STATO-MAFIA: SI’ AL RICORSO DEL QUIRINALE: DALLA CONSULTA STOP AI PM DI PALERMO
COME AVEVAMO SOSTENUTO, ACCOLTO IL RICORSO IN MERITO ALLE INTERCETTAZIONI INDIRETTE TRA NAPOLITANO E MANCINO: ANDAVANO DISTRUTTE IN QUANTO IRRILEVANTI
La Corte costituzionale ha accolto il ricorso del Presidente della Repubblica nel conflitto di attribuzioni con la Procura della Repubblica di Palermo dichiarando che non spettava alla Procura di valutare la rilevanza delle intercettazioni nè di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271 del codice di procedura penale.
La decisione stabilisce che quelle intercettazioni erano vietate, quindi da distruggere nel corso di una udienza segreta davanti al giudice.
«La Corte costituzionale – informa la Consulta – in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08 e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti».
Dopo un’udienza pubblica di un’ora e quaranta e una camera di consiglio di circa 4 ore, la Consulta ha infatti stabilito che i pm non avrebbero dovuto valutare le conversazioni del Capo dello Stato, nè omettere di chiederne la distruzione seguendo il percorso tracciato per le intercettazioni vietate. Soddisfatto l’ex avvocato generale dello Stato, Francesco Caramazza, che ha steso il ricorso e che a settembre ha passato il testimone a Giuseppe Dipace: «Fin dal primo momento ho ritenuto che quel ricorso fosse fondato, sono contento di non essermi sbagliato».
L’UDIENZA
In mattinata, durante l’udienza pubblica ad illustrare la vicenda sono stati i giudici relatori, Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo.
Poi la parola è passata agli avvocati delle parti: Dipace, appunto, e i colleghi Antonio Palatiello e Gabriella Palmieri per il Capo dello Stato; Alessandro Pace, Mario Serio e Giovanni Serges per la Procura.
Presente anche il Procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo: «È un momento interessate», ha detto.
Il presupposto da cui sono partiti gli avvocati dello Stato è che sollevare il conflitto sia stata una «strada obbligata», ha detto Dipace.
«La Procura di Palermo ha trattato queste come normali intercettazioni, non ha tenuto presente il fatto che siano intercettazioni illegittime», sulla base dell’art. 90 della Costituzione che riguarda le prerogative e l’irresponsabilità del Presidente e della legge collegata 219/1989.
Così facendo si è «prodotto un vulnus nella riservatezza del Presidente», ha sottolineato Palmieri, perchè ipotizzando un’udienza stralcio di fronte al Gip per chiedere la distruzione delle intercettazioni, come ha sostenuto la Procura di Palermo che ha indicato questa come unica via, ha esposto quelle conversazioni del Capo dello Stato alla valutazione dei pm e ancor più al rischio che una volta messe a disposizioni delle parti per gli eventuali usi processuali, potessero diventare pubbliche.
Tanto più, hanno sottolineato gli avvocati dello Stato, che al momento, «persiste l’omissione della richiesta al gip di distruzione delle intercettazioni». Insomma, quella richiesta non è stata fatta.
L’ARTICOLO 271
Sul fronte opposto, Pace ha fatto un intervento volutamente giocato, in alcuni passaggi, sul filo del paradosso o comunque teso a dimostrare che «paradossali» erano alcune tesi dell’avvocatura.
Per esempio che «un fatto fortuito», come le conversazioni captate casualmente, «non può essere oggetto di divieto. È mai possibile vietare di scivolare accidentalmente su una strada ghiacciata?», è la domanda retorica rivolta da Pace alla Corte nella sua arringa.
Nella parte finale del suo intervento Pace ha anche sviluppato un’altro aspetto: cosa dovrebbero fare i pm se intercettassero una conversazione del presidente della Repubblica che complotta per un colpo di Stato? distruggere i file? E se questo «surplus di garanzie» che l’Avvocatura prospetta per il Colle valesse anche per ministri e premier, i magistrati non potrebbero più intercettare nessun sospettato che avesse contatti con loro?
Una via «lineare» di soluzione, suggerisce Pace, «potrebbe essere la richiesta dell’apposizione del segreto di stato da parte del Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio» sul contenuto delle telefonate intercettate.
Ma la Consulta ha indicato una strada ben diversa: quella prevista dall’art. 271 del codice di procedura penale sulle intercettazioni vietate.
Quell’articolo afferma che il giudice può in ogni grado del processo disporre la distruzione delle registrazioni che coinvolgano soggetti non intercettabili in funzione del loro ruolo: il difensore, il confessore, il medico.
A maggior ragione deve valere per il Presidente, ha sostenuto l’Avvocatura e ha confermato la Consulta.
Perchè quella strada prevede che «il giudice decida senza contraddittorio», hanno spiegato gli avvocati dello Stato e senza rischio che i contenuti delle conversazioni siano divulgati.
LE NUOVE CARTE
Intanto cinque faldoni di nuovi documenti sono stati depositati agli atti dell’udienza preliminare del procedimento sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo.
Lo ha annunciato il pm Nino Di Matteo, oggi, in udienza. T
ra le carte finite al gup anche alcune intercettazioni fatte ad aprile del 1993 dai carabinieri del Ros che proverebbero che i militari erano sulle tracce del boss Nitto Santapaola, all’epoca latitante.
Gli inquirenti avrebbero captato conversazioni tra due mafiosi che parlavano di un incontro recente col capomafia catanese ricercato e in un caso avrebbero ascoltato anche la voce dello stesso padrino che, però, sarebbe stato arrestato solo un mese dopo, il 18 maggio, dalla polizia.
Santapaola si sarebbe nascosto a Barcellona Pozzo di Gotto e nella stessa zona, ad aprile, si sarebbero trovati l’ex ufficiale Giuseppe De Donno, tra gli imputati del procedimento sulla trattativa, e l’allora capitano Sergio de Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina.
Dopo la mancata cattura di Provenzano nel 1995, contestata all’ex generale del Ros Mario Mori, «concessione», secondo i pm, fatta al boss proprio in nome della trattativa in corso, anche il mancato arresto di Santapaola entra nell’inchiesta che vede coinvolti 12 tra capimafia, ex ufficiali del Ros, ex ministri e politici.
Tra i documenti depositati anche gli interrogatorio di un ex pm di Barcellona Pozzo di Gotto, Olindo Canali, i riscontri alle dichiarazioni del capomafia Rosario Cattafi che parla di un tentativo dell’ex numero due del Dap Francesco Di Maggio di contattare Santapaola per fare cessare le stragi mafiose e riscontri alle dichiarazioni del pentito Gaetano Grado
Alessandro Barbera e Francesco Grignetti
(da “La Stampa“)
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