi, cultura, ma soprattutto i primi hanno il diritto di esistere due volte. Vivono come tutti, con il loro corpo, mangiano, bevono, dormono, ma in più hanno una seconda esistenza nel mondo delle rappresentazioni, nella letteratura, nel cinema, alla televisione. Nella mia infanzia noi eravamo il nulla, esistevamo solo al momento delle elezioni, e i miei andavano a votare per Le Pen perchè anche loro volevano esistere due volte, almeno il giorno delle elezioni».
La politica è una questione personale?
«Sì, per me. Una cosa sensibile, corporea, personale. Quando sono arrivato a Parigi mi sono reso conto che per la borghesia e la sinistra parigina la politica non contava così tanto, che al potere ci sia la destra o la sinistra la borghesia resta tale e quale, mentre la politica per noi era una questione di vita o di morte, un governo o un altro voleva dire “possiamo mangiare, o no?”. Mio padre è andato dal dentista la prima volta della sua vita quando aveva 14 anni, per lui la politica è una cosa fisica, significa dire avere mal di denti o no. A Parigi mi sentivo male nel vedere che per tutte queste persone, alla Normale per esempio, la politica è una questione di conversazione, se ne parla a fine cena come si parla dell’ultima esposizione. Ma per un migrante la politica vuole dire morire nel Mediterraneo o riuscire a mettere piede in Europa. Per me la politica non è un gioco intellettuale, e mi accusano di essere violento, di essere troppo veemente, ma a me sembra che i violenti siano gli altri, quelli che accettano la miseria e la povertà . Su 66 milioni di abitanti in Francia, 8,8 sono poveri. Non è una realtà residuale superata dai tempi».
Mèlenchon si rifiuta di invitare a votare per Emmanuel Macron al ballottaggio. Lei che cosa farà ?
«Pur di evitare Marine Le Pen presidente voterò Macron, e Mèlenchon fa un grosso errore a non esprimersi in suo favore, perchè bisogna sempre servirsi della politica per ridurre al minimo la violenza. Questa è l’altra cosa che mi separa da Mèlenchon, oltre a una politica estera terrificante. Il grande paradosso di questa elezione però è che Macron è considerato l’antidoto al FN mentre penso che sono gli uomini come Macron ad avere fatto crescere Marine Le Pen negli ultimi anni. Sono i liberali di sinistra, più o meno, quelli che hanno abbandonato i miei genitori. Fanno riforme liberali e il risultato è che le diseguaglianze di classe sono sempre più violente e profonde. Voterò Macron al ballottaggio ma non lo amo. Nega la divisione tra destra e sinistra come hanno sempre fatto i regimi autoritari, e temo che finirà per provocare involontariamente un’ulteriore avanzata del Front National. Non ho granchè paura per l’esito di questa elezione, ma sono davvero preoccupato per la prossima».
Perchè è così critico nei confronti di Emmanuel Macron?
«Mio padre una volta perse il lavoro in fabbrica, e se voleva conservare gli aiuti dello Stato era obbligato ad accettare le proposte di lavoro più improbabili. Gli davano 600 euro al mese per un lavoro part-time a 50 chilometri da casa, avrebbe speso 300 euro di benzina. Macron vuole inasprire questo genere di sorveglianza. Sta dalla parte degli imprenditori, e ha detto di voler varare leggi per decreto senza passare dal Parlamento. Se Melenchon avesse detto questo lo avrebbero accusato di colpo di Stato». Macron è andato a incontrare gli operai a Amiens, i ragazzi di periferia a Sarcelles. «Mi ricorda un ministro che aveva annunciato che avrebbe visitato il locale delle scope nell’azienda dove lavorava mio padre, un uomo di destra molto inviso alle classe popolari. Mio padre per giorni minacciava, ”vedrete, gliene dico quattro, lo insulto, gliela faccio vedere io”. Ma il giorno in cui il ministro è arrivato mio padre non gli ha detto niente. Era intimidito, c’erano le guardie del corpo, e il ministro era vestito così bene… Mio padre è stato umiliato e ridotto al silenzio dagli attributi del potere, è tornato a casa dicendo “ma no, tutto bene, è una brava persona”. Macron che parla di dialogo sociale, ma dov’è il dialogo sociale se non teniamo in conto questi rapporti obiettivi di classe?».
Quali conseguenze avrà il risultato di Jean-Luc Mèlenchon e della sua «France insoumise»?
