Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
SOLO 3,9 MILIONI DI LAVORATORI L’HANNO RICEVUTA, 5 MILIONI LA ATTENDONO ANCORA… GOVERNO, INPS E BANCHE NON HANNO COLPE IN QUESTO CASO
Era il 26 marzo e Giuseppe Conte faceva capolino su Facebook così: “Ho chiesto di mettere in campo uno sforzo straordinario affinchè i pagamenti siano attivati entro il 15 aprile e, se possibile, anche prima”. La traduzione della promessa: i soldi della cassa integrazione di marzo al massimo entro metà aprile.
Al 20 aprile, i lavoratori che hanno ricevuto quei soldi sono appena 3,9 milioni. Altri 2,2 milioni la aspettano ancora. Ma soprattutto ci sono 3 milioni che non solo non hanno ricevuti i soldi, ma sono addirittura invisibili alla macchina dell’erogazione.
Questi numeri dicono di una grande falla, di un ritardo spropositato tra la catena di comando e le esigenze del Paese reale. Perchè con il Paese chiuso da più di un mese, la cassa integrazione è il solo sostegno su cui possono contare milioni di italiani.
La grande colpa delle Regioni
Partiamo dagli invisibili, quelli che la relazione tecnica del decreto Cura Italia stima in tre milioni. Sono i beneficiari della cassa integrazione in deroga, una delle tre forme (ci sono anche la cassa integrazione ordinaria e l’assegno ordinario) previste per aiutare chi è fermo e senza reddito.
Spetta alle Regioni comunicare all’Inps le liste dei beneficiari. Altro che soldi sui conto correnti dei lavoratori. Siamo ancora fermi a questo primo step.
Tre Regioni addirittura non sono pervenute. Alcune, come la Lombardia, ne ha presentate appena 37. I lavoratori che hanno ricevuto la cassa integrazione in deroga, che tra l’altro non può superare i 1.130 euro, sono 2.115.
I potenziali beneficiari, è bene ricordarlo, sono tre milioni. In questa tabella dell’Inps, che raccoglie i dati che arrivano dalle Regioni, si evince chiaramente che la grande colpa è loro. A Regioni virtuose come il Lazio, che ha presentato più di 25mila domande, si contrappongono Regioni come l’Abruzzo (3) e il Molise (20). Ma sono i dati delle Regioni con il più alto tasso lavorativo in Italia, come la Lombardia e il Veneto, a mettere in evidenza ancora di più come la macchina è inceppata.
Cassa integrazione in deroga
L’impatto che questa tabella ha sui lavoratori è che ad oggi è impossibile stabilire quando arriveranno i soldi della cassa integrazione di marzo perchè ancora le Regioni non hanno comunicato neppure le loro identità . Invisibili, appunto.
Quello che hanno fatto l’Inps e alcune aziende fino ad oggi
Qualcuno i soldi li ha ricevuti. All’Inps sono arrivate più di 280mila domande di cassa integrazione ordinaria per quasi 4 milioni di lavoratori. L’Istituto di previdenza e qualche migliaio di aziende virtuose (hanno messo un anticipo, l’Inps ha poi conguagliato) sono riusciti a pagare più di 100mila domande, quindi 3/4 delle richieste. I lavoratori che hanno già ricevuti i soldi sono 2,8 milioni. Un milione e centomila lavoratori circa la riceveranno entro il 30 aprile, secondo quanto riferito da Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, durante un’audizione che ha tenuto davanti alla commissione Lavoro della Camera.
Cassa integrazione ordinaria
C’è poi l’assegno ordinario, legato ai Fondi di solidarietà . Le domande arrivate all’Inps sono oltre 139mila per 2,2 milioni di lavoratori. La metà di questi lavoratori, quindi circa 1,1 milioni, ha già ricevuto i soldi. Per gli altri vale la stessa considerazione della cassa integrazione ordinaria, cioè li avranno entro il 30 aprile.
E quello che non hanno fatto le altre aziende
Ci sono aziende che non hanno ancora presentato all’Inps il modello SR41, quello che deve riportare il numero dei lavoratori messi effettivamente in cassa integrazione e i rispettivi Iban. Il processo è articolato, ma è utile illustralo perchè spiega bene lo stato attuale della situazione.
Primo passaggio: l’azienda fa domanda all’Inps su un presuntivo di ammontare di ore di cassa integrazione, cioè su quelle che pensa di utilizzare. Ammettiamo, a titolo di esempio, che chiede 100 ore.
Secondo passaggio: l’Inps autorizza. Terzo passaggio: le aziende inviano il modello SR41, come si diceva sopra. Magari hanno impiegato più lavoratori del previsto e quindi le ore di cassa integrazione scendono, ad esempio a 90. Quarto passaggio: Una volta ricevuto il modello, l’Inps paga.
La maggior parte delle richieste è ferma al terzo step: manca cioè il documento che può permettere all’Inps di procedere con i bonifici. Poche sono al quarto passaggio, cioè saldate. Poche sono anche al secondo passaggio, quelle cioè che l’Inps deve autorizzare. Per tutti, l’Inps promette di arrivare al quarto passaggio entro appunto fine aprile.
