Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
CI SONO 38 MILIARDI DI EURO DI FONDI STRUTTURALI EUROPEI CHE NON SIAMO RIUSCITI A SPENDERE E CHE POTREMMO UTILIZZARE SENZA CONDIZIONI… E POI DANNO COLPA ALL’EUROPA
Del MES abbiamo parlato a lungo in questi giorni, seguendo un dibattito che si sta trasformando nella resa dei conti del nostro Paese con una parte delle istituzioni europee e, contemporaneamente, nel ring principale dello scontro fra governo e opposizioni (nonchè fra gli stessi partiti).
Una questione su cui sono attese novità sostanziali nei prossimi giorni, con il Consiglio europeo del 23 aprile che dovrebbe servire a dirimere i contrasti fra gli Stati membri e a fornire gli strumenti economici necessari per affrontare una crisi epocale che rischia di travolgere non solo i Paesi più esposti, ma l’intero progetto comunitario.
Servono risorse, da attivare il più velocemente possibile, insomma. Il problema è che mentre il dibattito si focalizza sul MES e sui coronabond, ci si dimentica di uno dei problemi endemici del nostro Paese: l’incapacità di spendere i fondi europei già a disposizione.
La questione è centrale, anche in relazione al recente intervento della UE sulle regole di funzionamento dei fondi strutturali, attuato nell’ambito della Coronavirus Response Investment Initiative (che ha anche messo a disposizione del nostro Paese circa 2,3 miliardi di euro).
Di fatto, la UE è intervenuta per semplificare i regolamenti e snellire le procedure sia del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) che del Fondo Sociale Europeo (FSE), rendendo molto più semplice l’attivazione di cospicue risorse economiche.
Si tratta di modifiche di grande rilevanza, che permetteranno ad esempio di modificare i programmi operativi (POR e PON) senza che sia necessaria l’autorizzazione della Commissione Europea, ma solo con il via libera del Comitato di Sorveglianza.
Inoltre, cadrà il vincolo del cofinanziamento nazionale degli investimenti e si avrà la massima flessibilità nel trasferire i fondi non solo da un fondo all’altro, ma anche da un programma all’altro.
Ma soprattutto, non ci sarà più il vincolo della “concentrazione tematica” delle spese, dunque si potranno spostare da un capitolo all’altro risorse anche consistenti.
Cosa vuol dire, in sostanza?
Lo spiega un documento del Dipartimento per la Programmazione e il coordinamento della Politica Economica di Palazzo Chigi,
Grazie a queste modifiche si potrà :
usare il FESR e il FSE per acquistare dispositivi sanitari e di protezione, prevenzione delle malattie, sanità elettronica, dispositivi medici (compresi respiratori, mascherine e simili), sicurezza dell’ambiente di lavoro nel settore dell’assistenza sanitaria e garanzia dell’accesso all’assistenza sanitaria per i gruppi vulnerabili;
ricorrere al FESR per aiutare le imprese a far fronte agli shock finanziari a breve termine, ad esempio in termini di capitale di esercizio delle PMI, con speciale attenzione ai settori particolarmente colpiti dalla crisi;
ricorrere al FSE per sostenere temporaneamente regimi nazionali di lavoro a orario ridotto, per aiutare ad attenuare l’impatto dello shock;
ricorrere al Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) a tutela del reddito dei pescatori e degli acquacoltori colpiti dalla crisi.
Di che cifre stiamo parlando?
È molto interessante sottolineare che si tratta di somme di grande rilevanza, visto che l’Italia è destinataria di 53 miliardi di euro per il ciclo di programmazione 2014-2020, comprendenti la quota di cofinanziamento nazionale.
Il problema è che non siamo ancora riusciti a spendere più dei due terzi di questi soldi, per un ammontare complessivo di circa 38 miliardi di euro, cui detrarre soltanto una minima quota di risorse già impegnate.
La tabella, sempre dal documento della Presidenza del Consiglio dei ministri, evidenzia i dati su base regionale e le somme non spese del FESR e del FES
A queste somme vanno poi aggiunte risorse “settoriali”, utilizzabili ad esempio per scuole, periferie e lavoro, che neanche siamo riusciti a spendere.
Sul punto, alcuni ministeri sembrano essersi già messi al lavoro, con il ministero per il Sud che starebbe pensando di chiedere alle Regioni di dirottare circa il 20% a interventi urgenti per il COVID-19.
