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ROMA, GLI SPRECHI: QUEI PREMI REGALATI ANCHE A CHI NON LAVORA

DA AMA A METRO C, ECCO COME VENGONO DILAPIDATE LE RISORSE PUBBLICHE DELLA CAPITALE

«Ecco l’asilo dove al mattino / vien la maestra con il trenino. / Quella di ruolo sul primo vagone / ha quasi sempre un gran febbrone. / E la supplente che viene seconda / dopo due giorni è già  moribonda / Passa la terza e questo convoglio / scassa le casse del Campidoglio…»
Il «trenino» della filastrocca c’è davvero. Circola a Roma, fra gli asili nido e le «materne» comunali.
Le maestre in pianta stabile, che complessivamente costano 145 milioni, sono 5.400.
Ma ce ne sono altre 2.400 a tempo determinato, supplenti delle titolari e altre 4.000 superprecarie (quadruplicate in pochi anni) per la supplenza delle supplenti assenti.
Per un costo totale, insieme, di altri 65 milioni. Con un assenteismo oltre il 30%.
Una situazione così pesante che Marino a un certo punto chiese all’Inps di fare dei controlli a tappeto. Era tutto pronto. Controlli garbati. Men che mai polizieschi: si sa che i piccoli si ammalano spesso e coi piccoli si ammalano le maestre.
Insomma, niente a che fare con la Gestapo. Eppure, la mattina in cui dovevano partire i controlli, la lista delle assenti non è partita.
E così il secondo giorno, il terzo, il quarto… Controlli sospesi. Evaporati…
Dice molto, questa storia, della piega che hanno preso le cose, da decenni, al Comune di Roma. Senza che alcuno sia riuscito (ammesso ci abbia provato) a cambiare certe cattive abitudini.
Ciò che non viene fatto per le strade dissestate viene fatto per quietare ogni possibile conflitto col personale e più in generale col mondo del lavoro storicamente legato al posto pubblico: rattoppi, rattoppi, rattoppi.
Quando il Comune non poteva assumere, ci pensavano le municipalizzate. Quando non potevano le municipalizzate, ecco gli appalti esterni a ditte private che il Campidoglio si caricava sulle spalle.
Risultato? Dopo Poste e Ferrovie il Comune di Roma è la terza azienda del Paese.
Sommando i quasi 25 mila dipendenti diretti con gli almeno 35 mila delle municipalizzate supera quota 60 mila. Più del doppio del personale italiano della Fiat.
Se contiamo poi le ditte che lavorano in appalto, come le cooperative di cui si sono recentemente occupate le cronache o le ditte addette alle manutenzioni stradali o le aziende di supporto all’Atac, andiamo ancora più su, su, su…
Sapete quante sono le società  che fanno capo a «Mamma Lupa»? Ventisei.
Più una giungla di controllate: Acea, Atac e Ama ne hanno da sole 44.
Un groviglio inestricabile.
Il Campidoglio, per dire, è l’unico ente pubblico al mondo proprietario di una compagnia di assicurazioni. La Adir. Per risparmiare? Macchè: paga premi 3,2 volte più cari rispetto a quelli del municipio di Milano.
Per non parlare dei sinistri liquidati assai «generosamente»: 4,2 volte più che nel capoluogo lombardo.
Se ne occuparono un paio di anni fa perfino le cronache rosa quando Antonio «Karim» Capuano, un belloccio tronista di «Uomini e Donne», finì con la Smart contro un bus Cotral e restò in coma un paio di settimane.
Saltò fuori che viaggiava senza assicurazione e aveva un tasso alcolemico quasi quadruplo rispetto al consentito. Leggi alla mano, poteva pagare la ciucca con una multa da 1500 a 6000 euro, l’arresto da 6 mesi ad un anno, la sospensione della patente da 1 a 2 anni, la confisca dell’auto…
Per due anni, davanti alla richiesta del giovanotto di tre milioni di euro di danni perchè, minato nella salute, non poteva partecipare ai talk show, l’assicurazione comunale rifiutò: dato che c’era almeno il concorso di colpa, al massimo 250mila. Non un euro di più.
Il «tronista» del resto, a dispetto dell’invalidità  all’80% pareva piuttosto guarito, tanto che in attesa del risarcimento da invalido s’era fatto arrestare per aver staccato a morsi l’orecchio a un rivale. Come Tyson.
Finchè un bel giorno, come ricostruì il Tg7 di Enrico Mentana, i vertici dell’Adir cambiarono idea e riconobbero al bellone mozza-orecchi una transazione da un milione e 200 mila euro.
Il doppio di quanto il Tribunale di Milano riconosce nella sua tabella dei risarcimenti a un quarantenne colpito da cecità  assoluta o dalla perdita delle braccia.
Informato di come giravano le cose, Marino denunciò in consiglio le scelte del Cda guidato da Marco Cardìa, figlio dell’ex presidente della Consob Lamberto, come «riprovevoli».
1) L’occultamento al Comune delle contestazioni mosse ad Adir dall’Istituto Vigilanza Assicurazioni. 2) Il «ricorso incomprensibile a un numero sempre più cospicuo di avvocati del libero Foro». 3) Il prestito di 220 mila euro concesso dallo stesso Marco Cardia a se stesso Cardia Marco.