Le banche procedono a rilento
Alle banche è stata data la possibilità di anticipare il pagamento della cassa integrazione per 1.400 euro, un importo forfettario parametrato a nove settimane di sospensione del lavoro a zero euro. Se la durata dello stop dal lavoro è inferiore, anche l’importo è o sarà ricalcolato in proporzione al tempo trascorso a casa, anzichè in ufficio o in fabbrica. Dovevano essere loro ad accelerare i pagamenti, ma fonti sindacali spiegano che la macchina, partita tra l’altro solo da pochi giorni, procede ancora a rilento. Tra l’altro bisogna ricordare che le banche sono sovraccaricate perchè gestiscono anche la moratoria sui mutui e i prestiti alle imprese, oltre alle mansioni ordinarie.
La promessa tradita
Tirando le somme, i lavoratori che hanno ricevuto la cassa integrazione sono una minoranza. Il termine del 15 aprile è saltato di fatto per tutti. Qualcosa si è mosso sul fronte dell’Inps e delle aziende virtuose, con più della metà delle domande arrivate che sono state saldate.
Ma sono solo 3,9 milioni i lavoratori che hanno ricevuto i soldi. Gli esclusi, tra quelli che hanno fatto domanda e quelli che le Regioni devono portare a galla, sono 5,2 milioni. La metà di questi potranno sperare di ricevere i soldi entro il 30 aprile. Sarà passato un mese e mezzo dall’inizio del lockdown. L’altra metà aspetta ancora di essere presa in considerazione.
I numeri del sostegno
Per capire quanto la cassa integrazione sia importante oggi, nel pieno dell’emergenza, è utile prendere a riferimento l’universo lavorativo italiano. I lavoratori sono circa 23 milioni. Ma la serrata ha imposto il fermo a circa la metà . Le domande misurano bene la temperatura. Gli autonomi che hanno chiesto aiuto sono circa 4,3 milioni. I lavoratori dipendenti che hanno bisogno della cassa integrazione sono 6,1 milioni, ma ce ne sono potenzialmente altri tre milioni. Qualcuno era già coperto dalla cassa, ma pur togliendoli dal conto, ci sono più di 12 milioni di lavoratori che hanno bisogno dei soldi promessi. Il bonus da 600 euro l’hanno ricevuto quasi tutti in questi giorni. La cassa integrazione, invece, no. E maggio è tra dieci giorni.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
750 MILIARDI NON DURANO IN ETERNO
Chissà se anche questa volta, il fronte italiano anti-Mes brandirà l’editoriale di Wolfgang Munchau sul Financial Times come una spada.
Perchè a differenza dell’ultimo intervento, in cui venivano sottolineate le ambiguità relative alla mancanza di condizioni del Fondo salva-Stati, questa volta la firma storica del quotidiano della City mette in guardia l’Europa dal rischio di sottovalutazione proprio dell’utilizzo strumentale che i populisti del Belpaese sarebbero pronti a fare della crisi, nascondendosi dietro al capro espiatorio dell’UE e della crisi da Covid-19.
Per Munchau, il problema dell’Italia, inoltre, non risiede nello spread, bensì nella ratio debito/Pil, destinata a salire a fine anno attorno al 180%, stante il -10% di crescita pronosticato e l’aumento gioco forza della spesa pubblica.
Ma non basta. Perchè l’editorialista tedesco tratteggia anche tre possibili scenari di uscita dall’impasse attuale.
Primo, ricorso al Mes al fine di poter usufrurire del programma Omt (Outright Monetary Transactions) della Bce, quello che garantisce acquisti diretti di debito a breve scadenza. Ipotesi improbabile, stante la mancanza di un supporto parlamentare alla scelta
Secondo, default o ristrutturazione controllata del debito
Terzo, uscita dall’euro, “un evento improbabile ma non impossibile”, visto che la fine del lockdown non coinciderà con quella dell’euroscetticismo in Italia.
Insomma, materiale di una certa pesantezza politica da maneggiare.
Non a caso, la Bce ha mosse ulteriori pedine, al fine di evitare uno scontro frontale in vista del Vertice europeo del 23 aprile, come preannunciato dallo stesso Giuseppe Conte nella sua intervista alla Suddeutsche Zeitung.
Il 19 aprile, infatti, funzionari di primo livello dell’Eurotower hanno incontrato sherpa della Commissione Ue per sottoporre loro l’ipotesi di una bad bank dell’eurozona, in cui far confluire le sofferenze degli istituti bancari dei Paesi periferici.
Nella prima fila dei beneficiari ci sarebbero le banche di Italia, Spagna, Cipro e Grecia, quest’ultima alle prese con il deragliamento (causa crisi da Covid-19) del piano di vendita — entro l’anno in corso — di un ulteriore stock da 32 miliardi di Npl, dopo la riduzione del 40% compiuta negli ultimi quattro anni.
Per la Bce, una scelta obbligata, poichè il rischio di una catena di default corporate legata al lockdown generale potrebbe far risalire il computo di sofferenze e incagli nei bilanci, bloccando del tutto il meccanismo di trasmissione del credito a famiglie e imprese. Proprio nel momento in cui questo appare più necessario.
Gelida la risposta della Commissione Ue, almeno stando alla cronaca del Financial Times: un’opzione simile necessita di un coinvolgimento di obbligazionisti e azionisti degli istituti coinvolti. Insomma, prima il bail-in, poi (forse) la bad bank europea.
Ma al netto di tutte queste criticità , la Bce comincia a fare i conti anche con un altro problema, emerso sottotraccia ma in maniera chiara durante la presentazione dei dati relativi agli acquisti settimanali di titoli conclusisi lo scorso 15 aprile.
