MA IN LIBIA PERMANE IL CAOS
L’ACCORDO TRA LE PARTI IN GUERRA E’ SOLO UN AUSPICIO: TRA MILIZIANI INFILTRATI DELL’ISIS E DUE ESERCITI, DUE PARLAMENTI E DUE CONSIGLI DEI MINISTRI
Un governo di unità nazionale in grado di porre fine alla guerra civile e avallare un intervento dell’Ue o dell’Onu.
E’ la soluzione al conflitto libico cui lavora da mesi l’inviato delle Nazioni Unite Bernardino Leon e su cui i Paesi occidentali fanno affidamento per arginare il flusso di migranti verso le coste italiane.
Tutti ne parlano, i politici italiani immaginano interventi basati su un accordo con un ipotetico esecutivo, ma l’accordo tra le due parti in guerra è ancora solo un auspicio.
Il Paese è nel caos, infiltrato dai miliziani dello Stato Islamico e diviso tra due parlamenti e due esecutivi che hanno difficoltà a governare i loro stessi esponenti.
Le recenti dimissioni di Omar Al Hassi, il premier sfiduciato dal parlamento di Tripoli, hanno causato uno scon tro tra mode rati e mili zie di Misu rata per tro vare una nuova figura che guidi l’esecutivo.
Sull’altro fronte, Abdullah Al Thani, capo del governo di Tobruk, il 13 marzo veniva bloccato in aeroporto dai suoi stessi soldati che gli impedivano di partire per la Tunisia.
Due governi e due eserciti: Tobruk contro Tripoli
La Libia resta spaccata in due.
A est il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, guidato da Abdullah Al Thani; e insediato in Cirenaica dopo essere stato eletto il 25 giugno 2014 perchè la capitale Tripoli era dilaniata dalla guerra.
È sostenuto dalle forze regolari libiche, nelle cui file è stato reintegrato l’ex generale Khalifa Haftar, che da mesi guida l’operazione militare Dignità , contro Ansar al Sharia a Bengasi e Isis a Derna, e quella contro le milizie filo-islamiche della coalizione Fajr Libya a Tripoli.
A fianco delle istituzioni di Tobruk si sono schierati Egitto ed Emirati Arabi Uniti, entrambi indicati come responsabili di raid aerei sulle milizie di Tripoli sin dall’estate del 2014.
A Tripoli ha sede, invece, il governo parallelo di Omar al Hassi e Fair Lybia (Alba della Libia).
Dopo la battaglia di agosto contro i rivali di Zintan (oggi fedeli a Tobruk) per il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, Fajr Libya (principalmente composta dagli ex ribelli di Misurata) ha imposto nella capitale un governo parallelo, denominato “di salvezza nazionale” e guidato da al Hassi, esponente dei Fratelli musulmani, appoggiato dalla Turchia.
Le milizie hanno riportato in vita anche il Congresso nazionale libico, l’ex parlamento il cui mandato è scaduto con il voto del 25 giugno 2014.
A complicare la situazione, il 6 novembre scorso, una sentenza della Corte Suprema ha definito illegittimo il parlamento di Tobruk e il suo governo, che hanno lanciato la propria offensiva per riconquistare la capitale.
E’ caos: Hassi non si dimette e Al Thani viene fermato dai suoi uomini
Una situazione di estrema instabilità che si riflette anche all’interno di ciascuno schieramento.
All’inizio di aprile Omar Hassi, il premier sfiduciato dal parlamento di Tripoli, si rifiutava di rassegnare le dimissioni, sostenendo di avere l’appoggio della milizia thuwar, i “combattenti rivoluzionari”.
Due settimane prima, il premier riconosciuto Al Thani veniva bloccato all’aeroporto di Labraq dai suoi stessi agenti di polizia, facendo saltare la visita programmata a Tunisi.
Si era trattato di una protesta contro la nomina a ministro dell’Interno di Mounir Ali Asr, originario dell’ovest della Libia, cui avrebbero preferito una personalità proveniente dal sud del paese.