«La rinascita di una vera sinistra, spero. Tutti parlano della nuova avanzata di Marine Le Pen, ma sei mesi fa lei era al 30%, ha perso oltre 8 punti, mentre Melenchon era a 8 punti e ne ha guadagnati oltre 10. E le primarie del Partito socialiste sono state vinte dall’outsider più a sinistra, Benoà®t Hamon. La sinistra è riuscita a imporre il suo linguaggio e i suoi temi». Negli ultimi anni il dibattito politico è stato dominato dalle idee della destra. «Ma una delle ragioni per le quali stavolta Marine Le Pen non ha sfondato più di tanto è che per fortuna l’islam non è diventato il tema centrale delle elezioni. E perchè? Perchè ne parlava solo lei, mentre la sinistra imponeva i temi del reddito universale, delle pensioni, della disoccupazione. La grade catastrofe della sinistra in passato è stata di limitarsi a rispondere alla destra, che ha occupato il terreno».
Le classi sociali, e la lotta di classe, esistono ancora?
«Secondo me sì. Sto viaggiando molto per promuovere i miei libri, e ovunque vada tutti mi dicono ”ah sì, ci interessa molto come parli delle classi sociali in Francia ma da noi non è così”. E’ molto curioso, le classi sociali sono sempre altrove, mai nel proprio Paese. Vai in Cile, Giappone, Kosovo, in Norvegia, ti dicono la stessa cosa. E’ una rimozione che è una dimensione della violenza e spiega che cosa succede poi nelle urne».
I confilitti di classe sono al centro anche del suo secondo romanzo, «Storia della violenza». Quale differenza con il primo su «Eddy Bellegueule»?
«In Storia della violenza c’è una dimensione supplementare rispetto a Eddy Belleguele, perchè lì descrivevo un ambiente popolare bianco, e nel secondo romanzo invece parlo delle classi popolari francesi non banche, arrivate dal Nordafrica, che vivono in periferie, con l’esplorazione delle differenze e di quel che può unire queste classi. Il protagonista Reda è algerino e molto violento, una violenza legata dinamiche sociali di esclusioni che conosco bene. Nel libro io incarno, per questo ragazzo, la classe dominante. La violenza di classe esiste anche senza volerlo, esattamente come il ministro nella storia di mio padre, con quel suo modo di parlare e di vestirsi. Nel librosi pone la questione di sormontare il paradosso: il più delle volte, se parli delle classi popolari, è perchè le hai lasciate, ne parli precisamente perchè te ne sei andato».
Lei critica molto il romanticismo che alcuni fanno sull’idea di popolo.
«La sinistra cade nell’ideologia meritocratica quando difende le classi popolari provando a dimostrare che «sono delle brave persone. Ma io posso dire allo stesso tempo che mio padre non è una brava persona, e battermi contro le violenze obiettive che è stato costretto a subire. Non mi interessa che una persona sia gentile o no, mi chiedo se è vittima o no di una vera violenza, e se questa violenza è sopportabile o no. Le persone spesso non se ne rendono conto, ma la riproduzione sociale esiste. Tu nasci con le classi sociali e le ineguaglianze e partecipi del loro mantenimento. Magari anche solo con la frase ”ma chi ti credi di essere”, una frase che tutti ripetono, come se fosse un problema prendersi per chi non si è, come se si dovesse essere sempre quelli che si è stati e quel che il mondo ha deciso che si debba essere. Per me è formidabile se le persone si credono di essere qualcosa che non sono, se producono uno scarto tra quel che sono stati e quel che vogliono diventare».
Come vive il suo trovarsi a New York, e la sua indubbia scalata sociale?
«Sento di non avere tradito nessuno. “Tu hai tradito” significa dire “tu appartieni alla tua famiglia, al tuo ambiente, al tuo villaggio”, ma io voglio definire le mie appartenenze. Il che è anche ironico, perchè poi scrivo sempre delle classi popolari. Comunque, la mia è una sinistra di progresso. Tutte le persone dovrebbero avere la possibilità di reinventarsi»«Sento di non avere tradito nessuno. “Tu hai tradito” significa dire “tu appartieni alla tua famiglia, al tuo ambiente, al tuo villaggio”, ma io voglio definire le mie appartenenze. Il che è anche ironico, perchè poi scrivo sempre delle classi popolari. Comunque, la mia è una sinistra di progresso. Tutte le persone dovrebbero avere la possibilità di reinventarsi».
Stefano Montefiori
(da “il Corriere della Sera”)
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