Il succo della questione, paradossalmente in grado di mettere in discussione anche l’ottimismo di Wolfgang Munchau rispetto ai rischi legati allo spread italiano, sta tutto in questi grafici, nei quali i tecnici dell’Eurotower hanno riassunto i controvalori di acquisto finora compiuti e tratteggiato tre scenari prospettici di evoluzione dell’attuale piano di intervento da 750 miliardi, il cosiddetto PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme).
Come si può notare, dopo il calo della seconda settimana a 4,1 miliardi di acquisti al giorno, l’ultimo round di stimolo ha segnato il record assoluto, 6,7 miliardi quotidiani per un cumulativo addirittura di 70,7 miliardi nella settimana.
Ma ecco che il secondo grafico pare intento a compiere i proverbiali “conti della serva”, ovvero calcolare quanto temporalmente può durare una simile messe di acquisti con questo ritmo.
Come si nota, la linea rossa di quello che viene definito “ritmo alto” porta come controvalore quotidiano 7 miliardi, quindi praticamente il volume di acquisti dell’ultima settimana.
Continuando così, però, i 750 miliardi stanziati per il PEPP non durerebbero fino a fine anno, bensì fino a metà ottobre. Per garantire una schermatura agli spread più sensibili almeno fino a metà dicembre, il ritmo di acquisti dovrebbe scendere a circa 4 miliardi al giorno o un totale di 83 miliardi al mese. Insomma, meno volume di fuoco per il bazooka. E, quindi, minor intensità di difesa per il firewall della Bce.
E con il nostro spread tornato ancora in area 2% di rendimento sulla scadenza decennale, certi calcoli il governo italiano sarebbe meglio che li facesse bene, perchè una fonte Bce coperta dall’anonimato conferma a mezza bocca che “stante la questione delle sofferenze bancarie e del loro potenziale di criticità a causa del lockdown da pandemia, difficilmente Paesi come Spagna e Grecia accetteranno che la deviazione della capital key negli acquisti pro quota di debito sovrano da parte della Banche centrali nazionali su mandato dell’Eurotower veda ancora per molto l’Italia a circa il 42% del totale, come accade oggi. Soprattutto, se calcoliamo che Roma partiva dal 17%, sua quota statutaria nel precedente ciclo di Qe”
Un eventuale prolungamento temporale del PEPP, aumentandone il controvalore totale dagli attuali 750 miliardi, al fine di non dover abbassare troppo il volume di acquisti? “La Bundesbank non accetterebbe mai”.
E attenzione, perchè il 5 maggio proprio la Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe si esprimerà sulla liceità del quantiative easing, di fatto creando un possibile vincolo di mandato per la Banca centrale di Berlino in seno alle decisioni in merito che il board Bce sarà chiamato a prendere nei prossimi mesi.
I più delicati, poichè quelli formalmente legati alla Fase 2 della ripartenza. Attenzione a non sbagliare i calcoli, insomma, in vista del 23 aprile. Perchè alla Bce hanno già cominciato a farli, con largo anticipo. E a renderli noti, anche se ancora sotto la forma innocua e professionale di grafici per addetti ai lavori.
Paese avvisato…
(da Business Insider)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
“POSSIBILE ELECTION DAY ASSIEME A COMUNALI E REFERENDUM TAGLIO PARLAMENTARI”
I dubbi dell’esecutivo sulla possibilità di far votare alcune regioni a luglio si trasformano in uno stop.
Durante il consiglio dei ministri, infatti, diversi esponenti del governo hanno bocciato il decreto arrivato sul tavolo dalla riunione, che prevedeva lo scenario di un voto a macchia di leopardo.
L’idea originaria era quella di fissare al 2 agosto la proroga dei consigli regionali in scadenza, lasciando ai governatori la possibilità di decidere se indire il voto a luglio o a in autunno, tra settembre e ottobre.
La finestra doveva essere quella delle otto settimane antecedenti il 2 agosto e dei sessanta giorni successivi.
Questa strada, però, ha registrato tra l’altro l’opposizione del ministro della Salute Roberto Speranza.
Davvero pensate una campagna elettorale a luglio?, il senso dei ragionamenti del responsabile della Salute, secondo quanto riferiscono alcune fonti.
E ancora: teniamo chiuse le scuole e facciamo le campagne elettorali?
Di conseguenza, l’esecutivo ha messo nero su bianco un meccanismo diverso: proroga al 31 agosto, possibili elezioni nelle quattro settimane precedenti e nei sessanta giorni successivi.
La finestra, dunque, abbraccia questo arco temporale per le regionali: 9 agosto-1 novembre. Improbabile immaginare un voto sotto gli ombrelloni, dunque.
E il ministro per i Rapporti con il Palramento Federico D’Incà a RadioUno ipotizza un election day per votare nella stessa giornata Regionali, Comunali e referendum sul taglio dei parlamentari “tra settembre e ottobre per risparmiare in termini di tempo e risorse”.
E’ una doccia gelata per le aspirazioni di Veneto, Liguria, Campania e, forse, Puglia, che sembravano decise a chiamare i cittadini alle urne in estate. Il governatore veneto Luca Zaia, in particolare, aveva in mente di votare il 12 luglio. . Ma d’altra parte nelle ultime ore il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Andrea Martella (Pd) aveva ricordato a Zaia la necessità di assicurare ai cittadini le ”condizioni sanitarie e di sicurezza” per svolgere al meglio le elezioni regionali.
