PIÙ CARCERE PER I CORROTTI, MA NON PER MAFIA-CAPITALE
“QUESTE NORME NON SARANNO APPLICABILI ALL’INCHIESTA ROMANA”
Pene più severe, prescrizione aumentata, misure più efficaci per recuperare il maltolto. Questi i contenuti aggiuntivi al ddl Orlando sulla criminalità economica — che è all’esame del Senato da fine novembre — che il governo ha approvato ieri sera in un apposito Consiglio dei ministri.
Si potrebbe dire che forse il governo poteva pensarci prima, e effettivamente una settimana fa le stesse norme che il Guardasigilli ha fatto passare ieri erano state bloccate dal no di Angelino Alfano, però adesso c’è di mezzo l’inchiesta su Mafia Capitale e quindi non si può dare l’idea di perdere tempo: “In Consiglio c’è stata piena condivisione”, ha potuto dire Renzi ieri sera.
Missione compiuta, si dirà , ma solo a livello mediatico: le nuove norme infatti, vendute come reazione a Mafia Capitale, non saranno comunque applicabili ai reati commessi prima dell’entrata in vigore.
Lo spiega lo stesso Guardasigilli, Andrea Orlando: “No, non saranno applicabili ai reati di ‘Mafia Capitale’ se non forse per alcuni aspetti patrimoniali”.
L’articolo 25 della Costituzione, d’altronde, è assai chiaro: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
La questione dei tempi, dunque, è pura propaganda: il governo approva in Consiglio dei ministri proposte da inviare in Senato una settimana dopo l’esplosione dell’inchiesta sul “Mondo di mezzo” di Massimo Carminati e soci.
Queste norme non hanno, però, alcuna speranza di influire sull’inchiesta in corso a Roma e peraltro arrivano — ironia della sorte — proprio a Palazzo Madama, dove un ddl anti-corruzione giace abbandonato da un anno e mezzo: porta la firma del presidente del Senato Pietro Grasso e contiene già molti dei contenuti approvati ieri a palazzo Chigi.
Il senatore Pd Felice Casson l’ha detto chiaramente: “Bastava che il governo desse via libera al disegno di legge fermo in commissione Giustizia al Senato : faremmo pure più in fretta”.
Ma il punto non è fare in fretta — visti i probabili, lunghissimi dibattiti da azzeccagarbugli che inizieranno ora alle Camere — ma dare l’impressione di reagire allo scandalo romano.
Veniamo ai contenuti, che — dal poco che si è capito ieri sera — sono comunque un passo avanti rispetto a oggi.
Si tratta, in sostanza, di aumentare le pene per la “corruzione propria” (restano fuori quella giudiziaria e l’induzione illecita): la minima passa da 4 a sei anni, la massima da 8 a dieci, il che fa conseguentemente aumentare anche i tempi di prescrizione.
Sul punto, però, c’è anche un’altro intervento: la prescrizione verrà bloccata automaticamente per due anni dopo il primo grado e per uno dopo l’appello.
Meno chiaro il meccanismo sul recupero del “bottino”, anche se il premier ha sostenuto che si tratta di un modo per rendere più facile la confisca dei beni e che sarà applicabile anche agli eredi.
Forse è colpa del viaggio di due giorni in Turchia da cui è atterrato giusto ieri pomeriggio, ma il premier sembra più confuso del solito: vorrebbe dire che è tutto a posto, eppure non può rinunciare a attaccare il vecchio sistema corrotto.
La rottamazione è uno sport logorante, si sa.
E infatti prima dice che “la lotta alla corruzione non si fa con le norme, è una grande questione educativa e culturale”, poi però magnifica l’aumento delle pene “perchè ci sono patteggiamenti che consentono di non andare in carcere e tenersi pure una parte dei soldi” (il riferimento è alla fine in gloria delle inchieste su Expo e Mose, in cui quasi tutti hanno patteggiato pene basse e restituito cifre decisamente contenute).
In realtà poi Orlando spiegherà che con le nuove pene “il patteggiamento non esclude la pena detentiva”, ma non la comporta automaticamente.
Finita? Macchè.
Il Renzi di ieri era un pendolo in incessante movimento tra l’italian pride e il vigore giustizialista: prima cita Transparency International e i suoi pessimi dati sull’inflazione percepita, poi però dice che “noi non siamo d’accordo con chi dice che l’Italia è piena di corruzione”.
Pure lo slogan gli esce così così: ripete un paio di volte una cosa tipo “pagare fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo centesimo” e poi s’incarta sul non entusiasmante autoritratto “siamo il governo che ha l’ambizione di fare di più contro la corruzione”. E ancora: don Ciotti dice che l’autoriciclaggio è un compromesso al ribasso?
“Non è così, ma comunque almeno noi l’abbiamo messo l’autoriciclaggio. C’è chi fa le cose e chi…”, poi siccome di don Ciotti non può dire che chiacchiera e basta cambia discorso.
La chiusura è “un appello ai magistrati” — in cui include pure il Guardasigilli bordeggiando l’incidente costituzionale — “a fare rapidamente i processi per avere le sentenze il prima possibile”.
Così, per curiosità , per vedere se “Mafia Capitale” può essere smantellata con le vecchie leggi.
Lui, intanto, ha fatto il suo spot.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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