LA “GUERRA DEI DAZI” È UN COMODO DIVERSIVO, MOLTO PIÙ GRAVE È LA PRODUTTIVITÀ DELLA NOSTRA ECONOMIA: L’INCAPACITÀ DI RIDURRE L’ECCESSIVO COSTO DELL’ENERGIA, MOLTO PIÙ ALTO RISPETTO ALLA GERMANIA, È UNO DEI FALLIMENTI DELLA MELONI
E NON C’ENTRA LA NOSTRA DIPENDENZA DAL GAS: A DECIDERE IL COSTO DELL’ENERGIA CHE AZZOPPA LA COMPETIVITÀ DELLE NOSTRE IMPRESE SONO POCHI OPERATORI (ENEL, A2A, EDISON, ETC.), CHE ANCORA OGGI INCASSANO I SUSSIDI ALLE RINNOVABILI MALGRADO CHE L’ENERGIA PRODOTTA ORMAI COPRA IL 52,5% DEL NOSTRO FABBISOGNO ELETTRICO
Per capire ciò che sta accadendo all’economia del mondo dobbiamo alzare lo sguardo al di
là dei capricci di Trump e delle incertezze dei suoi interlocutori, a cominciare da Ursula von der Leyen.
In realtà, i problemi che entrambi i continenti, Stati Uniti ed Europa, oggi sono chiamati ad affrontare riguardano questioni più esistenziali di una disputa doganale che si sta trasformando in un grande cinema, peraltro già smorzato rispetto agli annunci del 2 aprile scorso, e destinato ad attenuarsi ulteriormente nel momento in cui i dazi, come già sta accadendo, rallenteranno l’economia americana alzando l’inflazione.
L’Ufficio per il bilancio del Congresso di Washington prevede per la fine dell’anno un rallentamento della crescita (da 1,8 del 2024 a 1,3%) e un’inflazione di un punto più alta a causa dei dazi che hanno già iniziato a spingere all’insù il prezzo dei prodotti importati: da 2 a 3%.
Ricordiamoci che fu l’inflazione il motivo più importante che indusse gli americani a votare per Trump, e che fra poco più di un anno negli Usa si voterà per rinnovare l’intera Camera dei deputati e un terzo dei senatori.
Ma quali sono le due questioni esistenziali? Negli Usa, è la centralità del dollaro come perno dell’economia mondiale, e di conseguenza la possibilità che gli Stati Uniti possano continuare, come hanno fatto per 80 anni, ad attirare risparmio dal resto del mondo e con questo finanziare il crescente eccesso delle spese, pubbliche e private, sulla produzione.
Questo dipende dalla possibilità che il dollaro, e le attività finanziarie denominate in dollari, in primis i titoli pubblici americani, continuino ad essere il rifugio sicuro per i risparmi dei cittadini di tutto il mondo, come lo sono stati, appunto per 80 anni. Da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca questa certezza è meno solida, come mostrano la caduta del dollaro (un po’ più dell’11% negli ultimi sei mesi) e un po’ di fatica nelle emissioni di debito pubblico Usa.
Per l’Europa la sfida è la produttività della nostra economia. Dopo mezzo secolo (1945-1995) durante il quale eravamo riusciti ad annullare la distanza dagli Stati Uniti nel nostro reddito pro-capite, questo divario negli ultimi trent’anni si è di nuovo allargato. I motivi ovviamente variano da Paese a Paese.
Ma il tratto comune è la lentezza nell’adozione delle tecnologie digitali, da Internet all’intelligenza artificiale, proprio quelle tecnologie che hanno guidato l’aumento della produttività americana negli ultimi trent’anni. E poi, e forse è il fattore più importante, il non essere stati capaci di sfruttare i benefici di un mercato unico, potenzialmente più esteso di quello Usa, e che invece rimane fortemente segmentato.
