UN MINISTRO È PER SEMPRE: NEL “PARTITO DEGLI ONESTI” NON SI DIMETTE NESSUNO
NON SI MUOVE IL MINISTRO ROMANO, IMPUTATO PER MAFIA, RESTA IL GENERALE ADINOLFI, NON SI MUOVONO MILANESE E TREMONTI, STESSA COSA PER CESARO
Tremonti e Draghi, anzi, Draghi contro Tremonti. Per l’ultima volta.
La scena è l’assemblea annuale dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, ma di banche si parla poco, perchè ogni discorso è rimandato a venerdì sera, quando si conosceranno i risultati degli stress test europei che diranno quanto sono sani gli istituti italiani.
Il tema è la manovra e soprattutto l’apocalisse sfiorata in Borsa lunedì e martedì, quando gli spread sul debito pubblico, cioè i differenziali di costo tra Italia e Germania, erano schizzati alla paurosa soglia del 3,47 per cento.
Poi è arrivata la Banca centrale europea a comprare debito italiano, fermando il panico, ma iscrivendo l’Italia di fatto alla stessa categoria dei Paesi decotti cui appartengono Portogallo, Irlanda e Grecia.
All’Abi parla per primo il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, le cui parole ora pesano doppio, visto che da novembre sarà presidente della Bce.
Draghi dice che “occorre definire in tempi rapidissimi il contenuto delle misure volte a conseguire il pareggio di bilancio nel 2014”.
E avverte che se non si tagliano davvero le spese, i 15 miliardi previsti dalla legge delega per la riforma fiscale diventeranno 15 miliardi di nuove tasse.
E l’ultima versione della manovra, quella che sta nascendo con gli emendamenti della maggioranza, non lascia dubbi: più tasse per tutti (perchè tagliare le agevolazioni fiscali questo significa, aumento delle tasse).
Da lì arriverà la quasi totalità della correzione di bilancio tra 2013 e 2014.
Non ha molto altro da aggiungere, tutto quello che aveva da dire all’Italia l’ha messo nelle Considerazioni finali del 31 maggio, ricette di sviluppo ribadite dal vicedirettore Ignazio Visco davanti al Senato in audizione sulla manovra: tagli di spesa mirati e non con l’accetta, interventi sul mercato del lavoro per ridurre il precariato, veri piani di infrastrutture, risparmi di spesa strutturali e non misure una tantum.
Ma Tremonti, ormai è chiaro, ha fatto quel che poteva (o che voleva) e più in là di così non si spingerà .
Il mondo crolla attorno all’Italia ma Tremonti, serafico, spiega che l’impennata degli spread sul debito pubblico italiano non è un problema “del singolo Stato, ma della struttura complessiva”.
Opinione singolare per un ministro dell’Economia che si trova a pagare gli interessi aggiuntivi sul debito dovuti proprio agli spread: ogni 100 punti base di rendimento richiesto dai mercati, calcola la Banca d’Italia, la spesa per interessi aumenta di 0,2 punti di Pil il primo anno (3 miliardi) e poi di 0,4 e 0,5 nei successivi due anni (altri 14).
Non proprio uno scherzo.
Ma Tremonti parla come se la crisi esterna non lo scalfisse: concede a Draghi e ai mercati che “la manovra sarà rafforzata”, ma poi ammette che le privatizzazioni ventilate dalla maggioranza per ridurre il debito si faranno a crisi finita, cioè mai, e che la panacea dei drammi debitori è l’emissione degli Eurobond, un debito pubblico europeo sostenuto da molti ma osteggiato con forza dalla Germania, quindi impraticabile.
Tutti scrutano Tremonti per cogliere da un sospiro, da un’incertezza, da una smorfia, la risposta alla voce che ieri circolava con più insistenza: Tremonti approva la manovra e poi si dimette, non per ragioni contabili ma per lo scandalo che ha travolto il suo braccio destro Marco Milanese.
“Tremonti verso l’addio, ma a mercati chiusi”, scrive per esempio l’agenzia specializzata in finanza Mf-Dow Jones, vedendo una promessa di addio tra righe della ritrosia tremontiana a fare dichiarazioni sensibili all’assemblea dell’Abi.
La tempistica dell’addio sembrerebbe lineare: venerdì il decreto della manovra, opportunamente emendato, viene licenziato dal Parlamento e nel weekend il ministro lascia, dando ai mercati il tempo di digerire la notizia prima dell’apertura di lunedì, oppure misura l’effetto della manovra in Borsa a inizio settimana e lascia lunedì sera. Tutto chiaro?
Non proprio, visto che è Tremonti stesso a smentire, almeno in parte: “La manovra sarà accompagnata da chi si prende la responsabilità di averla presentata”.
E cita Tito Livio: “Hic manebimus optime”, qui stiamo benissimo.
Tremonti resta, l’ipotesi di un governo tecnico per ora non è destinata a concretizzarsi e il presidente dell’Università Bocconi Mario Monti torna una riserva della Repubblica anzichè un imminente presidente del Consiglio o ministro dell’Economia (ipotesi questa poco allettante per tutti).
Avanti come prima, dunque: la ricetta Draghi viene rimandata ancora, Tremonti insiste con la via incrementale lasciando ai governi di domani le soluzioni davvero radicali.
Ammorbidisce i punti che avevano sollevato più proteste (tassa sui conti titoli, blocco della rivalutazione delle pensioni medie) e si rimangia le promesse di mezzo governo nella scorsa settimana anticipando il (lento) aumento dell’età pensionabile, tagliando pesantemente i trasferimenti alle Regioni, ripristinando i ticket e rendendo permanenti l’aumento delle accise sulla benzina.
Della presa di coscienza della gravità del momento, cui invita Draghi, c’è solo una flebile traccia: invece di rimandare tutto il risanamento alla prossima legislatura, si anticipa, ma aumentando le tasse in modo mascherato.
Si attendono le tabelle per capire bene quanto c’è di sostanzioso.
Più di così Tremonti non sa fare.
C’è da sperare che basti perchè i mercati sono in un equilibrio fragilissimo.
Se la Bce smette di sostenerci, se il testo finale deluderà le aspettative, se le banche andranno peggio del previsto agli stress test, si ricomincerà da capo.
E anche Tremonti tornerà a ballare.
Stefano Feltri
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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