L’OSSESSIONE CHE SPINGE LA RUSSIA
L’ANNESSIONE E LA RICERCA DI UNA SFERA DI INFLUENZA VENGONO DA LONTANO
La storia può essere una mirabile galleria di precedenti: il 31 ottobre 1939, in una sessione straordinaria del Soviet Supremo, Molotov, presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli esteri dell’Unione sovietica, dopo aver definito la Polonia appena annientata dalle armate naziste «una mostruosa creatura generata dal Trattato di Versailles tenuta in vita a spese dell’oppressione delle nazionalità non polacche», e della quale perciò era impensabile una futura restaurazione, annunciò l’accoglimento della richiesta da parte delle locali Assemblee del popolo di far entrare l’Ucraina e la Bielorussia occidentali (fino a due mesi prima territori a tutti gli effetti polacchi) nell’Urss.
Più o meno insomma — sia pure senza l’ipocrita modalità del finto referendum — si trattò della medesima tecnica di annessione messa in opera qualche mese fa da Vladimir Putin ai danni della regione ucraina del Donbass: «Sono loro che vogliono essere annessi, noi non facciamo altro che acconsentire».
All’annessione dei territori polacchi fece poi seguito da parte di Mosca l’occupazione militare nonché la brutale quanto rapida sovietizzazione anche di Estonia, Lettonia e Lituania culminata nel giugno del ’40 nell’ incorporazione anche dei tre Stati baltici nell’Unione sovietica. Solo con la Finlandia l’operazione non riuscì perché Helsinki decise di resistere con le armi.
Quello appena ricordato è l’esempio più clamoroso (dirò poi perché) di due caratteri costitutivi della storia russa da cui con tutta evidenza Putin è suggestionato fin quasi all’ossessione: l’annessionismo e la ricerca di una sfera d’influenza.
Tra il XVII e il XIX secolo una particolarissima condizione geografica consentì alla Moscovia, il cuore dello Stato russo, di divenire, prima grazie alla conquista della sterminata Siberia e all’annessione di gran parte della Polonia-Lituania, dell’Ucraina e della Crimea, e poi grazie all’occupazione coloniale dei confinanti altrettanto immensi territori dell’Asia centrale, l’unico Stato transcontinentale del pianeta: da Varsavia all’Alaska (russa fino a metà ’800), dall’Artico alle vette dell’Hindu-Kush. Ciò che peraltro non impedì alla medesima Russia zarista di aspirare costantemente anche a una sfera d’influenza nei Balcani e a uscire dal Mar Nero verso il Mediterraneo. La Russia sovietica fu la degna erede di questa storia. A causa della Prima guerra mondiale e della rivoluzione essa dovette rinunciare agli Stati Baltici, alla Polonia e alla Finlandia, ma nonostante i proclami iniziali si guardò bene dal concedere l’indipendenza all’Asia islamica che anzi in pratica incorporò. Anche nei dirigenti comunisti, insomma, rimase la medesima ossessione spaziale dei loro predecessori: se possibile ancor più acuita dal perenne timore paranoico della «reazione in agguato», del nemico esterno, dal quale quindi cautelarsi allontanandolo alla maggiore distanza possibile.
Ma non è questa esattamente la medesima ossessione che si legge oggi dietro i discorsi e le azioni di Vladimir Putin, dietro la sua decisione di aggredire l’Ucraina? Non è forse anche all’odierno padrone del Cremlino che l’espansione, la ricerca di sempre maggior spazio, la bulimia di influenza territoriale, appaiono il solo modo di esorcizzare l’insicurezza profonda di cui il suo potere, così come da secoli ogni potere russo a torto o a ragione, si sente sempre minacciato? Non sembra forse anche lui convinto che qualunque venir meno di un «grande spazio» metta in discussione la stessa identità dello Stato russo (quasi, viene da pensare, che come i suoi predecessori pure lui non sia sicuro di dove inizi e dove finisca la Russia stessa)?
Ma finito il tempo degli zar dal 1917 Mosca ha un problema cruciale: cercare di nascondere o contraffare di fronte al mondo il carattere reazionario e le brutali conseguenze imperialistiche del suo drammatico e irrisolto rapporto con lo spazio.
