INTERVISTA ALLA NEOGOVERNATRICE DELLA SARDEGNA, ALESSANDRA TODDE: “MELONI È VENUTA IN SARDEGNA CON LE SUE FACCETTE E LE SUE VOCINE RIDICOLE, DUE ORE DI CABARET, SI PENSAVA SPIRITOSA CON QUEL SUO COMIZIO A CAGLIARI, MA STAVA COLPENDO I SARDI, NON ME”
IL PASSATO DA MANAGER, CON LO STIPENDIO DA 200 MILA EURO L’ANNO: “HO VISSUTO IN OTTO NAZIONI. PARLO IL SARDO E CINQUE LINGUE ‘STRANIERE’”
Il segreto del Toddismo?
«Non c’è».
Come ha unito una coalizione che non lo era stata mai?
«Empatia. Spirito di inclusione. Immersione totale nel mondo reale».
Ovvero?
«Anziché andare a caccia delle differenze, ragionavamo su cosa fare insieme».
Non c’era riuscito nessuno.
«La spinta è arrivata dal basso, dai diversi popoli del centrosinistra: è stata enorme».
Lei ha parlato di antifascismo, la Meloni l’ha sfottuta: “Idea innovativa!”.
«Avevano appena picchiato gli studenti. Abbiamo risposto con le matite ai manganelli sui ragazzi. Più che “innovativo” era doveroso».
Perché?
«I nostri avversari non parlavano di temi e programmi».
E poi?
«Il candidato imposto della Meloni, Truzzu, non poteva dirsi antifascista: esibiva ridendo la scritta “Trux”. Il fascismo come burla».
E lei?
«Pensavo: vuole prendere in giro un popolo che ha espresso due presidenti della Repubblica, Gramsci e Berlinguer? Gli è andata male. I sardi li hanno mandati a casa».
E la Meloni?
«Il centrodestra non ci ha visto arrivare».
Un esempio.
«Non hanno avvertito il crollo a Sassari e Cagliari – venti punti sotto! – perché parlavano alle clientele».
Possibile?
«Si dicevano: sono spaccati, Soru li farà perdere».
E il famoso comizio della Meloni alla fiera?
«Ormai è virale. Le sue faccette e le sue vocine ridicole. Si pensava spiritosa, ma stava colpendo i sardi, non me. Una gita di un giorno, tre minuti di promesse, due ore di cabaret».
E sua madre?
«Fantastica: a 86 anni, in casa a Nuoro circondata dalle amiche: mille anni in una stanza».
Che faceva?
«Davanti a una mappa della Sardegna piazzava spilli sui paesi: “Peppina, tu hai un cognato a Posada? Chiamalo”».
Ha capito che avrebbe vinto di notte.
«Ho chiesto al mio team che lavorava sui numeri, la certezza che il centrodestra non potesse più recuperare. Quei numeri si stanno rivelando veri».
Preoccupata?
«Io non temo nulla. Loro, forse: orgia di nomine prima di lasciare la nave».
Alessandra Todde, 55 anni. La donna del momento della politica italiana, tutti si chiedono se la sua vittoria innescherà in Abruzzo il cosiddetto Effetto Domino mettendo in crisi l’egemonia della Meloni. Nuorese, manager, “grillina anomala”, scherza: “Ho vissuto in otto nazioni. Parlo il sardo e cinque lingue ‘straniere’”.
Da che storia viene?
«Da Nuoro, Il padre di mia madre, Salvatore Gandolfi, macellaio, era antifascista: fu denunciato da un anonimo».
Cosa accadde?
«Confino, a Favignana».
E cosa le diceva?§
«Nulla. La storia, raccontata da mia nonna mi impressionava: lui non ne parlò mai».
Perché?
«Aveva vissuto la condanna con dolore. Quel silenzio mi ha trasmesso l’antifascismo come valore, più di mille parole».
E l’altro nonno?
«Antonio Todde, da Tiana: aveva fatto la guerra d’Africa, partito da volontario fascista. Tornó disilluso, dopo l’esperienza drammatica».
Ha iniziato la sua campagna nel mercato vecchio di Nuoro.
«Dal banco di macelleria di marmo bianco di nonno».
E la nonna, Piera?
«Un generale prussiano, capofamiglia matriarcale: comandava come se fosse in battaglia».
Come mai?
«Lo era: tirava su i figli, amministrava faceva conto con carta e matita, gestiva ogni cosa per far studiare figli e nipoti. Per far quadrare meglio il tutto ospitava studenti a casa: uno studentato».
Lei cresce coi nonni.
«Mia madre e mia zia avevano un negozio di articoli da regalo. Erano sempre lì, o in giro per le fiere in Italia e in Europa».
Che mondo era?
