SALARI E PENSIONI, IL PAESE ARRANCA
I NODI E I DATI CHE PREOCCUPANO
Gli operai a 67 anni hanno 5 anni in meno di speranza di vita rispetto ai manager: 16 anni contro 20,9 anni. Dopo una vita mediamente più faticosa ed esposta a maggiori rischi per la salute e per la stessa sopravvivenza, come testimonia il quotidiano stillicidio di morti sul lavoro, godranno di meno anni di meritato riposo e graveranno meno, o affatto, sul bilancio pensionistico.
È una delle questioni di equità che emerge (indirettamente) dal ricco rapporto annuale Inps.
Un’altra riguarda l’impatto dell’inflazione, che non solo si è mangiata tutti gli aumenti retributivi, ma ha anche diminuito il potere d’acquisto del restante, specie tra chi si trova nei quintili di reddito più bassi, un fenomeno già noto.
Meno noto, forse, il fatto che i pensionati, il cui reddito è stato più protetto dalle crisi del 2008 e poi della pandemia rispetto ai redditi da lavoro, oggi si trovano meno protetti di fronte all’inflazione, stante che non possono aumentare il loro reddito aumentando le ore lavorate o il numero di lavoratori in famiglia.
Le disuguaglianze tra pensionati non riguardano solo le biografie professionali, ma anche il divario di genere, non più solo, come nel passato, relativamente all’ammontare medio della pensione, più bassa per le donne a causa sia delle carriere più piatte e dei divari salariali, sia delle biografie lavorative e contributive più intermittenti, ma anche all’età in cui vanno in pensione. Proprio a motivo di carriere discontinue a causa dell’interferenza delle responsabilità di cura familiare che sono state addossate tutte o in larga misura a loro, con l’andata a regime del sistema contributivo le lavoratrici anziane oggi, a differenza di pochi anni fa, vanno in media in pensione cinque mesi dopo gli uomini e spesso devono aspettare l’età della pensione di vecchiaia, mentre molti lavoratori uomini possono andare in pensione di anzianità.
Le donne sono e saranno ancora per qualche anno, i soggetti più penalizzati nel passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo, pagando un prezzo alto per tutto il lavoro familiare gratuito che fanno nel corso della vita. Un prezzo insito anche nella misura che sembrava di specifico vantaggio per loro, “Opzione donna”, che ha consentito a chi, per lo più a basso reddito, ne aveva bisogno per far fronte alle responsabilità di cura familiare, di andare in pensione un po’ prima. Ma con una forte decurtazione della pensione. Cosa che non è successo ai – molto più numerosi – lavoratori, per lo più uomini, che hanno potuto fruire di “Quota 100”.
La questione delle carriere lavorative discontinue non riguarda solo le donne. La crescente precarietà nel mercato del lavoro, che vede un aumento di 20 punti percentuali in 10 anni di chi entra con un contratto temporaneo, insieme all’aumento del part time involontario, segnala che sta diventando una caratteristica di una quota crescente di lavoratori e lavoratrici, anche se incide di più tra queste ultime. Alla questione della precarietà che si traduce anche in meno ore lavorate, remunerate, accompagnate da contributi, si associa quella del lavoro povero. Giustamente il Rapporto segnala che non è solo una questione di bassi salari, ma di quante ore, settimane, mesi si riesce a lavorare. Anche se la soglia al di sotto della quale colloca i lavoratori poveri mi sembra davvero troppo bassa: 24.9 euro lordi al giorno per i part-time e 48.3 euro lordi al giorno per i full time. Grosso modo, per chi lavora full time sarebbero molto meno di 6 euro netti l’ora. L’opportunità di discutere a fondo quale sia il salario netto minimo decente appare evidente, anche se è solo una parte del problema del lavoro povero.
Infine, una buona notizia: il numero dei beneficiari del Reddito di cittadinanza è un po’ diminuito a seguito, non dell’espulsione iniziata ad agosto, ma perché, smentendo ogni fantasia sui percettori nullafacenti che non vogliono lavorare, la ripresa occupazionale, documentata anche da Istat, ha consentito a qualche centinaio di migliaia di trovare un’occupazione e un reddito decenti.
Sono rimasti i più poveri, presumibilmente con più difficoltà a collocarsi nel mercato del lavoro, a prescindere dalla composizione della loro famiglia. Invece di inventarsi strane categorie di occupabili, e interrompere il sussidio su questa base, sarebbe bastato guardare con attenzione i dati e mettere in piedi politiche attive del lavoro effettive, anche d’accordo con le imprese, mantenendo il sostegno a tutti coloro che hanno bisogno di più tempo, o non ce la fanno.
(da agenzie)
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