Occorre però fare in fretta, proprio nella considerazione che si tratti di fondi importanti, non solo per la risposta sanitaria, ma anche per il sostegno a imprese e cittadini.
(da Fanpage)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
LA LEGA IN EUROPA VOTA CONTRO LA MUTUALIZZAZIONE DEL DEBITO DOPO CHE IN ITALIA LA RICHIEDE OGNI GIORNO… E L’UNICA CHE PRESENTA UNA MOZIONE CONTRO IL MES E’ LA SINISTRA DEL GUE, DOVE SONO FINITI LEGA E M5S ?
“Siamo riusciti a fare del Mes uno strumento che può essere usato nella situazione della pandemia di coronavirus”, dice il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz prima di prendere parte alla riunione dell’Ecofin oggi in videoconferenza.
Scholz cita anche l’intervento della Bei, il piano Sure della Commissione europea di sostegno alla disoccupazione, ma non cita la cosiddetta ‘quarta gamba’ del pacchetto approvato la settimana scorsa dall’Eurogruppo. Vale a dire il piano europeo di ripresa, finanziato dai titoli di debito comune (recovery bond), chiesto da Italia e Francia e sostenuto dalla Spagna e altri 8-9 paesi dell’Ue.
E’ il segnale che al nord, in Germania ma anche in Olanda, il piano europeo di ripresa ancora non prende forma. Anche al consiglio dei ministri delle finanze dell’Unione, il nord tiene duro e chiede garanzie sulla durata del fondo.
In sostanza, Olanda, Danimarca, Svezia premono per fissare una data o in alternativa delle condizioni che indichino con precisione quando il ruolo del fondo dovrà considerarsi esaurito. Insomma ancora non ci siamo. Il sud contesta questa ipotesi. L’Ecofin non prende alcuna decisione. Se ne riparla al vertice dei 27 capi di Stato e di governo dell’Ue il 23 aprile prossimo, che potrebbe dare mandato alla Commissione di redigere un piano per la creazione del fondo. Sempre che gli Stati si mettano d’accordo.
E’ per dare man forte alla proposta italo-francese che Emmanuel Macron usa toni duri in un’intervista al Financial Times. Parlando del fondo comune, il capo dell’Eliseo dice: “L’Ue è al momento della verità . Se non facciamo questo oggi, io vi dico che i populisti vinceranno oggi, domani, dopodomani, in Italia, in Spagna, forse in Francia e altrove”.
Il Parlamento europeo intanto approva il paragrafo 17 della risoluzione di maggioranza sui recovery bond, titoli comuni che “escludono la mutualizzazione del debito esistente”, recita il testo, e riguardano solo “gli investimenti futuri”.
E’ la proposta del gruppo liberal-macroniano ‘Renew Europe’, approvata anche dai Popolari e i socialisti. “Dà un’indicazione chiara al prossimo Consiglio europeo che adesso dovrà impegnarsi ad attivare queste nuove risorse nel più breve tempo possibile”, dice Sandro Gozi, eurodeputato di Renew Europe.
Questo compromesso dovrebbe dare una sorta di sostegno a Macron e Giuseppe Conte nella trattativa con gli altri leader europei la prossima settimana, anche se le risoluzioni del Parlamento non hanno potere reale sul Consiglio.
Non passa l’altra proposta, presentata dai Verdi, sulla creazione di ‘coronabond’, titoli che mutualizzerebbero “a livello Ue una quota sostanziale del debito che sarà emesso per combattere le conseguenze della crisi del Covid-19”, recita il testo.
Lo stesso gruppo di Renew vota un po’ contro, un po’ si astiene per difendere il proprio compromesso sui recovery bond, che altrimenti non sarebbero passati per l’opposizione dei Popolari, il gruppo più folto in Parlamento.
E alla luce di questa bocciatura, i 14 eurodeputati pentastellati non hanno ancora deciso come comportarsi domani al voto finale sulla risoluzione di maggioranza sostenuta da Ppe, S&d, Renew Europe, Verdi.
Nel testo, tra l’altro, è contemplato anche il ricorso al ‘contestato’ Mes che ha messo in crisi la maggioranza di governo in Italia, con il Pd a favore e il M5s contro. La risoluzione approvata però chiede che tutti i 410 miliardi a disposizione del Mes vengano messi a disposizione per la linea di credito senza condizioni in emergenza per le spese sanitarie.