«Unico. Il più importante rito di casa era la panificazione».
Perché?
«Da noi si faceva il pane per tutto il vicinato».
Come?
«Le donne si riunivano in casa dalle tre del mattino. A noi piccoli il regalo più grande: svegliarci alle cinque per la cottura».
Il pane carasau, quello schiacciato e croccante cotto due volte.
«In mezzo c’é “su pane lentu”, il prodotto intermedio. Se “facevamo i buoni” ce lo davano appena sfornato».
Un legame gastro-sociale?
«Le “vicine del pane”. L’amicizia e le relazioni di un‘economia di baratto’ tutta sarda. Scambiavano carne con le uova di chi allevava polli, olio, frutta, un mondo bellissimo di economia solidale senza moneta».
Parli delle donne di casa.
«La madre di mio padre è maestra elementare. Mia madre Cecia e mia zia Leliana avevano anche la licenza di gioielleria. Mamma che andava da sola a negoziare le pietre ad Anversa, per alcuni acquisti mirati».
E il ciondolo d’argento che lei porta al collo?
«Me lo ha regalato una amica di mia madre, una seconda madre. È un amuleto di streghe sarde. Ah ah ah».
Lei ha una sorella.
«Dormivo in stanza con Mara. Oggi é responsabile del bilancio di sostenibilità in una società di assicurazioni».
Siete cresciute nella Sardegna agropastorale.
«Ma fin da ragazze ci spedivano sole in Gran Bretagna: “Autonomia, indipendenza. Imparate l’inglese!”».
Suo padre, professore di matematica.
«Molto amato. Era anche presidente dell’azione cattolica».
E lei?
«Cresciuta alle sottane di don Cabiddu tra l’oratorio e la piazza».
Azione cattolica ma non Scout?
«Eravamo più rock degli scout. Facevano tutto: pellegrinaggi gite, marce della pace Perugia-Assisi».
E la politica?
«A casa di mio nonno: la tradizione sardista come identità».
E lei chi votava?
«Lavorando all’estero sono tornata poche volte, tutti voti sardisti in memoria di questa storia».
Ricorda l’anonima sequestri?
«Molte persone che conosco furono colpite, alcune costrette a fuggire in Continente, per evitare il rapimento».
E il terrorismo?
«Una intera classe del nostro liceo entró in Barbagia rossa. Natalia Ligas da lì fece il salto nelle Br».
Fu sepolta di ergastoli.
«E il professore che accettò di andare a farle lezioni in carcere era mio padre».
Università a Pisa.
«Volevo studiare informatica a tutti i costi: ho preso due lauree, ma è stata dura».
In che senso?
«Arrivata da prima della classe, faticavo ad adattarmi. Passavo da un mondo inclusivo a una comunità selettiva, l’obiettivo era scremare».
Come ha chiuso?
«Ho aggiustato il tiro e finito in sei anni».
Primo lavoro?
«Una società di Milano, che mi spedisce in Sardegna alla raffineria Saras. Assunta a 25 anni!».
Cosa fa?
«Lavoro alla sezione informatica, in pochi giorni finisco a gestire le navi, le complicate procedure di informatizzate».
Scrivania?
«I migliori giorni della mia giovinezza: con l’incerata sul pontile, sotto pioggia battente».
Poi?
«Nel 2000 cambio società: devo progettare la prima borsa elettrica, gestire i derivati, strutturare una borsa titoli che funzionasse in modo digitale».
Spero di aver capito.
«A mia madre non sono riuscito a spiegarlo nemmeno in trent’anni. Merito dell’unbundling, la rottura del monopolio Enel voluta da Bersani».
Risultato?
«Un mondo nuovo, società nuove, mestieri nuovi, di figure professionali nuove fra cui me».
La assumono a Exelergy.
«Erano a Boston: clienti in America e Europa. Divento pendolare intercontinentale. Olanda, Belgio e Inghilterra. Quattro bellissimi anni».
E poi?
«In Polonia, a fare la borsa elettrica polacca. Quindi a Mosca consulente dei giganti energivori».
Ci resterà un anno.
«Imparo il russo. A Mosca si passava di continuo dal lusso sfrenato alla povertà assoluta. Follia»
Poi una svolta.
«La nostra società americana decide di abbandonare il settore».
Lei non ci sta.
«Una notte mi viene in mente una follia: chiedere alla casa madre il brand per continuare noi».
Vi licenziate.
«Fondiamo una società, io e altri due soci, con nove ingegneri».
Era il 2006. Lo finanziate in tre: diecimila euro di capitale sociale.
«La battezziamo Energeya Sede a Melbourne in Florida, filiali in Olanda Inghilterra e Italia».
Una startup nel buio.