Sono pesati i dubbi dell’esecutivo, la preferenza dei grillini per un election-day a settembre (anche per ragioni di risparmi), le resistenze del ministero della Salute e di altri ministri. Anche perchè il voto in estate avrebbe richiesto una marcia forzata: tra maggio e giugno sarebbe stato necessario chiudere candidature e le liste, in piena emergenza e durante il difficile tentativo di ripartenza.
E poi ancora, come si sarebbero potuti garantire i comizi in sicurezza, con il virus ancora circolante in alcune aree del territorio nazionale?
Alle norme ha lavorato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, supportata dai ministri Francesco Boccia e Federico D’Incà . Fallisce, insomma, il pressing del dem Vincenzo De Luca. Che avrebbe preferito il voto in luglio mosso forse anche da ragioni politiche simili a quelle del ligure Giovanni Toti. Proprio Toti voleva sfruttare i tempi strettissimi per evitare la spaccatura che andava profilandosi nel centrodestra.
E lo stesso vale per De Luca, che per lunghi mesi ha dovuto contrastare l’ostilità della segreteria nazionale dem, orientata su un patto con i cinquestelle per la candidatura unitaria giallorossa del ministro 5S Sergio Costa.
Per Zaia, invece, era soprattutto un problema interno all’area di centrodestra: l’intenzione era quella di chiudere in fretta la partita veneta con elezioni il 12 luglio, per dedicarsi poi alla sfida nazionale sulla leadership.
Poi la decisione del governo. E il rinvio a settembre delle elezioni, che a questo punto potrebbero coincidere con le comunali, fissate tra il 15 settembre e il 15 dicembre.
(da agenzie)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
LA REGIONE E’ TRA QUELLE PIU’ COLPITE DAL CORONAVIRUS… MA LA STRUTTURA DI CIVITANOVA SARA’ REALMENTE UTILE?
L’epidemia di Coronavirus che si è abbattuta duramente sul Nord Italia, colpendo in particolare Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto, non ha risparmiato duri colpi anche in alcune regioni del Centro, tra cui spiccano le Marche e, in particolare, la provincia di Pesaro Urbino.
Secondo gli ultimi dati forniti da Gores, il gruppo operativo regionale che coordina l’emergenza sanitaria, nelle Marche ci sono stati 5.826 casi accertati dall’inizio della crisi sanitaria, di cui 57 emersi nelle ultime 24 ore.
Il dato, con il 6,3 per cento dei tamponi positivi, è certamente in calo rispetto a un mese fa (il 19 marzo il rapporto era al 38,3 per cento). Anche se i numeri non sono lontanamente paragonabili a quelli della Lombardia, che conta 66.236 persone hanno contratto il virus Sars-CoV-2, rappresentano comunque un’eccezione rispetto a quelli di altre regioni del Centro Italia, come il Molise e l’Umbria, che contano rispettivamente 279 e 1348 casi. Non a caso le Marche, insieme alla Lombardia, sono la regione che secondo le previsioni degli esperti dovrebbe raggiungere per ultima l’obiettivo di “contagi zero”: verosimilmente non prima della fine di giugno.
In particolare, la provincia di Pesaro Urbino è la più colpita dall’epidemia di Coronavirus nelle Marche: al 19 aprile ha registrato 449 vittime, oltre la metà degli 822 decessi registrati in tutta la regione. In totale sono finora 2.333 i positivi riscontrati nella provincia. A dare contezza della dimensione del contagio nella provincia di Pesaro Urbino sono i dati dell’incidenza giornaliera del contagio per provincia: mentre a Milano c’è un cittadino malato ogni 205 e a Bergamo uno ogni 104 abitanti, a Pesaro Urbino ce n’è uno ogni 155. Ma perchè numeri così alti rispetto al resto del Centro Italia?
A provocare l’ondata di contagi nelle Marche è stato probabilmente l’evento sportivo “Final eight di Basket“, tenutosi proprio a Pesaro dal 13 al 16 febbraio scorso, che ha attirato nel capoluogo di provincia circa 35mila tifosi provenienti soprattutto dal Nord, come ricostruito dal quotidiano Il Resto del Carlino.
“Probabilmente questa grandissima festa di sport, con una notevole concentrazione di persone, ha inciso”, ha spiegato il sindaco di Pesaro Matteo Ricci in un’intervista durante una puntata di Agorà . Potrebbe aver giocato un ruolo, inoltre, la fiera del gelato Sigep che si è tenuta a fine gennaio a Rimini, a una quarantina di chilometri a nord di Pesaro, di cui TPI si è già occupato in questo articolo. Anche il tasso di letalità del Coronavirus nella provincia (449 morti su 2.333 casi, pari al 19,2 per cento) è superiore a quello dell’intera regione (circa il 14 per cento) nonchè alla media nazionale (13,2 per cento). Il dato di Pesaro Urbino è addirittura superiore all’attuale tasso lombardo del 18,4 per cento.
Il nuovo ospedale Covid-19 di Civitanova Marche
Per quanto riguarda la gestione dell’emergenza, il presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli ha destato inizialmente scalpore per la scelta di chiudere immediatamente le scuole, osteggiata in una prima fase dal governo.