All’europarlamento l’unica risoluzione che esclude il ricorso al Salva Stati è quella presentata dalla sinistra del Gue. Invece la risoluzione presentata dal gruppo sovranista di Identità e democrazia chiedeva meno poteri all’Ue di intervenire: una contraddizione per chi come la Lega chiede gli eurobond.
E naturalmente, perseverando nella contraddizione, i sovranisti hanno votato no alla mutualizzazione del debito, sia per la risoluzione approvata dalla maggioranza che per quella dei Verdi.
Soddisfatto il presidente dell’Europarlamento David Sassoli per l’approvazione della risoluzione di maggioranza in vista del Consiglio europeo della prossima settimana. “Ogni sforzo, anche quello di tenere aperto e funzionante il Parlamento, deve dimostrare che ci prendiamo cura delle persone, che vogliamo far vivere anche nell’emergenza in nostri valori, che la democrazia non si ferma”, dice.
Intanto nel pomeriggio all’Ecofin, il ministro Roberto Gualtieri ribadisce l’importanza di istituire il Recovery Fund da finanziare attraverso l’emissione di titoli comuni per assicurare una risposta comune adeguata alla crisi economica innescata dal Coronavirus e un sostegno alla ripresa, garantendo le stesse condizioni a tutti gli Stati membri. Gualtieri chiede anche tempi brevi per l’attivazione. Ma anche oggi i veti del nord non si sciolgono.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
LA GESTIONE DISASTROSA DELL’EMERGENZA DA PARTE DI FONTANA RENDE SALVINI SEMPRE PIU’ UN PUGILE SUONATO ANCHE ALL’INTERNO DELLA LEGA, DOVE SALE ZAIA
Il malumore è più che una sensazione. Perchè il default Lombardia sembra preconizzare l’inizio della crisi della leadership di Matteo Salvini.
Così all’interno della Lega, quella che è una sensazione, finisce per diventare un sentimento fra i pesi massimi di via Bellerio e dintorni.
Serpeggia infatti un malessere diffuso che da Roma giunge fino all’ultimo paese della provincia di Bergamo, epicentro dei focolaio del Coronavirus.
Le chat dei dirigenti non solo ribollono ma al suo interno rimbalzano alcune riflessioni il cui senso è di questo tenore: “Zaia ha avuto poco dal governo, e ha saputo fare da sè, mentre Fontana, dispiace dirlo, non ne ha azzeccata una”.
Il ragionamento fila, e se queste è solo premessa, poi c’è lo svolgimento.
“Fontana – mormorano ancora – cerca sempre di dare le colpe al governo, o al più ai sindaci. Ma qui l’unico dato vero è che la Lombardia ne esce ridimensionata dall’emergenza”. E se ne esce ridimensionato il vertice del Pirellone ne uscirà ridimensionato il segretario della Lega.
Perchè, ironizzano da più parti, “se gratti Salvini trovi Fontana, e viceversa. I due sono la stessa cosa”.
Ecco perchè nell’apparente consenso del Capitano il vero tallone d’Achille che rischia di annientarlo è proprio la Lombardia. La regione che fu modello di governo, modello sanitario, che è stata ed è il motore di una certa narrazione leghista, e ora non sembra esserlo più.
Anche perchè si scontra con una realtà impietosa ai tempi del Coronovirus. Tra perquisizioni alla residenza per anziani Pio Albergo Trivulzio, inchieste che prendono di mira i rapporti tra Rsa e Regione — con tanto di indagine per epidemia colposa e omicidio colposo plurimo per il direttore del Pat Giuseppe Calicchio – fughe in avanti del presidente Attilio Fontana sulla riapertura in barba alle disposizioni nazionali, per non parlare degli scontri con l’esecutivo di Giuseppe Conte e dei duelli con il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Capitano leghista sembra essere entrato nel pallone.
Salvini e Fontana. Fontana e Salvini, due facce della stessa medaglia. Con il presidentissimo del Pirellone che per coprire una sfilza di responsabilità duella continuamente con l’esecutivo giallorosso e si dimentica di essere il pezzo di Paese più devastato dal virus.
E con l’ex ministro dell’Interno che tra un attacco all’odiata Europa e una diretta facebook incoraggia le scelte del suo governatore preferito.
Ecco la cronistoria di un capolavoro di errori.
Il 24 febbraio Fontana derubrica il virus “a poco più di un’influenza”. Tre giorno dopo si fa immortalare con la mascherina, una foto che ha fatto il giro del mondo, e annuncia l’isolamento. All’inizio di marzo nel pieno caos lombardo il numero uno della Regione non inserisce all’interno zona rossa i due comuni della provincia di Bergamo, Alzano Lombardo e Nembro.
