TRATTATIVA STATO-MAFIA: LE CINQUE COSE DA SAPERE SUL PROCESSO DI PALERMO E IL RUOLO DI NAPOLITANO
L’IPOTESI INVESTIGATIVA, IL PROCEDIMENTO PENALE, I TESTIMONI CHIAVE, IL CONFLITTO TRA PROCURE, IL COINVOLGIMENTO DI NAPOLITANO: LA TRATTATIVA SPIEGATA IN BREVE
L’IPOTESI INVESTIGATIVA
Secondo l’accusa, all’inizio degli Anni Novanta ci sarebbe stata una trattativa tra Mafia e Stato italiano, per raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, in cambio dell’attenuazione delle misure detentive.
Tutto partirebbe all’indomani della sentenza del Maxi-processo del gennaio 1992, quando Cosa Nostra decide di eliminare gli amici traditori e i grandi nemici.
Nel giro di pochi mesi cadono Salvo Lima, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ignazio Salvo.
Ma per i magistrati, oltre alla vendetta, nelle intenzioni di Cosa Nostra ci sarebbe anche quella di ricattare lo Stato: una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni.
Calogero Mannino, uno dei politici finiti nel mirino dei mafiosi, si rivolge al generale Subranni (comandante dei Ros) per essere protetto.
E qui partirebbe per iniziativa dei Carabinieri una lunga negoziazione.
Borsellino sarebbe stato ammazzato anche per la sua volontà di ostacolare questi contatti.
A detta dell’accusa, la trattativa prosegue anche oltre l’arresto di Totò Riina nel ’93, e vive uno dei suoi momenti più drammatici col fallito attentato dello stadio Olimpico nel novembre dello stesso anno (per cui verranno arrestati i fratelli Graviano).
In quel periodo, la mancata proroga di circa 300 regimi di 41 bis a detenuti mafiosi (ma non a personaggi di spicco) rappresenterebbe una prova del cedimento da parte dello Stato. Stesso discorso per la fuga di Provenzano nel ’95.
IL PROCESSO
Sono dieci gli imputati davanti alla corte d’Assise di Palermo.
Quattro capi mafia: Totò Riina, Bernardo Provenzano (stralciato per motivi di salute), Antonino Cinà e Leoluca Bagarella. Un pentito, Giovanni Brusca. Tre carabinieri: il generale Antonio Subranni, il capitano Giuseppe De Donno, il colonnello Mario Mori. E due politici, Calogero Mannino (processato a parte col rito abbreviato) e Marcello Dell’Utri.
Su di loro pendono vari capi d’accusa, tra cui quello di attentato con violenza o minaccia al corpo dello Stato.
A questi si aggiungono Massimo Ciancimino, uno dei teste principali dell’accusa che risponde anche di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia, e Nicola Mancino, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti e accusato di falsa testimonianza.
Il processo si trova attualmente alla fase dibattimentale, e per arrivare a sentenza ci vorranno non meno di due anni.
Si parla di una trattativa fino alle porte degli Anni Duemila, ma il periodo circoscritto nel procedimento è quello tra il 1992 e il 1993.
I TESTIMONI CHIAVE
L’impianto accusatorio si basa per gran parte sulle testimonianze di Massimo Ciancimino (figlio di Vito) e Giovanni Brusca.
Ciancimino ricostruisce tutti gli incontri fra i carabinieri e il padre: secondo i militari solo per ottenere collaborazione nella cattura dei latitanti, secondo l’accusa per mettere in piedi una trattativa a 360 gradi.
Brusca invece è il primo a parlare del cosiddetto «Papello», la lista di richieste di Totò Riina allo Stato; ed è sempre Brusca ad avere indicato il ministro Mancino come terminale ultimo degli accordi.
I limiti di queste testimonianze sono nel fatto che Ciancimino, nell’ambito dello stesso processo, risponde dell’imputazione di calunnia per aver falsificato un documento sull’ex capo della polizia Gianni De Gennaro.
Mentre i ricordi di Brusca sono «progressivi»: la sua storia si è evoluta nel corso degli anni e degli interrogatori.
IL CONFLITTO FRA LE PROCURE
Il processo sulla «Trattativa» è di competenza di Palermo, mentre Caltanissetta indaga sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Fra le due procure, però, non corre buon sangue e non c’è una linea comune. Proprio da Caltanissetta arrivano alcune delle obiezioni principali all’impianto accusatorio: secondo questa Procura, infatti, i politici non sarebbero stati coinvolti nei contatti, iniziativa personale dei Carabinieri.
E Massimo Ciancimino, teste chiave per i magistrati palermitani, sarebbe invece del tutto inattendibile. Su questo conflitto cercherà di fare leva Nicola Mancino per evitare di essere coinvolto nel procedimento.
IL RUOLO DI NAPOLITANO
Nicola Mancino era all’epoca dei fatti ministro dell’Interno. Preoccupato di essere tirato in ballo nel processo, l’ex Guardasigilli fra il novembre del 2011 e il dicembre del 2012 tempesta di telefonate Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano, per cercare di far attivare il coordinamento dell’antimafia nazionale (diretta da Pietro Grasso, oggi presidente del Senato) sulle due procure siciliane. Nell’ambito di questi contatti ci sono anche delle telefonate dirette fra Mancino e il presidente della Repubblica.
La procura chiede di depositare agli atti le intercettazioni, ma trova l’opposizione del Quirinale, che chiede (e ottiene dalla Consulta) il conflitto istituzionale.
I magistrati palermitani tornano però alla carica perchè in una lettera D’Ambrosio (intanto deceduto nel 2012) scrive di aver paura di essere stato «scriba di accordi indicibili».
La Procura vuole sapere se Napolitano ha avuto modo in quei contatti di apprendere qualcosa sulla trattativa.
E nonostante abbia più volte affermato di non essere a conoscenza di nulla, il presidente della Repubblica adesso dovrà testimoniare.
Salvo ulteriori colpi di scena giuridici.
Riccardo Arena
(da “La Stampa“)
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