UN MIGRANTE A CASA PER UNA NOTTE: COSI’ BRUXELLES RISCRIVE L’ACCOGLIENZA
OGNI SERA OSPITATI 300 STRANIERI: “LA PAURA E’ RECIPROCA, POI PASSA”
«Qui c’è un materasso da due e là c’è il divano letto. Potete scegliere dove mettervi». Stephanie Marques dos Santos vive poco fuori Bruxelles e per una notte ospita due ragazzi della Guinea.
Trentanove anni, un figlio di dieci e un marito italiano, diverse volte alla settimana ospita qualcuno.
Migranti, perlopiù arrivati in Belgio attraverso la rotta della Libia e dell’Italia, in buona parte intenzionati a proseguire per il Regno Unito attraverso Calais.
Il punto di raccolta è al Parc Maximilien, un fazzoletto di verde a due passi dalla Gare du Nord. Qui tutte le sere si concentrano circa 300 migranti.
«Non ho mai avuto problemi. Paura sì. La prima notte non ho dormito, ero da sola con mio figlio», racconta.
«Poi però – spiega – pensi che loro rischiano molto di più. Vanno a casa di sconosciuti e ufficialmente non esistono. Possono sparire e nessuno lo sa, nessuno si preoccupa. Il loro rischio è molto più alto del nostro. Se uno pensa a questo la vede già in modo diverso».
«Anche noi abbiamo un po’ paura di andare a casa di qualcuno che non conosciamo», conferma Soumah, uno dei suoi ospiti: «La paura è reciproca, noi abbiamo paura di loro e loro di noi».
Tutto avviene attraverso la pagina Facebook Hèbergement Plateforme Citoyenne («Alloggio piattaforma cittadina»), che in tre mesi è esplosa e conta ormai oltre 29 mila iscritti.
Tutte famiglie che hanno deciso di contribuire. Una decina di volontari si alterna al parco la sera e incrocia le disponibilità con le richieste.
Oggi ha piovuto e il terreno si è trasformato in fango. Di mano in mano, tra i volontari, gira un termos di caffè. Calzettoni e scarponcini, passano da un capannello all’altro. «Si, lo so che state aspettando. Stanno arrivando altre famiglie», dice Thomas Tibbaut, rispondendo a un gruppo di sudanesi infreddoliti.
Ventinove anni, capelli corti e passo svelto, cerca di rassicurarli. «Aspettiamo da ore», protestano. «Un po’ di pazienza», ribatte. Accanto a lui un’altra giovane. «Il mio nome è Virginie Den Blauwen ma ci sono troppe Virginie qui, mi chiamano tutti Vi Niette», sorride. «Abbiamo due liste – spiega -. Qui ci sono quelli che hanno dato la propria disponibilità a ospitare i rifugiati, in quest’altra quelli che hanno l’auto e possono accompagnarli».
Le famiglie
«Abbiamo una casa grande, i nostri quattro figli sono grandi e hanno lasciato il nido», racconta Valeria Segantini, italiana da anni residente a Bruxelles. Mostra un paio di letti a castello. «Ne senti parlare in televisione, ma quando ti entrano in casa fanno un’altra impressione. Prima di tutto per l’età . Spesso sono giovanissimi. Ne abbiamo avuti anche di 15 anni. Quando ti dicono “siamo via da un anno” pensi a quanti pericoli hanno superato. Il loro percorso ti lascia senza parole».
La maggior parte delle famiglie che ospita ha figli piccoli. «Abbiamo discusso tanto – racconta Stephanie -. Per me la dimensione educativa era importante. Mio figlio ha l’età per essere consapevole delle difficoltà . Questa iniziativa ti dà un potere piccolo, ma combinato a quello di altre migliaia di persone è importante. E’ un bel messaggio da far passare ai bambini».
«Gli amici mi dicono che sono matta», racconta Joanne Detourbe, 37 anni. «”E se succede qualcosa?”, mi dicono. Ma io ho fiducia». D’altra parte, qualche precauzione si prende. «Io ogni sera sono al parco e quando ci sono persone che bevono alcolici ci parlo».
Capelli corti, l’aria sicura, Diallo Bobo viene dalla Guinea Bissau. E’ l’unico del giro che ha già ottenuto l’asilo. Vive stabilmente ormai dai Segantini ma continua a dare una mano al gruppo. «Sono che io confermo se uno può andare con una famiglia», spiega.
