LEOPOLDA 2010, QUANDO BOSCHI ERA SOLO UN AVVOCATO E RENZI PARLAVA DI LAVORO DA TUTELARE
GLI IDEALI TRADITI PER LA SCALATA AL POTERE
I tre giorni della rottamazione.
L’alba del renzismo, molto prima del patto del Nazareno e dell’articolo 18 da abbattere. Quando Civati era il primo alleato del leader in costruzione, Berlusconi pareva imprendibile come Beep Beep per Wile il Coyote e la Boschi si presentava come “avvocato esperto di diritto societario”.
Quattro anni e qualcosa fa, a Firenze fu “Prossima Fermata Italia”, la prima Leopolda. La madre delle convention renziane, che deve il nome all’omonima stazione: primo scalo ferroviario a Firenze, poi adibito a struttura per congressi di ogni sorta.
Da lì l’allora 35enne sindaco lanciò il guanto di sfida: “Noi non invochiamo posti, non rivendichiamo spazi: ce li prenderemo da soli”.
Pretendeva “primarie sempre e ovunque per scegliere i parlamentari” e sognava un Paese “che rende il lavoro meno incerto e il sussidio più certo”.
Voleva le unioni civili e la banda larga. Si proclamava antiberlusconiano a tutto tondo, e guai a chi lo accostava a B.
Dal 5 al 7 novembre 2010, raccontò le sue verità a quasi 7mila persone, accorse nel nome “della rottamazione dei dirigenti di lungo corso del Pd”.
Renzi voleva “mandare a casa Bersani, D’Alema e Veltroni senza distinzioni, perchè solo così possiamo sconfiggere Berlusconi”, come aveva scandito a Repubblica in agosto.
Molti avevano letto nell’intervista una variante dello sfogo morettiano a piazza Navona del 2002 (“Con questi dirigenti non vinceremo mai”).
Invece era l’annuncio di una scalata. E il primo metro dell’ascesa fu quell’assemblea, foto dei vari pezzi della sinistra che non ne poteva più.
A Firenze si affollano giovani sindaci Pd (e non) critici con il segretario Bersani, sindacalisti di base e ambientalisti, pezzi del Popolo viola, radicali perfino.
Cercano il nuovo. Trovano un giovane sindaco, già presidente della Provincia.
Con lui sul palco Giuseppe Civati, primo organizzatore dell’evento, ai tempi consigliere regionale in Lombardia.
Poi l’europarlamentare Debora Serracchiani, che un anno prima a Roma aveva sbattuto in faccia alla dirigenza tutta errori e viltà politiche.
Ma l’allora franceschiniana partecipa solo a una giornata: ancora poco convinta, raccontano, dal Renzi che le pareva troppo moderato.
Intervengono anche due irregolari come Ivan Scalfarotto e Anna Paola Concia. Poi ci sono gli artisti: Pif, lo scrittore Alessandro Baricco.
E filosofi, economisti, giornalisti.
Spicca l’intervento di Maria Elena Boschi, 29 anni. “Sono un avvocato” si presenta dal palco. Colpisce spettatori e stampa.
Di dirigenti e parlamentari di nome nessuna traccia. Bersani, invitato per la chiusura, marca visita. Da Roma, per Renzi e Civati, arrivano solo i fischi dell’assemblea dei circoli.
Poco male, forse meglio per la coppia rottamatrice.
Le parole d’ordine sono velocità e giovinezza. Tempi contigentati per gli interventi (800 in totale).
Dal palco un dj spara la playlist dei rottamatori: dai Muse a Bowie per arrivare ai toscani Baustelle. Lo schermo si riempie di video, brevi e colorati. Si va di fretta, perchè Renzi ha fretta. Di prendersi tutto. Anche se lui nega: “Non si può dire, anche perchè la parola leader porta una sfiga bestiale. E poi io voglio fare il sindaco”.
Ma la Leopolda è soprattutto sua.
È lui a seminare parole veloci e ironiche, spesso contro l’avversario di Arcore: “Dicono che sono un berluschino perchè comunico bene, è peggio di essere berlusconiani” assicura.
Aggiunge: “La sinistra deve liberarsi della subalternità a Berlusconi”.
Il concetto lo riassume una clip: un frammento del cartone animato di Wile, il simpatico coyote che insegue l’uccello Beep Beep, senza prenderlo mai.
Ma il momento culminante è la lettura della Carta di Firenze, sorta di manifesto politico.
Tutto al plurale. “Noi che abbiamo imparato a conoscere la politica con Tangentopoli e il debito pubblico e che oggi troviamo la classe dirigente del Paese occupata a discutere di bunga bunga e società offshore” inizia.
Renzi declama: “Vogliamo un Paese che permetta le unioni civili; che preferisca la banda larga al ponte di Messina; in cui si possa scaricare tutto”.
Obiettivi lontani, per il premier attuale. Lo stesso che puntava i piedi: “Vogliamo un Paese che rende il lavoro meno incerto e il sussidio più certo”.
E la battaglia attuale contro l’articolo 18?
Quattro anni dopo, Civati: “Io alla Leopolda pensavo a un progetto di sinistra, moderno; lui pensava a Renzi. Si è spostato a destra, prendendo da quell’evento l’aspetto più comunicativo”.
Ma si poteva già prevedere? “Vedevo la sua voglia di emergere, ma pensavo di tenere assieme a tutto. Quello era un appuntamento per tutto il centrosinistra: non un evento contro, ma propositivo”.
Un mese dopo la prima Leopolda, il sindaco Renzi bussava alla porta di Arcore.
Era l’inizio di un’altra storia. Di palazzo.
Luca De Carolis
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