MATTARELLA, DATA DEL 6 OTTOBRE CERCHIATA IN ROSSO
GOVERNO CHIUSO PER RISSE ELETTORALI… IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA TIENE SGOMBRA L’AGENDA DEGLI IMPEGNI DOPO LE EUROPEE
Magari è solo uno scrupolo, dettato dalla prudenza e da antiche consuetudini, però è indicativo che nell’agenda di Sergio Mattarella, nelle settimane successive al voto, non compaiono visite di Stato, impegni internazionali, insomma appuntamenti che sarebbe difficile disdire.
Gli abituali frequentatori del Colle negano che, in qualche modo, questo significhi che da quelle parti si viva il momento con particolare allarme. E che il capo dello Stato preveda una crisi di governo.
Però l’antica sapienza democristiana suggerisce, in momenti confusi, di mettersi nei panni dell’imperturbabile spettatore degli eventi.
E uno spettatore imperturbabile, proprio per non alimentare un clima di allarme, in alcuni momenti sa che gli impegni inderogabili, prima ancora di disdirli, è meglio non prenderli e rimanere a guardare quel che succede.
È chiaro che, quel che accadrà , sarà determinato in larga parte dai numeri che usciranno dalle urne.
È fin troppo ovvio che un risultato eclatante con la Lega ben oltre il 30 a una catastrofe dei Cinque Stelle rappresenterebbe una tentazione irresistibile per Salvini, invece un risultato più “normale” della Lega con una forbice più ridotta inchioderebbe tutti all’attuale quadro politico.
Però è un dato di fatto che, negli ultimi giorni, si sono intensificati gli spifferi sul ritorno voto, sopratutto da parte leghista.
L’ultimo spiffero porta la data del 6 ottobre, in modo da consentire a un eventuale nuovo governo il varo della finanziaria, almeno questa è la vulgata, sia pur un po’ ottimistica.
Il che, significherebbe che le Camere andrebbero sciolte il 10 agosto, con una crisi che si consuma a fine luglio, per consentire un giro rapido di consultazioni.
La novità , di questi ultimi giorni, è il crescente nervosismo di Salvini. Dire che il Capitano si è convinto dell’inevitabilità della “rottura” è sbagliato. Però è vero che, in questa campagna elettorale, sta toccando con mano un clima nuovo, a livello popolare e nel corpo diffuso del suo partito. C’è tutto un pezzo di opinione pubblica che gli dice “basta”, perchè, alla lunga, rischia di passare il messaggio di “complicità ” con i professionisti del no e con i responsabili dello stallo su economia e opere pubbliche.
È anche per questo che il leader della Lega ha dismesso i toni arroganti e liquidatori verso Silvio Berlusconi, parlando di “fronte comune in Europa” e dispensando parole di affetto sul vecchio leader del centrodestra. È un modo non solo per tenere aperta una prospettiva — il ritorno alla coalizione del centrodestra — ma anche per tenere quel pezzo di elettorato moderato e del Nord che pensa che “votare Salvini significhi votare Di Maio” e sta iniziando a rivolgere la sua attenzione verso altri lidi, come il partito di Giorgia Meloni.
Parliamoci chiaro: il governo, in questo momento, è chiuso per campagna elettorale, come un negozietto di un pizzicagnolo chiuso per ferie ad agosto, tanto che, di qui al 26, non c’è accordo nemmeno sulla data del prossimo consiglio dei ministri, dove l’uno vuole portare flat tax e autonomia e l’altro il conflitto di interessi.
Però l’osteria del cambiamento, che quotidianamente produce scambi di opinione sempre più coloriti, sta producendo un effetto inatteso dentro la Lega, registrato dagli ultimi sondaggi pubblici.
Il gioco di maggioranza e opposizione, nell’ambito dello stesso governo, più che una mobilitazione elettorale sta determinando un problema di credibilità per il leader leghista. Preso a schiaffi sulla giustizia, a mani vuote sull’economia, attaccato dall’alleato addirittura sul proprio terreno della sicurezza, costretto ad attaccare Di Maio sui morti sul lavoro in aumento, contestato nelle piazze, nervoso per gli striscioni, voi capite che, se uno non ha solo un elettorato di protesta, ma un blocco sociale che chiede risultati concreti ha un serio problema.
E rischia di rimanere incastrato nel giocattolo che ha costruito.
Ecco perchè Giorgetti ha cerchiato il rosso la data del 6 ottobre, consapevole che qui è in gioco non solo il futuro del governo, ma anche quello di Salvini, la sua parabola da leader che rischia di diventare discendente quando i numeri della manovra prenderanno il posto delle chiacchiere da comizio.
E si troverà presto al bivio tra provare a gestire l’autunno da palazzo Chigi o restare incastrato in questo governo, proprio nel delicato passaggio sulla manovra.
Per carità : se questa fosse la volontà delle forze parlamentari, il capo dello Stato non potrebbe certo mettersi di traverso. Però è anche vero che gli spifferi della campagna elettorale poi devono fare i conti con la realtà e con i suoi complessi principi.
Non è un caso che, anche se le buone vecchie abitudini ormai sono saltate, non si è mai votato a ottobre, in piena sessione di bilancio.
Perchè i governi è facile romperli, ma formarli, anche grazie a questo pasticcio di legge elettorale, non è poi cosa così facile.
La volta scorsa passarono un paio di mesi tra il voto e la formazione del governo. Due mesi a ottobre significherebbe andare in esercizio provvisorio, accendere un gran falò sui mercati, assumersi la responsabilità dello sfascio, in una situazione internazionale di nuovo allarme sul caso Italia.
Che è, poi, il film già visto lo scorso anno.
E non sarebbe neanche una bella figura per due forze politiche che hanno promesso e promettono di rovesciare l’Europa come un calzino presentarsi con governo dimissionario, tra giugno e luglio, al momento in cui ci sono tutte le nomine e inizierà il complesso negoziato sull’assetto dell’Unione dei prossimi cinque anni.
Forse si spiega anche così il clima di assoluta tranquillità che si respira al Colle, dove si è soliti fare la tara delle parole pronunciate nel corso della pugna elettorale, anche se gli spifferi che arrivano dai partiti suggeriscono il contrario.
E anche se parecchi consiglieri hanno ricevuto telefonate da questo o quell’ambasciatore di partito per sondare gli umori, e verificare la praticabilità di un ritorno al voto. E se fosse già troppo tardi?
Anche questo spiegherebbe il nervosismo di una crisi che non deve arrivare ma che si è già consumata, fissando le nuove modalità di relazione conflittuali dei due partner di governo.
(da “Huffingtonpost”)
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