Da entrambi i lati dell’Atlantico sono problemi la cui soluzione richiede una forza politica che, per motivi diversi, né Trump né
Ursula von der Leyen sembrano avere. E quindi per entrambi la «guerra dei dazi» è un comodo diversivo che consente loro di rimandare scelte che non vogliono o non hanno la forza di affrontare.
Ma gli effetti sui due lati dell’Atlantico sono diversi. Negli Stati Uniti un po’ più di inflazione e un rallentamento della crescita colpiscono un’economia solida, forte soprattutto nei settori che più spingono la crescita. Il rischio maggiore, uno sciopero negli acquisti di titoli pubblici americani, sembra molto poco probabile.
Diversa è la situazione in Europa, e se vogliamo guardare più vicino a casa, in Italia.
Nei suoi primi mille giorni di governo, Giorgia Meloni si è molto dedicata alle questioni internazionali e ultimamente si è molto spesa sui dazi, ma gli interventi del suo esecutivo sul nostro problema esistenziale, la produttività, quasi non si ricordano.
Cominciamo dai dati. Il livello della produttività del lavoro (dati Eurostat) era 102,6 nel 2022, è sceso a 100,6 nel 2023, a 100 nel 2024. Nel primo trimestre 2025 è sceso di nuovo: 98,8. La caduta della produttività ha probabilmente due spiegazioni: interventi fiscali che hanno ulteriormente incentivato la nascita di mini-aziende (ad esempio il regime Iva forfettario per aziende con fatturato inferiore a 100.000 euro), e uno spostamento delle ore lavorate verso settori con minore valore aggiunto, cioè dall’industria ai servizi, ad esempio la ricezione turistica, e infatti i salari medi scendono riflettendo posti di lavoro con minore produttività.
Né ha aiutato, dal 2024, l’abolizione dell’Ace, una norma che incentivava la capitalizzazione delle aziende. Facendo le somme, il prof Marco Leonardi calcola in circa 15 miliardi le risorse sottratte alle imprese dal 2022, a fronte dei quali ne sono state restituite 6-7, ma con misure che fanno fatica a partire.
Infine rimane eccessivo il costo dell’energia.
Per l’industria esso è stato, anche nei primi mesi del 2025, significativamente più alto rispetto alla Germania, non tanto per la nostra dipendenza dal gas ma soprattutto a causa della struttura del nostro mercato, fortemente interconnesso con il prezzo del gas naturale.
L’incapacità di ridurre questa dipendenza dal prezzo del gas è uno dei fallimenti del governo Meloni. Il risultato è che mentre in Germania il costo dell’elettricità si attesta intorno ai 66 €/MWh (megawatt per ora), a inizio maggio 2025 in Italia si registrava un prezzo medio di circa 80 €/Mwh.
Infine, ma non meno importante, non aiuta il fastidio che il governo pare avvertire verso la concorrenza, quando si tratta di energia. I sussidi alle rinnovabili erano opportuni quando si trattava di far partire un nuovo mercato, ma lo sono ancora oggi quando l’energia prodotta da fonti rinnovabili copre il 52,5% del nostro fabbisogno elettrico, con l’idroelettrico che ha visto un incremento del 36,1%, l’eolico del 15,1% e il solare del 10,6? E chi riceve questi incentivi?
Scrive Ferruccio de Bortoli su CorriereEconomia: «Nell’ipotesi ottimistica che le rinnovabili abbiano sostituito la produzione “a gas”, il costo di ogni tonnellata di CO 2 non emessa nell’atmosfera arriva a 409 euro. Ma il prezzo attuale dei
certificati di emissione CO 2 è intorno ai 70 euro».
Quanti di questi sussidi vanno a centrali idroelettriche possedute da pochi operatori, ammortizzate da decenni, e che quindi producono ricche rendite?
Se lo si chiede ci si scontra con limiti di privacy invalicabili. «È giusto?», si chiede de Bortoli.
Francesco Giavazzi
per il “Corriere della Sera”
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