SUDAN, IL CARDIOLOGO DI EMERGENCY: “RESTIAMO QUA, NON POSSIAMO ABBANDONARE I NOSTRI PAZIENTI”
“SE CE NE ANDASSIMO, QUESTI PAZIENTI MORIREBBERO”
Le Forze armate sudanesi (Fas) hanno annunciato quest’oggi di aver accettato la proposta di un’organizzazione regionale africana di prolungare “per altre 72 ore l’attuale tregua” iniziata martedì e che, violata più volte, scade alla mezzanotte di domani. L’esercito ha inoltre reso noto di aver accettato di inviare un proprio rappresentante a Juba (capitale del Sudan del Sud) per negoziare con un omologo dei paramilitari delle Rsf “i dettagli dell’iniziativa”, che sarebbe il quinto cessate il fuoco dall’inizio degli scontri, lo scorso 15 aprile.
In realtà la tregua, indetta per consentire agli stranieri di abbandonare il Paese, non è mai stata rispettata e i combattimenti sono proseguiti senza soluzione di continuità, seppur a macchia di leopardo. I morti sono ormai centinaia, i feriti migliaia e la situazione sembra essere destinata a peggiorare: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, a causa del conflitto è stato chiuso oltre il 60 per cento delle strutture sanitarie nella capitale, Khartoum, e soltanto il 16 per cento degli ospedali è operativo ai livelli normali. Tra le Ong che non hanno lasciato il Paese e, tra mille difficoltà, continuano la loro attività c’è Emergency, che in Sudan gestisce il Centro Salam di cardiochirurgia a Khartoum e i centri pediatrici di Mayo (Khartoum), Nyala (Sud Darfur) e Port Sudan. Fanpage.it ha raggiunto al telefono a Khartoum Franco Masini, il medico a capo della missione di Emergency che ha tenuto aperto nella capitale sudanese il Salam Center, l’unico ospedale di tutta l’Africa ad offrire assistenza cardiochirurgica gratuita di alto livello.
Quanti sono gli operatori italiani di Emergency rimasti in Sudan e come stanno?
Emergency gestisce quattro strutture sanitarie: il Centro Salam di Khartoum, una cardiochirurgia d’eccellenza che cura pazienti dal Sudan e da altri trenta Paesi africani, e i centri pediatrici di Mayo (Khartoum), Nyala (Sud Darfur) e Port Sudan. In totale gli italiani della nostra Ong attualmente presenti nel Paese sono dieci. Negli ultimi giorni abbiamo avuto due evacuazioni: la scorsa settimana se ne sono andate sette persone, due giorni fa invece hanno lasciato il Sudan altri colleghi di Emergency. Ora al Salam siamo rimasti in sette internazionali (tutti italiani), più il personale sanitario nazionale che con molte difficoltà continua a svolgere il suo lavoro.
E negli altri tre ospedali?
Il centro pediatrico di Mayo sorge in un campo profughi vicino a Khartoum in cui vivono un milione di sfollati nel degrado più totale: lì abbiamo dovuto interrompere le nostre attività da subito per motivi di sicurezza. A Port Sudan la situazione è più tranquilla e si continua a lavorare regolarmente. A Nyala, nel Sud Darfur, il quadro inizialmente è stato molto difficile e gli scontri sono arrivati fin davanti all’ingresso del nostro ospedale pediatrico, tuttavia negli ultimi giorni le acque si sono calmate. Sicuramente Emergency gode di una grande reputazione: tutti sanno che siamo un’organizzazione che cura tutti, indipendentemente dalle appartenenze religiose, politiche ed etniche. Anche per questo il nostro ospedale è sempre stato risparmiato dai combattimenti, ma non nascondo che abbiamo temuto il peggio. A Nyala, ad oggi, ci sono sei internazionali, due dei quali italiani.
In questo quadro le attività dei vostri ospedali proseguono regolarmente?
No, impossibile. Fino a martedì scorso al Salam Center abbiamo continuato ad effettuare interventi cardiochirurgici perché avevamo delle emergenze che non potevano attendere; successivamente abbiamo dovuto interrompere le operazioni perché, pur avendo sacche di sangue a sufficienza, non disponiamo di piastrine ed altri emoderivati, elementi indispensabili che faticano ad arrivare a causa dei combattimenti. Inoltre sarebbe impensabile avere troppi pazienti in terapia intensiva attaccati a dei ventilatori polmonari e non poterli staccare in caso di pericolo, nel malaugurato caso avvenga qualcosa anche nel nostro ospedale. Tutti i pazienti che potevano essere dimessi in condizioni di sicurezza sono stati mandati a casa. La scorsa settimana erano 81, adesso invece sono 30, si trovano nella guest house e provengono da Etiopia, Somalia, Ciad, Burundi, Uganda e Gibuti. Si tratta di persone che non possono essere dimesse perché non possono tornare nei loro Paesi d’origine. A questi si devono aggiungere cinque pazienti ricoverati in terapia intensiva.
L’attività ambulatoriale è stata sospesa?
No. Le nostre sono prevalentemente operazioni di sostituzione delle valvole cardiache: dopo l’intervento chirurgico i pazienti necessitano di una terapia anticoagulante, di conseguenza c’è uno staff di medici e infermieri che deve continuare a lavorare ogni giorno per garantire loro tutte le cure necessarie. In tempi normali si eseguono 400 controlli al giorno, ora sono circa la metà. Non possiamo interrompere l’attività ambulatoriale.
Quindi dovete fare di tutto per tenere aperto l’ospedale altrimenti molti pazienti rischierebbero di morire.
Esatto. È indispensabile riuscire a tenere aperti i nostri ospedali e per fortuna le misure di sicurezza di Emergency sono eccellenti e collaudate in altri teatri di guerra, come Afghanistan e Iraq. È chiaro che in guerra tutto è possibile, ma Emergency fa di tutto per minimizzare i rischi.
Avete avuto contatti con le istituzioni sudanesi – e in generale con le parti belligeranti – per preservare la sicurezza dei vostri ospedali
No, in questo contesto è impossibile avere contatti ufficiali con nessuna delle due parti in conflitto. Prima della guerra avevamo relazioni frequenti e molto buone con le istituzioni, ma ora sono molto complicate. Abbiamo un ottimo responsabile della sicurezza ed altre persone che ci forniscono informazioni sui combattimenti e – per quanto possibile – previsioni sui possibili scenari futuri.
A proposito di scenari: cosa vi aspettate possa accadere nei prossimi giorni?
Impossibile dire con certezza quale sarà l’esito di questi scontri, ma siamo certi che comunque vada le prospettive per il Sudan siano pessime: già prima della guerra il Paese viveva una crisi economica disastrosa dovuta anche a un’altissima instabilità politica. Ricordo che l’ultimo colpo di stato risale a meno di due anni fa, nell’ottobre del 2021. Per la popolazione civile il futuro, comunque vada, sarà difficilissimo sia dal punto di vista economico che sanitario.
Lei rimarrà al suo posto?
Sì, resterò qui, salvo disastri. C’è molto lavoro da fare e non possiamo abbandonare i nostri pazienti.
(da Fanpage)
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