L’AMMUTINAMENTO DELL’EQUIPAGGIO CONTRO IL CAPITONE
PER SALVINI NON E’ SUCCESSO NULLA E CERCA DI RINVIARE IL CONGRESSO… BASE INCAZZATA E GRIMOLDI AFFONDA: “DIGNITA’ IMPONE DIMISSIONI IMMEDIATE, BASTA CON LA BARZELLETTA DEL REGOLAMENTO”
Questa volta non si affaccia nessuno dalla sede della Lega in Via Bellerio. Nel 2019, dopo le elezioni europee, Giancarlo Giorgetti brandiva da una finestra degli uffici leghisti una statuetta di Alberto da Giussano, il personaggio che si erge sul simbolo del partito guidato da Matteo Salvini.
Il consenso superiore al 34% era stato preceduto dal 17% alle politiche del 2018 e portò di lì a poco alla crisi del Conte II con la richiesta di «pieni poteri» dalle spiagge del Papeete.
La tarda mattinata del 26 settembre ha un sapore diverso, agrodolce per i vertici della Lega. L’8.9% delle elezioni rappresentano il punto più basso della segreteria di Matteo Salvini, abile a cavallo tra il 2016 e il 2019 a costruirsi un’immagine forte, d’impatto e altrettanto incapace, dalla crisi del Conte II in avanti, di essere il volto della coalizione di centrodestra.
«Il 9% non mi soddisfa, ieri sera sono andato a letto incazzato ma ora sono carico a molla. Mi prendo la responsabilità, no alle autoassoluzioni». Niente autoassoluzioni, ma nemmeno autocritica, visto che sono questi gli unici punti di serio commento alle elezioni. I 100 parlamentari, o poco meno, che la Lega riuscirà ad eleggere sono per gran parte frutto del risultato di Giorgia Meloni, traino della coalizione. Una magra consolazione quella degli eletti se si confrontano i dati tra le elezioni del 2018 e quelle appena passate.
Mentre nell’altro campo, il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, annuncia un nuovo congresso e la sua intenzione a non ricandidarsi, per Salvini un congresso federale è un ipotesi in là nel tempo: «Dobbiamo valutare con Roberto Calderoli, che è il massimo esperto, quanto tempo ci metteremo a fare tutti i congressi cittadini, poi provinciali e regionali. Poi faremo un bel congresso federale con idee, a quel punto la Lega sarà al governo già da tempo»
Il partito di Matteo Salvini guidava la coalizione in tutte le regioni d’Italia, anche nella circoscrizione Lazio 01, fortino elettorale del partito di Giorgia Meloni.
Al Nord poi non c’era storia. La Lega governava in Veneto, in Lombardia e in Friuli-Venezia-Giulia dove esprimeva la forza della classe di governatori a sua disposizione.
In Lombardia, dove era nata la Lega Lombarda bossiana, nelle quattro circoscrizioni la media dei voti era poco superiore al 29%.
In Veneto, dove da 12 anni Luca Zaia governa con percentuali plebiscitarie, i voti erano stati ancora di più, superiori al 31%. Nel Friuli del governatore Fedriga si attestava il dato più basso, 25,8%, ma abbondantemente primo partito nella Regione.
Nel 2022, governo Draghi e unità nazionale permettendo,quei voti sono scomparsi e hanno trovato una nuova casa: quella di Fratelli d’Italia. Doppiato in Lombardia (13,8% contro il 27,5 della Meloni), doppiato in Veneto (14,6% contro il 32,5%) e addirittura triplicati in Friuli-Venezia-Giulia (10,9% contro il 32,2%).
Non è bastato un ritorno tardivo ai temi di sempre come l’autonomia differenziata per le regionI del Nord e a poco sono serviti i raduni nel prato di Pontida per risollevare almeno quella che si pensava essere una base solida del leghismo. In tutta Italia il blu del centrodestra è predominante grazie al trionfo di Giorgia Meloni e alla tenuta di Forza Italia. A questo giro il terzo incomodo è proprio il Capitano.
Dalla base leghista sono arrivate le prime critiche e richieste di dibattito interno da parte degli esponenti della Lega.
Luca Zaia, spesso visto come un possibile contendente alla segreteria di Salvini, ha dichiarato: «È innegabile come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente, e non ci possiamo omologare a questo trovando semplici giustificazioni. È un momento delicato per la Lega – aggiunge – ed è bene affrontarlo con serietà perché è fondamentale capire fino in fondo quali aspetti hanno portato l’elettore a scegliere diversamente».
Più tranchant è il giudizio di Gianantonio Da Re, europarlementare trevigiano della Lega: «Questa disfatta ha un nome e cognome, Matteo Salvini. Dal Papeete in poi ha sbagliato tutto ha nominato nelle segreterie delle persone che hanno solo ed esclusivamente salvaguardato il proprio sedere».
Dello stesso avviso Paolo Grimoldi, segretario fino al 2021 della Lega Lombarda: «Dignità impone dimissioni immediate. Basta con la barzelletta del regolamento, dei ‘congressini’ e del Covid, la questione è politica».
Le onde in arrivo (discussione del tracollo, minoranza in un governo di centrodestra e altra dispersione di consenso) potrebbero essere troppo alte anche per il Capitano che inizia ad affrontare i primi segnali di un ammutinamento.
La base della Lega ribolle. La classe dirigente se ne fa interprete. E in vista del consiglio federale di domani, i fronti interni si stanno delineando chiaramente. Ci sono i nordisti puri, quelli che per abbandonare il progetto di partito nazionale e tornare al verde Sole delle Alpi si farebbero le flebo con l’acqua del Po. Sono militanti più che dirigenti, ma sicuramente la loro frustrazione si riversa più contro il segretario e che contro i governatori. I presidenti di Regione, appunto, che insieme ai giorgettiani costituiscono l’ala governista del partito. Quella che l’interesse del Nord produttivo viene prima di ogni cosa e che vedono nell’autonomia regionale l’obiettivo più alto della loro missione politica. E infine, ci sono i salviniani, ovvero chi dall’exploit del segretario ha guadagnato posizioni in via Bellerio, ruoli a livello nazionale e internazionale. Hanno un debito nei confronti del segretario ma, soprattutto, se cade Salvini, cadono anche loro.
(da agenzie)
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