PROGETTO FENICE: LA FIAT APRE ALLA OPEL E CHIUDE DUE STABILIMENTI IN ITALIA
MIRAFIORI, POMIGLIANO D’ARCO E TERMINI IMERESE LE SEDI A RISCHIO… SCAJOLA SCRIVE ALLA FIAT: NON VI ABBIAMO AIUTATO CON LE ROTTAMAZIONI PER POI VEDERE LICENZIATI GLI OPERAI IN ITALIA… QUALCUNO PUNTA A RISPARMIARE 1,5 MILIARDI DI EURO L’ANNO, MA LO FACCIA ALMENO SENZA I SOLDI DEI CONTRIBUENTI ITALIANI
Emerge l’inghippo. Mentre in Italia si festeggia l’operazione della Fiat che entra in Chrysler e il tentativo della stessa di dare la scalata a Opel, il quotidiano tedesco Handelsbatt dettaglia le ricadute a livello industriale della potenziale maxifusione tra Fiat e d Opel.
Secondo il giornale teutonico, il piano che la Fiat ha presentato lunedì al governo tedesco prevede la chiusura di alcuni impianti in Europa, inclusi due in Italia, uno al nord e uno al Sud.
E siccome Opel nel nostro Paese non ha alcuna unità produttiva, il riferimento non può che riguardare la casa di Torino.
Ne deriva che gli stabilimenti a rischio chiusura sono Mirafiori al nord e Pomigliano d’Arco e Termini Imerese al sud.
Il progetto presentato in Germania da Marchionne e denominato “Progetto Fenice”, consentirebbe un risparmio per l’azienda torinese di 1,5 miliardi di euro l’anno.
Di fronte al silenzio Fiat, il ministro alle Attività produttive, Claudio Scajola, ha preso carta e penna e ha scritto alla dirigenza Fiat sostenendo che “la centralità delle fabbriche italiane è fondamentale. Il governo ha supportato le domande del settore con gli incentivi alla rottamazione e i risultati sono stati positivi”.
In pratica Scajola fa capire che la Fiat non può pensare di incassare i finanziamenti indiretti attraverso gli incentivi e poi chiudere al contempo due impianti in Italia.
Ora che Marchionne persegua i suoi obiettivi aziendali nessuno glielo contesta; riuscire a creare alleanze e fusioni senza avere un euro, anzi avendo debiti non da poco, depone solo a favore della capacità del manager.
Ma sacrificare posti di lavoro in Italia, Paese in cui negli ultimi decenni, Fiat ha abbondantemente attinto alle casse statali italiane e nei portafogli dei contribuenti, ci parrebbe perlomeno di cattivo gusto. Come non ci convincono le motivazioni secondo cui l’accordo con Chrysler sia determinato dall’improvviso amore degli statunitensi verso auto del genere, di piccola cilindrata come quelle prodotte da Fiat.
Se gli americani le avessero richieste davvero, intanto le avrebbero importate da tempo e in subordine le avrebbero pure prodotte nei propri stabilimenti.
E’ dubbio che la convenienza dell’affare derivi da una superiorità tecnologica della Fiat o dal desiderio del consumatore americano di possedere auto simile alle nostre.
Se fosse esistito, sarebbe stato soddisfatto dal produttore americano o tramite le importazioni di tali vetture poco inquinanti.
Per non ricordare che, per molti americani, Fiat significa ancora “Fix it again”, ovvero “Aggiustala di nuovo Tony”. Ovvero che in America il marchio italiano non è certamente sinonimo di superiorità tecnologica.
Senza contare che eventuali capitali italiani che vengono impiegati all’estero, come accade quando un’impresa italiana ne acquista una straniera, fanno indubbiamente diminuire la quantità complessiva di capitale investibile in Italia, riducendo il nostro tasso di sviluppo e abbassando la competitività internazionale della nostra economia.
Ci si dovrebbe chiedere come mai la nostra economia non abbia meritato l’impiego di tali capitali. Invece tutti (o quasi) a tessere elogi di un nazionalismo ideologico della “Fiat piglia tutto”, senza il becco di un quattrino, senza chiedersi cosa c’è dietro.
C’e sicuramente un Marchionne in gamba a cercare alleanze e a fare gli esclusivi interessi dell’azienda. Ma non è detto che essi debbano per forza coincidere con quelli del nostro Paese.
Soprattutto se si traducessero in tagli occupazionali qua da noi: sarebbe assurdo, dopo aver rassicurato gli operai tedeschi, che fossero proprio i nostri a essere bidonati con la chiusura dello stabilimento dove lavorano.
Siamo alla solita strategia della socializzazione delle perdite e della privatizzazione degli utili?
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