PERCHE’ LA POLITICA NON E’ PIU’ LIBERA
LO SCANDALO DEI DOSSIERAGGI: SI TRATTA DI TRAFFICI DI INFORMAZIONE GESTITI DA PRIVATI PER SODDISFARE INTERESSI ILLECITI E RICATTI
La parola dossieraggio costella la storia della Prima Repubblica e tutt’ora sappiamo poco su come e quanto ne abbia determinato le vicende. Ma quelli erano dossier costruiti e gestiti da uomini dello Stato con la giustificazione (o l’alibi) della Guerra Fredda.
Il dossieraggio dei tempi nuovi, il dossieraggio della Equalize, dei bancari in apparenza innocui, degli hacker capaci di bucare il ministero della Giustizia o la Tim, non può nemmeno ammantarsi di quel sottile velo di ipocrisia.
Sono traffici di informazioni gestiti da privati per soddisfare interessi di cui abbiamo appena percepito le dimensioni e l’appetito: l’ultima inchiesta ruota intorno a ottocentomila rapporti tratti dalle banche dati delle forze dell’ordine, compresi documenti di interesse per la sicurezza nazionale, compresi leak sulle massime cariche dello Stato.
Dobbiamo per forza immaginare che questa enorme massa di accessi illegali abbia avuto committenti o sia stata comunque giudicata commerciabile perché utilizzabile a fini di ricatto.
E dobbiamo per forza chiederci: come è possibile fare politica, governare ma anche fare opposizione, nell’era dei dossieraggi 2.0?
È una domanda che è stata a lungo elusa. Mentre il mercato delle spiate si sviluppava, cresceva, arruolava ex-poliziotti di prestigio, manovalanza con accesso agli schedari di ogni istituzione della sicurezza, l’attenzione della politica è rimasta fissa (stavolta sì, in modo ossessivo) sulle intercettazioni giudiziarie, la branca più sorvegliata e di sicuro più attentamente regolata delle «intromissioni» nelle nostre esistenze. Lì agisce un potere dello Stato.
Lì ci sono regole, autorizzazioni da dare e avere, persone che ne rispondono, e tuttavia almeno da un paio di decenni è solo di questo che si parla, solo su questo si legifera e si agisce. Il resto, la vasta attività di intelligence privata e senza controllo, o è sfuggita ai radar oppure, ed è l’ipotesi più grave, è stata protetta perché giudicata una risorsa in casi di necessità.
I nomi coinvolti nell’affaire milanese e la loro vasta cerchia di relazioni ci dicono che questa seconda possibilità è concreta. Fornivano un servizio aberrante ma di qualità e interessante per molti. Non solo informazioni vere e segrete ma anche dossier falsi, false chat screditanti, false disavventure giudiziarie all’estero, secondo lo stile più classico di «quelli di prima» che con gli stessi sistemi depistarono gli eventi più tragici della notte della Repubblica.
Ma è proprio il paragone con i vecchi tempi, e la consapevolezza del costo che ha avuto per la nostra vita democratica, a obbligare le classi dirigenti e i partiti a una riflessione. Mezzo secolo dopo gli archivi illegali del Sifar di Francesco De Lorenzo o dell’Ufficio I di Umberto D’Amato, vent’anni dopo i veleni di Pio Pompa, un anno dopo il caso di Pasquale Striano e a pochi giorni da questo nuovo ed enorme affaire Equalize, denunciare genericamente i dossieraggi (magari pensando che prima o poi torneranno utili) non basta più.
Bisogna configurare ogni raccolta dati illegale e ogni costruzione privata di dossier, a qualsiasi titolo eseguita, come un reato di prima classe, un atto potenzialmente eversivo, un modus operandi in conflitto con l’essenza stessa della democrazia oltreché dannoso per singoli che ne sono colpiti, ben oltre le blande e confuse norme dell’attuale codice penale.
Serve, insomma, un collettivo sussulto civico oltre le parti, che troppo spesso hanno agito a corrente alternata sul tema, scandalizzandosi quando colpiva gli amici e minimizzando quando colpiva «gli altri».
Fare politica liberamente, decidere, nominare, criticare o difendere una scelta, sotto la potenziale spada di Damocle dei dossier 2. 0 è impossibile per tutti. Tutti dovrebbero prenderne atto e agire finalmente di conseguenza.
(da La Stampa)
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