«Però cresce fino al 2015, quando vendiamo a un fondo investimento: diversi milioni di euro».
Chi l’aveva seguita con mille euro è diventato milionario.
«Aveva investito molto di più di mille euro: il suo talento! Per me non era solo soddisfazione economica: ero padrona del mio destino».
E ricca.
«Oltre alla plusvalenza lo stipendio: vado alla Sapient, da dirigente guadagnavo più di 200mila euro l’anno».
Faceva quel che voleva.
«Nel 2015 mi trasferisco in Spagna e cambio ancora. Questa volta mi occupo di “Family Office”. Creando pacchetti di investimenti per la mia nuova società spagnola. Si spalanca davanti il mondo dell’internet delle cose».
Traduciamo.
«Il modo in cui una macchina parla con un’altra, imparando. Una nuova idea difficile spiegare a mia madre. Persino noi siamo nati con degli Internet cloud, verticali e centralizzati. Mentre oggi si apre una nuova prospettiva orizzontale e periferica: oggetti che imparano da oggetti».
Trova un marito.
«Con Andrea sono stata sposata nel 2000 ho divorziato nel 2010: siamo molto legati. È il primo che mi ha scritto dopo la vittoria. Ci vogliamo un gran bene».
Ma cosa accadde quindi?
«Vivevano entrambi così: mesi a girare come trottole, faticavamo a stare insieme due giorni nella stessa città. Un peccato».
Poi nel 2018 Olidata.
«Una società di computer in tale difficoltà da essere sospesa dalla quotazione: decine milioni euro di debiti. Mi fanno amministratore delegato. E risaniamo il debito».
E arriva il M5S.
«È buffo. Virginia Saba, futura compagna di Di Maio, mi intervista nel 2014 dopo un premio. Parla di me a Luigi, che cercava capolista donne per le europee».
Lui le dice: “Avrai il posto, i voti te li devi cercare”.
«Ma accettai e ne presi novantamila. Non venni eletta nella circoscrizione isole, perché in Sicilia, col triplo abitanti della Sardegna ben due candidati avevano preso più voti di me».
Delusa?
«Per nulla. Esperienza straordinaria: umanamente io avevo scoperto la generosa base M5S e loro me».
E poi?
«Il 27 maggio ho il verdetto della mancata elezione. L’1 giugno accetto un contratto da consulente di una startup che automatizza la distribuzione dei farmaci».
Ma nell’estate 2019 c’è il Papeete.
«Leggo dai giornali, con voracità, le cronache sulla nascita del governo giallorosso. Sono spettatrice, ma contenta».
La chiama Di Maio: e le chiede se vuole gestire le deleghe energetiche.
«Più o meno. Il 10 settembre mi chiama Conte. Gli dico sì. Il 14 giuro a Palazzo Chigi. Un film».
Avventura al ministero.
«Riunione sul piano energia: il Pniec. Doveva essere un aggiornamento, restiamo quattro ore e mezzo a discutere. Investimenti, infrastrutture, piani sviluppo. Mi immaginavano come una barbara, restano stupiti».
E poi il tavolo di crisi.
«Un campo di battaglia drammatico: quando entro avevo 149 tavoli aperti, da un capo all’altro del paese. Corneliani, Whirpool… abbiamo recuperato diecimila posti di lavoro, uno per uno».
Jacopo Gasparetti, il suo portavoce ricorda il suo esordio, in megafono, alla Jabil di Marcianise: “Che scena, Ale: tu che parlavi 359 persone che urlavano in dialetto!”.
«Vero, all’inizio. Quell’azienda avrebbe chiuso, oggi è ancora aperta. Mi aiutava l’esperienza spagnola: era ciò che avevo fatto, selezionare startup di valore e trovare investitori. Qui non potevo scegliere quello che non c’era ancora, solo reinventare ciò che aveva fallito. Sona andata a prendere soldi fino a Singapore, altrimenti Sicam avrebbe chiuso!.
Diventa “cocca” di Conte.
«Ma che cocca! Ci siamo trovati sul campo, conosciuti, piaciuti: ma quando dopo la caduta del governo è diventato leader mi piaceva il suo progetto».
Entra nel M5S è il 2019.
«Una sera Conte mi chiama e mi dice: “Alessà, stiamo votando il nuovo statuto. Vorrei che uno dei vicepresidenti fossi tu”».
È rimasta sorpresa.
«Ero entrata come tecnico, stavo diventando un politico. Accettai. Ma poi, candidandomi in Sardegna, ho rinunciato al M5S e a Montecitorio».
La Meloni chiude con Truzzu e il famoso comizio delle faccette di Giorgia.
«Io due giorni dopo, chiudo con mia madre e mia nipote sul palco».
Luca Telese
per “Oggi”
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