REFERENDUM E REGIONALI, MELONI GIOCA D’ANTICIPO E AVVIA LA “FASE DUE”
VUOLE RICANDIDARSI PER UN SECONDO MANDATO, MA IN MEZZO CI SONO DIVERSE SCADENZE ELETTORALI
Le comunali e i referendum sono solo le prime tappe che attendono Giorgia Meloni, forse le più semplici. Perché all’orizzonte c’è la scalata delle regionali, dal Veneto alla Puglia, passando per Toscana, Marche e Campania: uno snodo decisivo per il prosieguo della legislatura, arrivata al giro di boa.Calendario alla mano, dopo l’anestetizzazione del dibattito tra le festività e il lutto per papa Francesco, la presidente del Consiglio ha avviato la fase del suo governo con un’intervista all’agenzia di stampa AdnKronos. Anticipando avversari e ancora di più alleati.
Il contenuto, al solito, si è mosso crinale tra vittimismo, familismo, rifiuto dell’antifascismo, con una massiccia iniezione di propaganda. Nulla di nuovo, dunque: Meloni in purezza. Ma che ha fatto intendere chi comanda nel campo del centrodestra: alle prossime politiche vuole ricandidarsi da leader. O con me o contro di me, insomma.
Solo che Matteo Salvini e Antonio Tajani non possono ricoprire in eterno il ruolo di vassalli.
Partita regionale
Il mosaico più complicato è quello delle regionali d’autunno, in apparenza così lontane ma in realtà dietro l’angolo.
Nel centrosinistra c’è chi accarezza il sogno del 4-1, lasciando al centrodestra solo il Veneto, che nel campo largo è dato per perso a prescindere dalle spaccature a destra. Sarebbe una prova di forza per la segretaria del Pd, Elly Schlein, e per il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte.
Meloni è invece chiamata a gestire i rapporti con Lega e Forza Italia, in regioni particolarmente sensibili per gli alleati. E per questo possono provocare ripercussioni sui rapporti nella maggioranza.
Il Veneto per Salvini è la linea del Piave, vuole un suo candidato per il post Zaia, a meno che non venga offerta come sonante moneta di scambio il ritorno al Viminale che placherebbe il leader leghista con buona pace del popolo della Liga veneta.
Opzione che a palazzo Chigi non viene ritenuta praticabile, perché causerebbe il rimpasto.
A Forza Italia occorre fare altre concessioni. In Campania l’eurodeputato azzurro Fulvio Martusciello ha rilanciato l’idea di «un candidato civico» giusto
per azzoppare le ambizioni di Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, che si sente il candidato in pectore. Neppure per Meloni è facile districarsi nelle guerriglie territoriali.
La presidente del Consiglio ha chiesto ai suoi di guardare avanti. Ma muovendosi con attenzione, passo dopo passo. In questo contesto non vuole sottovalutare le scadenze elettorali più imminenti, sebbene meno impattanti. Il 24 e 25 maggio c’è il primo turno delle amministrative. In ballo non ci sono comuni di grandissimo peso, eccetto Genova e in misura minore Taranto, dove il puzzle dei candidati è frammentato a causa di spaccature locali nelle alleanze.
Per questo la partita nel capoluogo ligure può sovraccaricarsi di attese mediatiche. L’eventuale sconfitta della destra, che ha candidato Pietro Piciocchi (braccio destro di Marco Bucci) sarebbe un problema non secondario che aprirebbe qualche crepa. Meloni ha impartito l’ordine di spendersi al massimo per conquistare la vittoria per stroncare sul nascere qualsiasi borbottio della Lega e di Forza Italia.
Solo che Genova è solo un piccolo tassello all’interno di un puzzle in via di composizione: i referendum di giugno rappresentano comunque un rischio. A palazzo Chigi, nell’inner circle della premier, c’è ottimismo sul risultato favorevole al governo con il mancato raggiungimento del quorum.
Tanto che finora Meloni si è guardata bene dal politicizzare l’esito referendario: una presa di posizione faciliterebbe la polarizzazione e la chiamata al voto delle opposizioni.
Salari e tasse
La premier gioca le proprie carte. Gli alleati, però, non possono stare zitti e buoni ancora a lungo. Ci sono i temi concreti da discutere: Lega e Forza Italia devono portare a casa qualche risultato da rivendere nelle varie campagne elettorali. Salvini ha addirittura lanciato la sfida sul terreno dei salari per arrivare a una legge che aumenti gli stipendi dei lavoratori, garantendo un potere d’acquisto.
Un “salario minimo” in salsa leghista, affidato al vicesegretario, Claudio Durigon, deus ex machina del partito di Salvini su questi temi. C’è poi tutta la battaglia fiscale da vincere.
Il leader leghista si è messo in testa di ottenere qualcosa sul fronte della
rottamazione delle cartelle. Se non può arrivare alla sanatoria per tutti, serve uno strapuntino.
Dall’altra parte Tajani sta cercando di capire come orientarsi sul taglio delle tasse al ceto medio, una promessa fatta già nella scorsa manovra economica e rimasta nel cassetto.
Al momento non ci sono risorse per pensare a un taglio efficace del secondo scaglione Irpef. Così due alleati litigarelli tra loro, Salvini e Tajani, sembrano destinati a fare le vittime sacrificali degli appetiti meloniani. Con FdI che lancia una silenzio, quanto ostile opa, sui partiti alleati.
(da editorialedomani.it)
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