Ed è precisamente da questo punto di vista che appare davvero esemplare, simbolicamente esemplare, il comportamento tenuto dal potere russo rispetto al documento-chiave, all’atto in un certo senso fondativo, della sua vertiginosa crescita territoriale e di potere geo-politico in coincidenza con la Seconda guerra mondiale. Comportamento sul quale oggi possiamo dire di sapere tutto grazie a un importante libro appena uscito di Antonella Salomoni (Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, il Mulino) che ne ha ricostruito tutte le tappe.
Si tratta del protocollo firmato dall’Urss e dalla Germania nazista contemporaneamente al Patto di non aggressione del 23 agosto ’39 — che entrambe le parti s’impegnarono a tenere segreto — con il quale non solo in pratica i due Paesi si spartirono la Polonia ma si dividevano altresì in due grandi sfere d’influenza tutta l’area dalla Finlandia alla Moldavia (dove come ho già detto, la Russia si affrettò subito a fare man bassa in attesa di completare l’opera dopo il 1945). Un protocollo segreto che cambiava completamente la vera natura e il significato del patto. Il fine sbandierato della «non aggressione», diveniva infatti la maschera di tutt’altro: della piena partecipazione dell’Urss ai frutti dell’aggressione hitleriana alla Polonia, atto d’inizio della guerra europea. Era cioè il consenso sovietico a quell’aggressione in cambio di un enorme ampliamento territoriale sul Baltico e della creazione di una potenziale sfera d’influenza nei Balcani sudorientali. Da parte russa, dunque, era non già un modo per guadagnare tempo e cercare di ritardare l’attacco della Germania considerato prima o poi inevitabile — come l’ Unione sovietica si sforzò da subito e poi sempre in seguito di presentare l’accordo — bensì si trattava di una vera e propria alleanza in cui Berlino metteva le armi e Mosca il suo placet (oltre che una vera e propria valanga di materie prime per la macchina bellica tedesca, con un’altra intesa): ovviamente comune, pertanto, la divisione degli utili. Come avrebbe ammesso il presidente della Commissione d’indagine russa nominata un anno prima del crollo del comunismo, il protocollo «inficiava lo status ufficiale dell’Urss come neutrale»: insomma ne faceva virtualmente un’alleata del Terzo Reich e perciò suo complice nello scatenamento della guerra. L’intero senso del secondo conflitto mondiale ne usciva profondamente cambiato rispetto alla versione corrente: era dunque davvero necessario che il protocollo restasse segreto.
Ciò che fu possibile perché la sola altra copia esistente, quella presso il ministero degli esteri tedesco, era andata distrutta sotto le bombe. Sicché il mondo potè venire a conoscenza dell’accordo unicamente perché subito dopo la guerra uno stretto collaboratore di Ribbentrop ne cedette una copia microfilmata agli americani in cambio della libertà. Copia che naturalmente i sovietici sostennero sempre essere un volgarissimo falso.
Per mezzo secolo Mosca negò sempre, ostinatamente, l’esistenza del protocollo e lo stesso documento cartaceo originale con il testo del medesimo e le relative firme fu trasferito dall’archivio del ministero degli esteri per venire sepolto, con la classificazione più segreta, nell’archivio del Dipartimento generale del Comitato centrale del Pcus, una specie di camera blindata degli arcana imperii del comunismo russo. Un documento circondato da un valore politico-simbolico così dirompente che — ci dice Salomoni — della sua vera esistenza furono sempre a conoscenza pochissimi e che quando nel luglio 1987 Gorbaciov chiese che gli fosse mostrato, dopo averlo studiato decise di non condividerne il contenuto nemmeno con i membri del Politburo ordinando: «Non bisogna mostrarlo a nessuno. Sarò io stesso a dire con chi occorre farlo».
L’ora della verità sarebbe così venuta solo alla vigilia del crollo dell’Unione sovietica. Alla vigilia della «più grande catastrofe geopolitica della storia», come tante volte l’ha definita con rammarico Putin: dimentico però che prima di quella geopolitica c’era stata una gigantesca catastrofe morale e che nella storia talvolta capita che tra le due cose ci sia qualche rapporto.
Ernesto Galli della Loggia
(da il Corriere della Sera)
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