Con l’intensificarsi dell’emergenza, quando il sistema sanitario delle Marche — fortemente indebolito dai tagli dei decenni precedenti — è entrato in crisi, la Regione ha proposto per la creazione di nuovi posti letto in terapia intensiva dapprima il Palaindoor di Ancona, poi un Covid hospital galleggiante su una nave, infine la costruzione di una nuova struttura ospedaliera temporanea esclusivamente per casi Covid con una capienza di 90 posti letto di terapia intensiva, sulla base del “modello lombardo”, da realizzare a Civitanova Marche, nel Maceratese, a oltre 100 chilometri dal focolaio pesarese, con relativi problemi di spostamento di gran parte dei malati.
Ad occuparsi del nuovo ospedale è stato chiamato Guido Bertolaso, ex capo della Protezione Civile e già consulente proprio della Regione Lombardia, che si è occupato dell’analoga struttura a Milano.
Il costo previsto per la realizzazione della struttura è di ben 12 milioni, da raccogliere attraverso donazioni private gestite dall’Ordine dei cavalieri di Malta. Ma il rischio è che la struttura sia pronta quando ormai l’emergenza delle terapie intensive sia superata, come già accaduto con l’ospedale di Milano Fiera: un ospedale costato 21 milioni che attualmente ospita solo 12 pazienti.
Lo scorso 17 aprile, dopo un sopralluogo nell’ex Fiera di Civitanova in cui sorgerà la nuova struttura sanitaria, Bertolaso ha assicurato che “sarà un ospedale dotato di tecnologie straordinarie, eccellenti”, che che, trattandosi di “un’iniziativa nuova”, “dev’essere digerita e assimilata dalla classe medica, che non è abituatissima alle novità e ai cambiamenti di strategia”.
Ma siamo sicuri che il “modello lombardo” sia quello migliore da prendere come riferimento? Cosa ne sarà della struttura temporanea una volta che l’emergenza sarà finita? Perchè non ripotenziare piuttosto gli ospedali già esistenti o quelli smantellati negli ultimi anni?
TPI ha provato a contattare sia il presidente Ceriscioli sia l’assessore Angelo Sciapichetti per porre queste domande, senza ottenere risposta.
“La Fiera aveva tutta una serie di predisposizioni che nessun’altra struttura aveva”, ci ha spiegato il sindaco di Civitanova Marche Fabrizio Ciarapica, contattato telefonicamente. “La necessità era quella di costruire nel minor tempo possibile il numero maggiore di posti possibile e le Fiere nascono proprio per essere allestite più volte, quindi la nostra era la struttura più veloce da allestire”.
Ma a cosa serve spendere 12 milioni per 90 posti in terapia intensiva, se i dati sono ormai in calo?
“Ricordiamo che parliamo di risorse private”, sottolinea in primo cittadino. “Non sono soldi pubblici, sono risorse donate dai cittadini. Ognuno con la sua donazione ha dato un’approvazione all’opera”.
E aggiunge: “Non sappiamo cosa accadrà nei prossimi mesi, nessuno conosce davvero la portata di questo virus e il pericolo non è affatto scampato, dovremo conviverci per altri mesi. Avere un unico centro Covid permetterebbe agli altri ospedali di ripartire con l’attività ordinaria, penso sia importante dare una risposta ed essere pronti al peggio”.
(da TPI)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
“IL SISTEMA SANITARIO LOMBARDO E’ STATO STRAVOLTO DALLA META’ DEGLI ANNI NOVANTA E MARONI HA ADDIRITTURA EQUIPARATO PUBBLICO E PRIVATO”
“La sanità lombarda ha cambiato faccia negli anni Novanta, con Roberto Formigoni. Quando la governavamo noi democristiani era tutta pubblica, salvo una piccola parte privata. La Lega ha proseguito il lavoro a tal punto che nel 2015 Roberto Maroni ha addirittura equiparato il pubblico al privato”.
Bruno Tabacci, 73 anni, ha governato la Lombardia nella Prima Repubblica, da democristiano di sinistra, corrente De Mita.
Oggi è un deputato del Centro democratico, un piccolo partito che sostiene la maggioranza di Giuseppe Conte.
Onorevole Tabacci, dove ha sbagliato la Lombardia?
“Nel sostenere tutto e il contrario di tutto. ‘Apriamo’. ‘Chiudiamo’. ‘Riapriamo’. Ancora pochi giorni fa, quando il governo ha deciso la riapertura delle librerie, il presidente Fontana è insorto, smarcandosi. Adesso non vuole più aspettare nemmeno il 4 maggio. Servirebbe più saggezza”.
Come racconterebbe a uno straniero quanto è accaduto?
“C’è stato un misto di insipienza e superficialità : ‘Siamo i più bravi e nessuno ci può dire cosa dobbiamo fare’. I dati dicono che il Veneto, che pure ha avuto un focolaio iniziale, è stato più bravo nel gestire l’emergenza. Loro, nella prima fase, hanno ricoverato il 26 per cento dei malati, l’Emilia Romagna il 45 per cento, la Lombardia il 75. Per converso la Lombardia ha curato soltanto il 14,5 per cento nell’assistenza domiciliare, l’Emilia il 45, il Veneto il 65. Questi numeri ci dicono che in Lombardia si sono indebolite le strutture territoriali in favore dell’ospedalizzazione. Un processo avviato a metà degli anni Novanta”.
Com’era ai suoi tempi?