«Qui la gente è ammirevole», commenta Kitos. E’ scappato dal regime in Eritrea, dove ha lasciato due bambine di 3 e 5 anni. «Soprattutto i primi – sottolinea – che hanno avuto il coraggio di portare a casa degli sconosciuti. Questo viene dal cuore».
Com’è iniziata
Com’è iniziato tutto questo? «La prima volta lo abbiamo fatto due anni fa, quando c’era la crisi dell’Afghanistan», racconta Adriana Costa Santos. Ventitre anni, è l’anima del gruppo di volontari, perlopiù studenti.
«All’epoca ospitavamo delle persone, ma era una iniziativa molto più piccola. Quest’anno, a fine agosto, abbiamo ricominciato. Volevamo trovare un posto per tutte le donne che erano al parco. Una notte ci siamo resi conto che le donne erano sistemate e c’erano ancora delle famiglie che non avevano preso nessuno.
Così abbiamo deciso di provare a trovare un posto a tutti. La prima sera abbiamo ospitato 8 persone. Una settimana dopo 87. Ora tutti i giorni il parco la sera è vuoto».
«Uno dei primi weekend – racconta Mehdi Kassou, giovane belga di origine marocchina, altra figura chiave dell’iniziativa – la polizia ha circondato l’area e ha controllato tutti». Ma non ci sono state conseguenze perchè «la legge prevede l’ospitalità per motivi umanitari. Possiamo accompagnarli in auto e portarli in casa, senza correre rischi legali».
Sarebbe legale anche in Italia? «Sì», risponde l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «Se uno agisce a fini umanitari non è perseguibile, non commette reati».
I coordinamenti di quartiere
In questi mesi a Bruxelles sono sorti diversi coordinamenti di quartiere. «A volte ci sono persone che arrivano senza neanche le scarpe – racconta Stephanie – e ti serve recuperare delle calzature taglia 43 in serata. Lanci un appello e qualcuno te le porta. In questo modo si ricostruiscono anche delle relazioni di quartiere».
«Anni sprecati»
Ogni tanto arriva la notizia che qualcuno ce l’ha fatta, ha superato la frontiera raggiungendo il Regno unito, e le famiglie festeggiano.
«Ho speso 2.200 euro dollari per raggiungere l’Europa», racconta Mohammed, eritreo, 23 anni. Ha passato tre mesi nelle mani dei trafficanti libici. Da quasi due anni è in clandestinità e cerca di raggiungere il Regno unito.
Obiettivo: «Voglio finire la scuola di informatica, l’avevo iniziata in Arabia Saudita», per poi fare il programmatore. Kitos, per arrivare qui, di dollari ne ha spesi oltre 5000, passando dalla Turchia, e anche lui non può fare altro che nascondersi. Ma vorrebbe lavorare in un ristorante.
Se avessero avuto un permesso, sottolineano, non avrebbero sprecato questi anni. Li avrebbero messi a frutto e ora potrebbero mantenersi invece di doversi affidare all’aiuto di persone generose.
In estate, centinaia di persone dormivano nel parco, la questione dominava le pagine dei giornali. Theo Francken, ministro belga dell’immigrazione, a settembre aveva deciso un giro di vite dicendo che non voleva vedere un’altra Calais a Bruxelles. «In realtà stiamo stati noi a evitare che ci fosse un’altra Calais a Bruxelles, ospitando queste persone», sottolinea Mehdi.
La nuova struttura
Ora la Plateforme Citoyenne vuole andare oltre. Ha ottenuto dalla città una struttura che può ospitare fino a un centinaio di migranti.
«Ma – racconta Mehdi – la struttura era vuota. Abbiamo dovuto trovare tutto, mancavano persino le docce. Abbiamo lanciato un appello attraverso il gruppo Facebook a contribuire per pagarne l’installazione. L’obiettivo era raccogliere 9.500 euro. Meno di cinque ore dopo, li avevamo già raggiunti. Ho scritto subito di smettere di inviare denaro, ma hanno continuato a farlo e abbiamo superato i 23 mila».
Nella gestione è impegnata una cinquantina di volontari, che si occupano di tutto: cucina, pulizia, ingressi e uscite. Il centro ha aperto a inizio dicembre. Si chiama «la Porta di Ulisse».
(da “La Stampa”)
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