TUTTI CONTRO UNO: SI AVVICINA LA RESA DEI CONTI NEL PD
L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA NE PROMETTE DI TUTTI I COLORI
Il richiamo al rispetto reciproco. L’invito ad una discussione pacata. L’auspicio che si mettano da parte esasperazioni sempre più evidenti.
E’ l’ultimo appello del Presidente della Repubblica, nel giorno dello sciopero generale di Cgil, Uil e Ugl.
Parole al vento, con ogni probabilità : come portate via dal vento — lo conferma la cronaca di queste ore — sono state, per mesi, le invocazioni a varare quelle riforme (costituzionale ed elettorale) che giacciono tutt’ora in questa commissione o in quell’aula parlamentare, ostaggio di continui veti incrociati.
Le manifestazioni in cinquanta e più città italiane, e uno sciopero generale quasi «ad personam» — come non se ne vedeva dai tempi dei governi Berlusconi — segnalano con inequivoca nettezza come il vento attorno al governo di Matteo Renzi stia decisamente cambiando.
La filosofia dell’ «uno contro tutti», che tanto aveva pagato nei mesi dell’ascesa dell’ex sindaco di Firenze, comincia infatti a mostrare l’altra faccia della sua medaglia. I «tutti», infatti, vanno riorganizzandosi, si accordano, si spalleggiano e muovono al contrattacco.
Il quadro che ne emerge è desolante.
Pessimi i rapporti con l’Europa; in caduta libera tutti i parametri economici; improntati a sospetti (patto delNazareno) o a scontri durissimi i rapporti tra i partiti; guerra aperta tra Cgil e governo; disastrato, fino a far immaginare una rottura imminente, il rapporto tra il segretario-premier e la minoranza del suo partito, il Pd.
In un panorama fattosi così cupo, non può sorprendere che torni ad aleggiare il fantasma di elezioni anticipate: che poi sia tecnicamente difficilissimo arrivarci e politicamente quasi suicida pensarci, pare importare poco o nulla.
Tanto a destra quanto a sinistra.
E’ opinione comune che l’origine del rapido deterioramento del quadro politico sia da ricercare nel drammatico scontro in atto nel Partito democratico.
La guerra che le correnti di minoranza hanno intrapreso contro Renzi sta infatti riverberando i suoi effetti su quasi ogni fronte.
Nelle aule del Parlamento, ogni provvedimento di un qualche peso (riforma del Senato, Jobs Act, legge elettorale) è ostacolato o rallentato dallo scontro interno al Pd; e sul piano economico-sociale, si assiste ad un lievitare della protesta e ad una sorta di rovesciamento — nei rapporti tra sinistra e sindacati — dell’antico concetto di «cinghia di trasmissione»: con la Cgil, oggi, a far da traino e guida per l’opposizione interna al Pd.
Molto di quanto avviene, ricorda assai da vicino dinamiche che erano tradizionali al tempo della Prima Repubblica e della Dc, quando la guerra tra correnti (andreottiani, demitiani, dorotei…) produceva crisi di governo, cambi di premier e fine anticipata di questa o quella segreteria.
Sembrava un passato destinato a non tornare, e invece eccolo qui: con i suoi effetti disastrosi tanto sul piano della tenuta del sistema che dell’efficienza di governo.
Che il passato non ritorni, è possibile ma non scontato; che occorrerebbe ricordarne gli aspetti peggiori, invece, sarebbe — anzi: è — segno di saggezza e responsabilità .
In tale caos, è annunciata per domani l’ennesima «resa dei conti» all’interno del Pd, ma è difficile che l’Assemblea nazionale dei democrats possa portare a conclusioni e dinamiche nuove e certe.
E’ arduo, infatti, immaginare che il copione possa esser assai diverso da quelli visti e noti: Renzi che fa la sua relazione, la minoranza che vota contro, si divide o si astiene, e ogni cosa — alla fine — che ricomincia come prima.
Del resto, è inutile per i nemici del segretario-premier, forzare tempi e scelte adesso, quando la migliore occasione per una resa dei conti definitiva sembra a un passo, lontana qualche settimana o poco più.
E’ infatti lungo le alture di quel vicolo stretto — un vero e proprio canyon — rappresentato dalla scelta del nuovo Presidente della Repubblica, che i nemici interni ed esterni del premier vanno accampandosi per consumare la vendetta.
In una situazione nella quale nessuno dei leader maggiori (da Berlusconi a Renzi, fino a Beppe Grillo) controlla pienamente il proprio partito, si rischia di vederne di tutti i colori.
E il ricordo dei 101 franchi tiratori che affondarono la candidatura di Romano Prodi, potrebbe sbiadire di fronte a dissensi ed insubordinazioni ancor più espliciti e numerosi.
In palio, infatti, non c’è solo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, ma la testa di Matteo Renzi: Pier Luigi Bersani, del resto, la sua la perse così.
Il più giovane premier della storia repubblicana sa che potrebbe andar incontro ad analogo destino. Riflette e ragiona su come scansare il pericolo, ma una soluzione ancora non ce l’ha.
E intorno a lui, intanto, tutto sembra degradare e cambiar verso. Anzi, ricambiar verso: come non si sarebbe mai detto fino ad ancora due o tre mesi fa…
Federico Geremicca
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