“Io sono stato presidente dal 1987 al 1989. Prima di me avevano governato Bassetti, Golfari, Guzzetti, dopo di me venne Giovenzana. La sanità era in larga prevalenza pubblica, a parte il polo dei Rotelli a San Donato Milanese. Con Formigoni questo equilibrio si spezza. Si punta sull’ospedalizzazione d’eccellenza, che attira molti malati da fuori, specie dal Sud, e ancora meglio se danarosi. Ma di fronte all’epidemia questo modello ha mostrato tutti i suoi limiti. E queste cose non le dico io, da vecchio amministratore, ma le hanno scritte nero su bianco i medici dell’Ordine regionale in un documento del 6 aprile scorso”
Come spiega lo spostamento dei malati nelle Rsa?
“Nel tentativo di svuotare le corsie degli ospedali si è commesso un altro errore gravissimo. La delibera regionale dell’8 marzo destinava i malati ‘a bassa intensità ‘ in 16 Rsa, senza verificare se fossero strutture adatte o meno ad isolare i contagiati. Di più: si sono ingolosite ad accettare questi pazienti, perchè il 30 marzo si era fatta una delibera con cui si assegnava 150 euro al giorno per ciascun degente”.
Fontana dice che spettava ai tecnici controllare la capacità di isolamento delle residenze.
“Non si scarichi sui tecnici, per favore, le scelte della politica. Quando ci fu la frana in Valtellina, nell’agosto del 1987, dovetti decidere se far tracimare il lago che il fiume Adda aveva formato nella val di Pola, per togliere così l’alta valle dall’isolamento: Bormio era isolata da Sondrio. Mi consultai con il ministro della Protezione civile, Remo Gaspari. I tecnici erano divisi. Era una situazione complicata, rischiosa. C’era la diretta tv. Beh, presi la decisione e diedi il via libera, senza nascondermi dietro ai tecnici”
Come nasce il modello Formigoni?
“Si è ceduto alle sollecitazioni dei privati. C’erano anche ai nostri tempi, cosa crede, ma la politica svolgeva ancora una funzione di rappresentanza degli interessi collettivi. Qui non si è saputo dire di no, mutando la sanità pubblica in un’altra cosa. La Lega, con Maroni presidente, ha poi proseguito l’opera. Morale: siamo stati incapaci di un controllo sul territorio, di operare screening di massa all’inizio della pandemia”.
Tra le case di riposo sotto accusa c’è anche il Trivulzio
“E mi addolora leggere le testimonianze di quanti avevano affidato fiduciosi i loro vecchi lì e se li sono ritrovati cadaveri. La magistratura faccia chiarezza”.
Cosa è successo invece nella Bergamasca? Perchè Nembro non è stata dichiarata zona rossa?
“Qui hanno inciso le pressioni dei grandi gruppi industriali presenti sul territorio, che speravano di poter convivere con il morbo. Un po’ li capisco. All’inizio eravamo tutti impreparati. Anche se c’era già stato il precedente di Codogno, con la differenza che a Codogno il pronto soccorso l’hanno chiuso subito, ad Alzano l’hanno chiuso e riaperto nel giro di due ore”.
Come ne esce il modello lombardo?
“Vedo che in rete i napoletani si fanno beffe di noi. Credo che dovremo riflettere sul nostro modello. Diventare più umili e più saggi. La ricchezza non può prevalere su un compiuto diritto alla salute. Abbiamo perso il rapporto con la terra. Vengo dalla bassa Mantovana, una provincia che fu contadina, e penso che abbiamo svillaneggiato l’ambiente. D’accordo, eravamo la locomotiva d’Italia, ma ciò ha comportato anche l’essere una delle zone più inquinate d’Europa e ora siamo chiamati a pagare un conto anche per questo”.
Qual è il sentimento tra i milanesi?
“Di turbamento. Apro la finestra della mia casa in corso Indipendenza e fuori non c’è nessuno. Ci si sente anche meno al telefono, è subentrato un silenzioso scoramento”.
Lei aspetterebbe il 4 maggio per ripartire?
“Io sì. Aspetterei la fine dei due ponti. Poi servirà la prudenza necessaria per non ricaderci. Ma mi chiedo anche come faranno le famiglie con le scuole chiuse? A chi lasceranno i figli? Nemmeno ai nonni si potranno lasciare. Vedo in giro molta confusione. Troppi slogan per andare sui giornali. Dovremmo prendere esempio dai tedeschi”.
La politica è stata all’altezza?
“C’è un problema che riguarda le classi dirigenti di questo Paese. Ho visto con favore l’elezione di Bonomi a capo di Confindustria. Ma spero che non si risolva in una presidenza dell’antipolitica. Da soli non ce la facciamo. Serve lo sforzo solidale di tutti. E il rapporto con l’Europa è centrale, se non vogliamo finire nell’orbita degli Usa o dei cinesi”.
Cosa le manca in questi mesi?
“Il non poter andare in bici. Una volta alla settimana prendo il treno da Milano a Roma. C’è un solo Frecciarossa che parte al mattino da Torino e arriva a Napoli. Per molte settimane sono stato l’unico viaggiatore nella carrozza. Ora siamo tornati a essere una decina, una persona nello spazio da quattro: in totale, nelle undici carrozze, non viaggiano più di quaranta persone. Poi io scendo a Termini e vado a Montecitorio, dove tutti, dai commessi ai deputati, portiamo la mascherina e restiamo a distanza. Sono immagini incredibili”.