Ciò detto, il sindaco azzerò i vertici. Salvando solo il direttore generale: aveva un contratto blindato con una penale stratosferica.
E le farmacie comunali? Appena insediato, Marino si mise le mani nei capelli: alla Farmacap, che per i suoi «sportelli» si era spinta a pagare qua e là  affitti che arrivavano a 160-170 mila euro l’anno, c’era un buco abissale.
Tanto da costringere il Campidoglio a tirar fuori una quindicina di milioni per evitare la bancarotta e non mettere a rischio il posto dei 362 dipendenti.
Trecentosessantadue: otto dipendenti e mezzo per ciascuna delle 43 «comunali». Unico caso planetario di farmacie in rosso.
Niente, comunque, rispetto ai colossi Acea, Atac e Ama, che pagano insieme quasi 32 mila stipendi.
L’Acea, quotata in borsa e posseduta dal comune, dai francesi di Suez e dal costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, ne ha tentate in questi anni di tutti i colori.
Dalle avventure internazionali per distribuire acqua in Perù o in Armenia al disastroso sbarco nella telefonia, archiviato con perdite per oltre 200 milioni.
Il tutto mentre distrattamente si «dimenticava» della rete dell’illuminazione pubblica del centro storico che, come rivela lo stato dei lampioni, è la stessa di ottant’anni fa. E solo da poco è stata «attenzionata», per dirla in burocratese, da un piano straordinario (sei milioni l’anno) di adeguamento al terzo millennio.
Quanto alle altre due balene pubbliche capitoline, se fossero private sarebbero fallite da un pezzo. Soffocate da un torbido intreccio di inefficienze, interessi politici e clientele partitiche, sindacali e personali di questo o quel cacicco, l’Atac e l’Ama vengono tenute in vita con costi astronomici.
La prima, che gestisce tram, autobus e metro, ha 12.184 dipendenti, un migliaio più dell’Alitalia. Senza l’appeal per attirare sceicchi. Ovvio.
In dieci anni ha accumulato perdite per un miliardo e 600 milioni. Gli autobus hanno un’anzianità  media di nove anni e passa. Seicento su 2.300, cioè più di uno su quattro, sono inutilizzabili o vengono addirittura cannibalizzati per i pezzi di ricambio.
Gli incassi dei biglietti sono la metà  che a Milano, l’evasione è da capogiro.
Gli autisti di tram e metro, dice un recente rapporto dell’assessorato ai Trasporti, guidano 736 ore l’anno contro le 850 a Napoli e le 1.200 a Milano.
«Dei 6.500 autisti dell’azienda circa 970 restano a casa ogni giorno», spiegava mesi fa un’inchiesta di Ricardo Tagliapietra sul Messaggero denunciando un assenteismo che in agosto era arrivato al 22%, « Una delle curiosità  puramente numeriche riguarda le visite mediche per l’abilitazione alla guida. Fino al 2010 venivano eseguite dall’Asl attraverso l’ospedale San Giovanni (struttura pubblica): mediamente c’erano una cinquantina di autisti l’anno con inidoneità  alla guida. Poi la gestione è passata al centro diagnostico Pigafetta (struttura privata, partecipata da Ferrovie dello Stato). Negli ultimi tre anni il numero di inidonei è salito da 50 a 607, di cui 387 temporanei e 220 definitivi…»
Va da sè che non si muove foglia che sindacato non voglia: 13 sigle per diecimila iscritti.
E poichè i 12 mila dipendenti dell’Atac non parevano sufficienti, nel 2006 alcune linee periferiche sono state appaltate a un consorzio di autotrasportatori con altre 884 persone.
Con il costo di un altro centinaio di milioni l’anno caricato sull’Erario. S’è visto di tutto, all’Atac: di tutto.
Perfino sette lettere firmate dall’amministratore delegato imposto da Gianni Alemanno, Adalberto Bertucci, che riconosceva a sette dirigenti di nomina politica, i «Magnifici 7», un’indennità  pari a cinque anni di stipendio (cinque anni!) nella sola ipotesi che fossero spostati di scrivania. Come premio per tanta arguzia manageriale lo stesso Bertucci aveva una busta paga all’altezza dello sfacelo: 359.586 euro annui. Grazie a una maxi consulenza che integrava lo stipendio Atac. Committente? L’Atac.
Franco Panzironi, amministratore delegato dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, si trattava ancora meglio: 545.288 euro l’anno.
Un compenso anche qui all’altezza dello sfacelo: fu lui a gonfiare gli organici già  gonfi con altre 1.518 persone.
Con procedure così discutibili (amici, cognati, cugini, signorine di coscia lunga) da finire dritto nell’inchiesta «Parentopoli» e uscendone con una condanna in primo grado a 5 anni e tre mesi. Era la «stagione delle cavallette», certo.
