NEL SALOON LEGHISTA NESSUNO SFIDA BUD SPENCER
UN PALLONE GONFIATO E TANTI PALLONI SGONFI: SALVINI DECLINANTE NEL PAESE INCASSA UN SOSTEGNO DA ISTITUTO LUCE, SI CONFERMA L’ASSENZA DI CORAGGIO DEI SUOI COMPETITOR
Insomma, nel tanto atteso saloon leghista, alla fine nessuno sfida Bud Spencer (copyright di Giancarlo Giorgetti). Perché, si capisce, non è il luogo, non è il momento. E soprattutto perché, anche se la leadership di Salvini è declinante nel paese, nel partito resta (per ora) il dominus assoluto, ed è prematura la sfida, ammesso che ci sia un competitor pronto. Il consiglio federale di oggi – organo ormai raramente convocato, secondo lo stile dei partiti personali, e convocato, sempre lo stile dei partiti personali, solo per testare la fedeltà al capo – è però lo specchio di una crisi, confermata proprio dalle fanfare dall’unanimità di facciata.
E, senza offesa, anche da uno stile da Istituto Luce con cui vengono diramate le notizie, lancio di agenzia dopo lancio: “Giorgetti ribadisce fiducia”, “partito compatto sul segretario”, “i dirigenti confermano piena fiducia a Salvini e alla sua linea” e così via, precedute da un volitivo “ascolto tutti, poi decido io”, che fa molto Papeete o torso nudo su un campo di grano.
Facciamola breve: Salvini, appunto in perfetto stile Bud Spencer, ha fatto capire che comanda lui, almeno dentro la Lega: avanti col gruppo sovranista in Europa, conferenza programmatica per serrare i ranghi in vista del Quirinale, nessuna concessione in termini di linea, anche perché le questioni vere le ha evitate. La parola Draghi è rimasta il vero convitato di pietra. Ha pure incassato un mea culpa da Giorgetti per il modo, si sarebbe detto una volta, in cui ha espresso il dissenso nel libro di Vespa, e le sperticate lodi di Zaia verso il leader che “prende i voti” da dare in pasto ai cronisti. E c’è da dire che di ruggiti di leoni non se ne sono sentiti, da parte di chi è uscito dalla riunione con gli stessi pensieri e retropensieri con cui è entrato. Altro elemento da annotare sul taccuino perché tra l’applauso e il dissenso ci sono diverse grammature di attributi.
Ma se il primo incassa una vittoria di Pirro interna e gli altri si nascondono come dei Vietcong nella selva leghista sperando che il governo Draghi completi l’opera, alla fine del western non consumato resta l’impressione di un partito seduto, nel suo insieme, su una polveriera di contraddizioni. Perché non è costo a zero, lo si è visto in questi mesi, il carnevale che prevede il sostegno a Draghi in Italia e il gruppo con la Le Pen in Europa, europeismo di qua, sovranismo di la, ma vale per tutti: se Salvini ha l’imbarazzo di dire alla Le Pen che in Italia sta con Draghi, Giorgetti ha l’imbarazzo di dire a Draghi che in Europa sta con la Le Pen.
I vecchi titolisti avrebbero riassunto la vicenda, con un classico “tregua armata”, che presuppone la rimozione dei nodi e la pistola che resta nella fontina. In parte è vero l’elemento di racconto di un conflitto che non si è consumato nelle sedi di partito, però non è vera la cessazione del conflitto, perché le due linee, che ci sono e restano, cozzano oggettivamente, al di là delle maschere soggettive indossate alla bisogna. La linea di Salvini regge se, e solo se, riesce ad andare ad elezioni anticipate dopo il Colle.
La linea di Giorgetti, che ha come perno il governo, si fonda sul fatto che su questo terreno le contraddizioni sono destinate ad aumentare. Effettivamente, così è stato finora perché il governo guidato dall’ex presidente della Bce, scientista ed europeista, ha rappresentato uno stress test per chi non ha ritarato il proprio orizzonte nelle condizioni nuove, e ne ha subito ogni iniziativa, da Speranza al Green Pass, da Speranza alla Lamorgese.
In tal senso, si capisce in parte l’“obbedisco di Giorgetti” anche se colpisce l’assenza di sfumature della politica attuale, come cioè si possa passare dalla plateale contestazione alla rinuncia alla discussione vera.
Avrà pensato, l’uomo che è sopravvissuto a tutti i segretari, da Bossi a Maroni, consapevole dell’essere uomo di geometrie logiche più che di truppe: “Vuoi comandare? Prego, ne riparliamo più avanti”, certo che più avanti non c’è la conta ma un muro dove l’altro andrà a sbattere.
Non ci vuole Cassandra per dire che questo “più avanti” si chiama Quirinale, con l’ipotesi Draghi squadernata sul tavolo. La settimana che ai conclude racconta, non solo nella Lega, di leadership che non hanno “pieni poteri sui gruppi”. Guardate le ultime 24 ore: Conte che non riesce nemmeno a eleggere il capogruppo, la Malpezzi processata per quattro ore all’assemblea del Pd (dove Letta non si è neanche presentato) per come è stato gestito il ddl Zan, infine l’unanimità di facciata nella Lega che non muta di una virgola il quadro.
Ovunque i segni di una scomposizione, come effetto della fase che si è aperta con la nascita del governo Draghi, senza che nessuna leadership abbia la forza di un disegno di ricomposizione. I segnali di una crisi politica destinata a diventare crisi istituzionale ci sono tutti. Allacciate le cinture.
(da Huffingtonpost)
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