TOGLIATTI, TROIKA, RESPONSABILITA’: ECCO GLI ALIBI DELLA MINORANZA PD PER GIUSTIFICARE LA RESA A RENZI
DOVE LA BATTAGLIA SUCCESSIVA E’ SEMPRE QUELLA DETERMINANTE
Alfredo D’Attorre, uno dei duri che in direzione ha votato convintamente contro la proposta di Renzi, scomoda i classici: “Ho appena comprato una ristampa dei discorsi di Togliatti, un volume su “la guerra di posizione in Italia”. Ecco…”.
Ecco, cosa c’entra Togliatti col fatto che voterete la fiducia?
“Non sì può mica aprire una crisi di governo mandando per aria il paese. Quella di Civati è una guerra di movimento, che non porta da nessuna parte. Noi, invece, abbiamo ottenuto che il jobs act migliorasse. Ora passa al Senato, alla Camera chiederemo altri miglioramenti perchè le condizioni ci sono visto che Ncd non è determinante e che Sacconi qui non è presidente di Commissione. La guerra di posizione, appunto…”.
Pochi metri più in là c’è Pippo Civati, il movimentista. Entra e esce dal cortile, fuma come un turco, tra una telefonata e l’altra si ferma: “La verità è che Renzi rimarrà qua per i prossimi vent’anni grazie al contributo di quelli che lo odiano. Ora votano tutto. Potevano almeno dire: non votiamo la fiducia per costringere Renzi a un confronto sul testo. O no?”.
Transatlantico, è il giorno della grande resa della minoranza Pd sul jobs act. La resa, atto secondo. La minoranza Pd una settimana fa uscì in frantumi dalla direzione del Pd.
Ora in Parlamento si piega al decisionismo renziano.
I “civatiani” usciranno dall’Aula, non partecipando al voto. Forse. Sono cinque, sei. Alcuni già travagliati: “Aspetto il testo – dice Lucrezia Ricchiuti, senatrice civatiana – mi auguro di constatare passi in avanti per poter confermare la fiducia al governo”.
Ricapitolando: almeno sulla carta, nessun contrario all’interno del Pd. È mattino presto quando Pier Luigi Bersani, il grande accusatore del premier sul metodo Boffo, consegna ai suoi le nuove regole di ingaggio in vista del voto di domani al Senato: “La fiducia è una forzatura ma, mi raccomando, lealtà al governo. Con questa riforma si perde un’occasione, ma ci vuole responsabilità ”.
Già , “responsabilità ”. Perchè votare contro, spiega l’ex segretario del Pd, significherebbe aprire una crisi al buio, dagli esiti imprevedibili, si rischia l’esercizio provvisorio, insomma c’è il famoso bene del paese.
I ragionamenti politicisti vanno oltre il contenuto del jobs act.
Perchè il famoso “testo” della riforma che uscirà dalla penna del ministro Poletti e dei tecnici di palazzo Chigi, a metà pomeriggio, ancora non c’è.
Quindi ancora non si sa quali punti cari agli ex comunisti sono stati accolti nell’emendamento con cui il governo modificherà la delega base.
Il testo è il fantasma che si aggira per il Transatlantico. Mentre il voto di fiducia al governo è reale: “La fiducia — dice il barricadiero Stefano Fassina — non è mai stata in discussione. Ora aspettiamo il testo e vediamo”.
Già , il testo. Dalla crisi al buio alla fiducia al buio. Gianni Cuperlo appare tranquillo: “La fiducia non è in discussione. Ma non si profila mica una delega in bianco. Alla Camera ci sarà una discussione per migliorare il testo”.
È la guerra di posizione. O semplicemente una resa. In fondo, Matteo Orfini, cresciuto alla scuola tattica di D’Alema, l’ha letti subito i rapporti di forza.
Scusi Orfini, c’è una resa totale di Bersani&Co? “Francamente, non l’ho capito sin dall’inizio. Quando metti troppo in alto l’asticella…”.
I maligni sussurrano che le battaglie della vecchia guardia assomigliano alla “rivoluzione” della canzone di Giorgio Gaber: oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente.
Oggi c’è la fiducia, domani – in questo caso — ci sarà la legge di stabilità . Dove non c’è un euro per la crescita.
E, di fatto, nemmeno per gli ammortizzatori sociali: “E’ lì — spiega un bersaniano di rango — che si vedrà il bluff di Renzi. Perchè sull’articolo 18 alla fine si arriverà a un testo confuso in cui ognuno dirà che ha vinto. Ma la delega è a costo zero, non avrà effetti. A quel punto Renzi è a un bivio: o scrive la legge di stabilità che vuole la Merkel oppure assume la linea della Francia di sforamento e punta al voto”.
Un bivio, l’ennesimo, anche per i fautori della guerra di posizione.
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