Ma certe storiacce sarebbero stati possibili senza un clima favorevole di complicità , omertà  e connivenze? Il sindacato che faceva assumere i raccomandati propri chiudendo un occhio su quelli altrui non ha nulla da dire? E se il sindacato è potente all’Atac, all’Ama è potentissimo. Tanto da aver costretto l’azienda a firmare un accordo integrativo pazzesco.
Concedeva un premio di produzione (premio di produzione!) a chi si fosse presentato al lavoro almeno la metà  (la metà !) delle giornate lavorative e non avesse collezionato più di cinque giorni (cinque giorni!) di sospensione per motivi disciplinari. Demenziale.
In un’azienda allo sfascio, con un costo del servizio che sfiora gli 800 milioni annui.
Una morosità  alle stelle e una montagna di crediti inesigibili. Al punto di costringere il Comune ad accantonare a fondo rischi centinaia di milioni.
Metà  Metro C è costata più dell’Autosole
Si dirà  che succede anche altrove. Può darsi. Solo a Roma, però, è potuto accadere che il Comune, per fare una metropolitana, la linea C, costituisse una società  delegata a gestire l’appalto: la Roma Metropolitane.
Occupa 179 persone e ha un solo scopo: tenere i rapporti col general contractor della Metro C: un consorzio composto da Caltagirone, Astaldi, cooperative rosse e Ansaldo, di Finmeccanica. Una Santa Alleanza che ricorda le spartizioni delle opere pubbliche in tempi non lontani.
Otto mesi fa l’Autorità  anticorruzione di Raffaele Cantone, innescata dalla denuncia di un consigliere radicale e di un ingegnere, Riccardo Magi e Antonio Tamburrino, sfornò un rapporto ustionante su quella mostruosa creatura nata e cresciuta sotto lo sguardo affettuoso dell’ex responsabile governativo delle grandi infrastrutture, poi finito in manette, Ercole Incalza.
Si raccontava di un appalto dai contorni discutibili e delle 45 (quarantacinque) varianti in corso d’opera che avevano fatto lievitare i prezzi da poco più di 3 miliardi a 3 miliardi e 739 milioni: quanto il costo, in euro attuali, dell’Autostrada del Sole.
E non siamo ancora a metà  dell’opera. Vabbè che sotto Roma ci sono resti archeologici ed è complicato scavare, ma santo Iddio!
Pochi giorni fa Magi e Tamburrino hanno presentato una nuova denuncia.
Sostengono che per venire fuori da un pasticcio che rischia di costare più del Mose di Venezia, si sta pensando di bypassare tutto il centro storico con un tunnel di due chilometri e mezzo per portare i convogli direttamente dal Colosseo a San Pietro. Non stop. Ma ha senso? Boh… Preventivo: un altro miliardo e mezzo. Almeno
Sempre che non ci si metta di mezzo qualche arbitrato. Perchè su quelli una certezza c’è: il Comune perde sempre.
Ha perso con gli autotrasportatori privati che gestiscono le linee periferiche: 115 milioni.
Ha perso coi gestori della discarica di Malagrotta: 90 milioni. Ha perso, grazie anche alla perizia di galantuomini quali Angelo Balducci (poi ammanettato per gli scandali del G8 alla Maddalena, dei Mondiali di nuoto e gli eventi per i 150 anni dell’Unità  d’Italia) con lo stesso consorzio Metro C: altri 90 milioni.
Sono decenni che Mamma Lupa sfama decine di migliaia di romani senza badare troppo a ragioni e meriti.
Dicono tutto i numeri del «salario accessorio» che ha generato una sfida durissima tra Marino e i sindacati. È una voce dello stipendio che doveva essere collegata a particolari mansioni.
Una specie di premio ai più bravi, più volenterosi, più fedeli al lavoro. Ma è diventata via via una componente ordinaria delle retribuzioni.
Come fosse dovuta a tutti.
Fra il 2000 e il 2012, dice un dossier del ministero dell’Economia, sono state distribuite 94.994 gratifiche. La ricompensa del Campidoglio per 94.994 valutazioni positive: bravo, dipendente! E le negative? Tenetevi forte: 15. Quindici! Cioè lo 0,016%. Manco un asino. Un analfabeta. Un lavativo. Tutti bravissimi, tutti puntualissimi, tutti efficientissimi.
Ma i dirigenti? Possibile che un andazzo come questo sia andato bene per anni a chi gli uffici deve comunque farli funzionare? La risposta è ancora in quel rapporto. Nessuna lagnanza. Ovvio: le retribuzioni accessorie dei dirigenti, fra il 2001 e il 2012, sono salite mediamente da 45.640 a 88.707 euro l’anno pro capite.
Un’impennata del 94,3% in anni in cui il Pil medio di ogni italiano precipitava di 8 punti e la vendita delle auto ai livelli del 1964.
«Non risulta», sostiene il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della retribuzione di risultato».
Nessuna meraviglia: una nota del dipartimento risorse umane del dicembre 2011, ai tempi della destra e di Alemanno, rifiutava il premio di produttività  a chi avesse lavorato «un numero di giornate inferiore a 110».
Due giorni di lavoro a settimana. Ammazza, che severità !

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)

This entry was posted on venerdì, Giugno 19th, 2015 at 12:01 and is filed under Roma. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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