(da “La Repubblica”)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
AVEVANO FATTO SCATTARE L’INDAGINE DELLA PROCURA DI MILANO PER EPIDEMIA COLPOSA, ORA LA RITORSIONE
Dopo la denuncia dei lavoratori della cooperativa Ampast, che aveva fatto scattare l’indagine della procura di Milano sui contagi nella Rsa della Fondazione Don Gnocchi a causa del Coronavirus, per diffusione colposa di epidemia e altri reati, la stessa cooperativa ha inviato loro una contestazione disciplinare.
L’accusa è di avere «leso l’immagine» della cooperativa, nonchè della fondazione. La notizia è stata data dall’avvocato Romolo Reboa, che assiste i lavoratori e che ha definito il provvedimento «palesemente illegittimo e ritorsivo».
L’avvocato Reboa ha fatto sapere che tutelerà i lavoratori anche in questa fase, insieme alla giuslavorista, l’avvocato Roberta Verginelli. «Si tratta di un provvedimento palesemente illegittimo e ritorsivo. Nel caso di sanzioni disciplinari da parte della cooperativa, queste sarebbero impugnate avanti al Tribunale del Lavoro di Milano».
La comunicazione inviata ai lavoratori per informarli di essere stati «sospesi cautelativamente dal servizio con diritto alla retribuzione» è a firma del legale rappresentante della cooperativa, indagato dalla Procura di Milano nell’inchiesta sulla Rsa, ndr)
(da agenzie)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
L’ASSURDA STORIA NELLA RSA PALAZZOLO DI MILANO: “PAGO 2.500 EURO AL MESE, NON MI FACCIO PRENDERE PER IL CULO”
Maura racconta la sua storia con la voce ferma di chi vuole la verità e la esige non solo per la madre, ma soprattutto per gli altri. Per chi ha o aveva un padre, un nonno, una sorella in quella Rsa.
La Rsa è l’ormai tristemente famoso istituto Palazzolo, al centro di una denuncia da parte di 18 dipendenti e di un’indagine della Procura di Milano.
La madre di Maura, Luciana, era lì dentro da 5 anni e lì dentro è morta il 26 marzo. “Si trovava nel reparto Montini 1, nel piano non protetto. A fine febbraio sono andata come sempre a trovarla e ho trovato i blocchi all’ingresso per i parenti, da parte di personale senza mascherine. Per me è stato l’inizio di una salita, perchè mia madre non poteva comunicare, quindi dovevo confidare nelle loro comunicazioni”
Che sono avvenute come?
“Mi hanno detto che si sarebbero fatti sentire loro una volta a settimana, visto che mia madre da due anni poverina era allettata, in condizioni stabili, ma senza poter più parlare o muoversi”.
Chiamavano?
“Mi chiama un’operatrice il lunedì seguente e mi rassicura: ‘Sua mamma sta bene, mangia, non si preoccupi!’. Mi sono incazzata come una bestia perchè mia mamma da due anni era attaccata alla flebo e non ‘mangiava’. Ho detto ‘Lasciando stare il lato umano, vi do 2.500 euro al mese perchè mia mamma sia accudita, pretendo che chi mi chiama sappia almeno chi è mia madre, altrimenti fate a meno di chiamarmi perchè di essere presa per il culo non mi va!’. Una cosa davvero assurda”.
Le comunicazioni successive vanno meglio
“Il primo marzo mi chiamano di nuovo: ‘Sua madre è stabile’. Il lunedì dopo: ‘Sua madre è stazionaria’. Il lunedì dopo ancora: ‘Sempre stazionaria’. Che poi, voglio dire, mia madre era stazionaria da due anni, quindi non mi stupivo”
Siamo a fine marzo e le notizie sul Palazzolo iniziano a uscire sui giornali, lei le leggeva?
“Sì. Proprio il 23 marzo leggo sui giornali dei 18 operatori che avevano denunciato la direzione del Palazzolo. Non mi chiama nessuno. Io allora tempesto di telefonate l’istituto: rispondono, ma appena mi passano il reparto mi buttano giù il telefono. Mio marito il 24 marzo va dai carabinieri per un’altra questione, parlando con un carabiniere anche di quello che stava succedendo con mia madre al Palazzolo, lui gli dice che se al Palazzolo continueranno a non dargli notizie di sua suocera, manderanno dentro una pattuglia dei carabinieri”.
È andata così?
“No perchè il giorno dopo, il 25 marzo, parlo finalmente col reparto. Mamma è stazionaria, mi tranquillizzano. Io però dico che ho letto i giornali, chiedo anche la situazione col Coronavirus lì dentro. ‘Non possiamo dirle niente, deve parlare con la caposala’, mi rispondono”.
Riesce a parlare con la caposala?
“Ovviamente non la trovo mai: o è a mangiare, o è uscita, o non c’è. Finchè poi non arriva la telefonata del medico il giorno dopo, alle 8 del mattino: ‘Sua madre è morta’”.
Le dice per cosa è morta?
“Mi specifica: le assicuro che non è mancata per Coronavirus, da qualche giorno sua madre stava peggio. Peccato che mi dicessero sempre che era stabile”
Ha pensato che le stessero mentendo?
“Io in quel momento ho solo recepito il fatto che mia madre fosse morta, non sono riuscita a pensare ad altro”.
Ha sentito più nessuno del Palazzolo?
“Due ore dopo mi chiama la caposala, mi dice: ‘In nome dell’amicizia (io andavo lì da 5 anni) volevo chiamarla personalmente per le condoglianze. Sappia che sua mamma non è morta di Coronavirus’.