Roma, è guerra anche per l’ambasciat
Le spaccature interne si ripercuotono anche nelle ambasciate di vari paesi, dove il governo di Tobruk ha voluto insediare i propri diplomatici e allontanare gli ambasciatori sospettati di rispondere al governo parallelo.
A Roma, ad esempio, il 9 marzo si è giunti al paradosso di due ambasciatori che si contendevano la sede diplomatica di via Nomentana, a suon di note verbali, ma anche di “calci, pugni e minacce”.
Quel giorno Azzedin al Awami, ex vicepresidente del Congresso nazionale libico, designato lo scorso novembre dal governo legittimo di Al Thani, si è presentato nella sede diplomatica per prendere funzione, forte della lettera del suo governo che nomina lui e rimuove Ahmed Safar, insediatosi a Villa Anziani nell’aprile del 2014, prima delle elezioni.
Ma gli uomini della sicurezza non hanno fatto passare il diplomatico. Ne è nato persino un parapiglia con intervento dei carabinieri.
“È stato come un tentato colpo di Stato — dichiarava Safar. Sarà il sospirato governo di unità nazionale a decidere. Intanto da tre mesi il governo di Tobruk non manda soldi a Roma, lasciando diplomatici e funzionari — anche italiani — senza stipendio.
Il terzo incomodo: lo Stato Islamico
A complicare la situazione a presenza, sempre più diffusa, di gruppi fondamentalisti. Il Paese è infiltrato dagli uomini dell’Isis e il suo territorio infestato da una nebulosa di gruppi armati e milizie.
Derna, ex provincia dell’Italia coloniale sulla costa orientale, è stata la prima città in cui un gruppo di fondamentalisti ha giurato fedeltà al califfo Abu Bakr al Baghdadi, lo scorso autunno.
Inizialmente si trattava di una presenza circoscritta, con poche centinaia di uomini spesso non libici e campi di addestramento sulle Montagne verdi della Cirenaica, poi la bandiera del’Isis è stata adottata anche da alcune milizie locali.
Le azioni degli jihadisti si sono estese a Tripoli, dove il 27 gennaio un commando armato ha compiuto il sanguinoso attacco all’hotel Corinthia, e a febbraio i miliziani sono entrati a Sirte e in altre località dell’ovest, attaccando diversi campi petroliferi. L’altro importante gruppo jihadista è Ansar al Sharia, gruppo di ispirazione qaedista, oggi alleato dell’Isis, che controlla le città di Bengasi e Sirte.
Sono ritenuti responsabili dell’attacco al consolato Usa dell’11 settembre 2012 in cui morirono l’ambasciatore statunitense Chris Stevens e altri tre connazionali.
Camera Italo-Libica: “Affidare la trattativa a Prodi e El Senussi”
“Con Bernardino Leon i risultati non arrivano — spiega Gian Franco Damiano, presidente della Camera di Commercio italo-libica — noi sappiano che c’è una forte disponibilità da parte dei libici a trovare un tavolo di lavoro in Italia.
E da componenti credibili delle due fazioni libiche i nomi caldeggiati sono due: chiedono come mediatori Romano Prodi e Mohammed el Senussi.
Prodi è una persona di cui si fidano, che conosce bene la Libia e il suo contesto. Senussi è l’unico libico che potrebbe essere accettato da tutte le parti: è il discendente della famiglia reale rovesciata dal golpe di Gheddafi, non ha alcuna intenzione di rivendicare il trono, il suo percorso personale ne fa un personaggio di spicco e gli dà un’autorevolezza che altri non hanno. Sappiamo che questa ipotesi di mediazione è sgradita e trova resistenze da parte di alcune componenti politiche italiane, ma la situazione è ormai troppo grave per non superare le divisioni. Per il bene della Libia e nostro. E di tutte le persone che continuano a morire nel Mediterraneo”.
Giusy Baioni
(da “il Fatto Quotidiano“)
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