LA RIMOZIONE DELL’ITALIA E IL FUTURO DEI PARTITI
I PARTITI ITALIANI CE LA FARANNO A USCIRE DALLA CONDIZIONE DI IRRILEVANZA E DI INUTILITA’ IN CUI LI STA PRECIPITANDO LA PRESENZA DEL GOVERNO MONTI?
Questa è la domanda cruciale da qui alla prossima scadenza elettorale, qualunque essa sia.
Rispondere è impossibile essendo troppe le variabili in gioco.
Ma di una cosa però mi sentirei sicuro. Che essi non potranno mai riacquistare un senso e un ruolo se nella loro identità politica non tornerà ad avere posto un elemento da troppo tempo assente: e cioè il discorso sull’Italia.
Intendo dire la consapevolezza di che cosa è stato ed è il nostro Paese e di quali sono i suoi grandi e sempre attuali problemi: l’antica tensione tra pluralità dei luoghi e dissolvimento localistico, l’abisso multiforme tra Nord e Sud, la perenne e generale scarsa educazione alla legalità e alle virtù civiche, la forza degli interessi, delle corporazioni e delle camarille, sempre pronti a diventare dietro le quinte gli attori concreti di ogni realtà sociale e pubblica.
Infine l’egoismo di chi ha e la triste condizione dei troppi che non hanno.
Questa è l’Italia vera con la quale i partiti e le loro culture e i loro programmi dovrebbero sentirsi chiamati a fare i conti.
E con la quale per la verità ci fu un tempo in cui cercarono di farli.
Accadde all’incirca fin verso gli anni 70-80 del secolo scorso quando ancora tenevano il campo le culture politiche del nostro Novecento: tutte nate, per l’appunto, da un’analisi approfondita della vicenda del Paese, da una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù.
Da qui non solo programmi, ma soprattutto un’idea dell’interesse generale della collettività nazionale e di conseguenza una loro ispirazione autentica, e quindi la voglia e la capacità di darle voce venendo presi sul serio.
Ma con la fine della cosiddetta Prima Repubblica le culture politiche del nostro Novecento si sono disintegrate.
Qualunque discorso sull’Italia è scomparso dalla vita pubblica italiana.
Si è diffusa una sorta di stanchezza per il pensare in generale e magari in grande. Abbiamo provato come una noia, quasi un disgusto, per noi stessi e per una nostra storia che sembrava averci portato solo a Tangentopoli e al grigiore un po’ torbido e inconcludente della stagione successiva.
È accaduto così che ci siamo buttati a corpo morto sull’Europa.
Per quindici anni e più il solo avvenire che è apparso lecito augurare al nostro Paese è stato quello di «entrare» in Europa, o, per restarci, di «avere i conti in ordine», di adottare le sue direttive, di «fare i compiti» a vario titolo assegnatici.
Giustissimo, per carità , ma troppo ci è sembrato che a tutto dovesse (e potesse!) pensare l’«Europa»; che nel frattempo, peraltro, stava diventando sempre più evanescente.
Troppo ci è sembrato che per essere europei fosse necessario buttarsi dietro le spalle l’Italia e il fardello della sua storia.
Superficialmente persuasi che ormai essa avesse fatto il suo tempo abbiamo guardato con sufficienza alla dimensione statal-nazionale. Non si decideva, tanto, tutto «in Europa»?
L’europeismo è diventato l’ideologia radio-televisiva del potere italiano, il pennacchio di ogni chiacchiera pubblica, il prezzemolo di tutte le minestrine dei Convegni Ambrosetti.
Oggi ci accorgiamo che le cose stavano – e soprattutto stanno – un po’ diversamente. La crisi paurosa del debito pubblico, e insieme la manifestazione di tutte le nostre innumerevoli inadeguatezza che essa ha causato, ci hanno ricordato, infatti, che esiste una cosa chiamata Italia, e che, ci piaccia o meno, tanta parte della nostra vita individuale e collettiva dipende da essa (e forse è servito a questo ricordo anche il concomitante anniversario della nascita del nostro Stato).
Ora è giunto il momento che se ne accorgano e se ne ricordino pure i partiti.
L’origine della loro afasia degli ultimi anni, della loro perdita di senso e dunque di ascolto presso l’opinione pubblica, nasce per tanta parte dall’aver escluso dal loro orizzonte l’Italia e la sua vicenda, la sua realtà più intima.
Nasce dall’aver cancellato ogni riflessione, ogni proposta di vasto respiro, ma credibile, capace di tener conto di quella vicenda parlando al cuore, alla mente, ma soprattutto alle speranze degli italiani.
Siamo pieni di discorsi su ciò che è fuori dei nostri confini, su dove va il mondo, ma non abbiamo un’idea di dove vada o voglia andare l’Italia.
Di che cosa essa debba volere.
Nessuno ci dice, non sappiamo, a che cosa essa possa ancora servire.
Sono i partiti che devono ricominciare a dircelo.
Non ricordo più dove Antonio Gramsci ha scritto che si può essere realmente cosmopoliti solo a patto di avere una patria.
Bene: è tempo che la politica, facendo sentire di nuovo la propria voce, torni a parlarci della nostra.
Ernesto Galli della Loggia
(da “Il Corriere della Sera”)
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