Poi le chiedo come sta la vicina di letto di mia mamma e mi risponde che è morta due giorni prima. A quel punto chiedo come sia la situazione lì, visto che ho sentito notizie pessime”.
E la caposala cosa risponde?
“Mi invita a non credere a quello che dice la stampa, che non è cosi, che loro hanno tutte le protezioni e aggiunge che hanno casi di Coronavirus anche nel reparto di mia mamma ma erano stati tutti isolati”.
Vi dite altro?
“Io le faccio notare che il medico che mi ha annunciato la morte di mamma mi ha detto che comunque mamma era peggiorata negli ultimi giorni e lei subito si mette sulla difensiva: ‘No assolutamente, sua mamma era stazionaria!’. Lì mi sono incazzata di nuovo, perchè mi metto nei panni di persone che hanno parenti lì dentro che stavano meglio di mia madre e che magari sono stati presi per il culo in questo modo, con versioni diverse, con questa omertà alternata a notizie contraddittorie”
Avete chiamato le pompe funebri a quel punto.
“Sì, un nostro conoscente delle pompe funebri è andato al Palazzolo il 26 marzo a ritirare i documenti e mentre era lì ci ha telefonato dicendo: ‘Qui c’è il delirio, gente che sta minacciando denunce, persone fuori di testa, persone che chiedono di sapere cosa sta accadendo’”.
Cosa pensa di tutta questa vicenda?
“Mi chiedo cosa sia successo là dentro. E dico una cosa: per mia madre la morte forse è stata una liberazione dopo due anni allettata in quel modo, ma lì dentro c’erano persone che stavano in condizioni di vita più che accettabili, persone per cui la trasparenza avrebbe potuto fare la differenza più che per mia madre, forse. Io parlo e denuncio per loro più che per me, queste persone e i loro parenti meritano la verità ”.
(da TPI)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
DARE L’ULTIMO SALUTO AL PADRE MORENTE NON SAREBBE UNA GIUSTIFICAZIONE PER LE FORZE DELL’ORDINE: UN’ALTRA BRUTTA PAGINA DEI RAPPRESENTANTI DELLO STATO
Sanzionato per essersi messo in viaggio per raggiungere il padre in fin di vita.
E’ successo a un uomo di Pietra Ligure (Savona), fermato ieri mentre era in auto in provincia di Pavia, nei pressi della località di Mezzanino, dai carabinieri di Santa Giuletta. L’uomo, beneficiario della legge 104 per assistere il padre malato terminale, ha spiegato di essere andato nel pavese per l’ultimo saluto all’anziano genitore, ma i militari non hanno ritenuto si trattasse di “assoluta urgenza” e hanno sanzionato il savonese per violazione del Dpcm sul Coronavirus.
Un altro caso paradossale si era verificato in Liguria il 12 aprile scorso quando nei pressi del casello autostradale di Savona fu sanzionato un uomo che era andato a prendere la moglie, infermiera in una casa di riposo a Cogoleto, in auto, per evitarle di spostarsi in treno. In quel caso la sanzione era stata poi annullata.
(da agenzie)
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Aprile 20th, 2020 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DEL FIGLIO: “ALL’OSPEDALE DI ORBASSANO NON C’ERANO ALTRI POSTI”
Ricoverato in un reparto Covid pur essendo risultato negativo a due tamponi.
“Mio papà aveva la polmonite ma di altro tipo, eppure l’hanno tenuto con tutti gli infetti e, quando è morto, non abbiamo nemmeno potuto vederlo”, dice Fabio Belletti, che da una vita guida le ambulanze e per tanto tempo ha fatto volontariato proprio al San Luigi di Orbassano.
E’ convinto che, vista l’assoluta situazione di emergenza, il padre non abbia ricevuto le cure e l’attenzione che meritava.
“Se fosse stato in un reparto di geriatria magari non ce l’avrebbe fatta lo stesso racconta – ma quando è entrato lì dentro e ci hanno detto che non c’era altro posto se non tra i malati di Covid ci hanno fatto capire da subito che non ritenevano di poter fare molto per lui. Mio papà non era autosufficiente da qualche anno e soffriva di demenza senile ma, pur con tutti i suoi problemi, aveva alcuni momenti di lucidità , chissà cosa avrà sofferto in quei pochi giorni prima di morire”.
Dal 10 aprile, quando la sera è stato chiamato dall’ospedale per comunicare che il papà non ce l’aveva fatta, Fabio Belletti non si è dato pace.
“Lo abbiamo fatto andare in ospedale, dovevamo decidere se farlo comunque, nonostante questo terribile virus e nonostante sapessimo che non gli saremmo stati vicini”.
Al San Luigi sono impediti i contatti con l’esterno in ogni reparto, per evitare che l’ingresso dei parenti possa essere motivo di contaminazione. “È stata un’agonia sentire notizie solo telefoniche fino alla notte in cui ci hanno detto che non era più con noi”.
Ma il fatto che sia stato sistemato tra i malati di Covid, quello proprio non gli va giù. “Due tamponi negativi e ricovero in reparto Covid, questo non lo digerisco. Hanno consegnato mio padre dopo cinque giorni in un sacco sigillato nonostante non fosse positivo al virus” .
Belletti dice che la polmonite del padre era certamente dovuta a problemi di deglutizione provocati dalle condizioni di salute precedenti. Racconta che più volte erano venuti in soccorso a casa i sanitari, ma l’ultima volta hanno dovuto lasciarlo ricoverare non sapendo più come fare.
(da agenzie)
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