Entrambi feudo di un leghismo d’antan, rappresentano la fotografia plastica degli infortuni commessi. Pochi giorni dopo, è l’8 marzo, in occasione della festa della donna sempre Fontana verga una delibera che sancisce il trasferimento dei pazienti Covid a bassa intensità dagli ospedali alle Rsa, trasformando le case di riposo in veri e propri focolai.
Cui poi seguono le delibere del 23 marzo e del 30 marzo, dove in quest’ultima la Regione dà indicazioni alle Rsa su come gestire i pazienti Covid. E’ la cronaca di una strage: nelle tre sedi del Trivulzio decedono 191 pazienti tra marzo e aprile. E il Pat diventa così l’oggetto di una inchiesta giudiziaria della Procura di Milano che parte dal Pio Trivulzio e arriva ai rapporti tra il Pirellone e il sistema privato della Sanità .
Il che non esclude che la magistratura non coinvolga il livello politico.
Sia come sia in questo contesto Salvini asseconda ogni uscita di Fontana e se ne serve per innescare un attacco al governo. “Regione e Salvini stanno facendo questo gioco”, osserva l’europarlamentare del Pd, nonchè milanese doc, Pierfrancesco Majorino, “che è un gioco legato al livello di consenso. Per la prima volta sono in difficoltà non solo a Milano città ma anche in provincia. Non vogliono che si parli del Pat, delle Rsa, e allora alzano il livello dello scontro con il governo”.
Ed è un gioco che appunto passa da uno zigazagare continuo da parte di Salvini. Il quale segue pedissequamente il verbo di Fontana. Il 21 febbraio c’è il primo caso a Codogno, e Salvini lancia l’allarme su Facebook: “Chiudere! Blindare! Proteggere! Controllare! Bloccare!”. Il 27 febbraio il Capitano cambia versione dei fatti. Ma quale chiusura, ma quale blindatura. C’è in campo un nuovo Salvini: “Riaprire, riaprire tutto quello che si può riaprire. Riaprire per rilanciare fabbriche, negozi, musei, palestre, gallerie, ristoranti, centri commerciali!”. Altro giorno, altra giravolta. Siamo al 3 marzo i contagiati sono più di due mila e il leader di via Bellerio dichiara: “Tutta Italia diventa rossa”. E ancora il 10 marzo: “Fermare tutto”. Il 26 marzo, intervistato da Corrado Formigli a Piazza Pulita, ammette di aver sottovaluto: “Riaprire tutto? Era evidentemente una valutazione scientificamente sbagliata”. Infine, il capolavoro.
A pochi giorni dalla Pasqua si lancia in una proposta per strizzare l’occhio al mondo cattolico: “Aprire le chiese ai fedeli, magari con ingressi contingentati. Il mio è un appello a poter permettere a chi crede di andare a messa. Si può andare dal tabaccaio, allora perchè non si può curare l’anima. Si può entrare contingentati al supermercato e allora perchè no in chiesa?”.
Salvini, insomma, si ritrova nella parte di un pugile suonato e confuso conscio che la sua leadership è strettamente connessa alla stato di salute della gran malata del Nord. Dove ad oggi, dati delle protezione civile alla mano, si registra il numero più alto di deceduti ogni mille abitanti (1,107).
Un numero che è circa due volte quello dell’Emilia Romagna, tre volte il Piemonte e oltre cinque volte la media nazionale. Ecco, non è dato sapere se come mormorano qualcuno sarà “simul stabunt, simul cadunt”.
Insomma, se il default della Lombardia faccia implodere la macchina di consenso del leader dell’opposizione. Vero è, per dirla sempre con Majorino, “che se nelle prime settimane del Covid si aveva l’impressione di un grande consenso nei loro confronti, oggi c’è un sacco di gente infuriata per la cattiva gestione e per gli errori commessi”.
Eppoi c’è un contesto che non gli è congeniale: non è all’ordine del giorno la campagna elettorale delle regionali e chissà quando lo sarà , il dibattito sul Mes ha innescato come primo effetto la spaccatura del centrodestra. Ecco perchè l’unica arma di Salvini resta la Lombardia. Che il Capitano utilizza per fare il controcanto al governo, e non a caso in questi giorni allo si è visto spesso proprio al Palazzo della regione.
E se solo qualche giorno fa Fontana si diceva contrario alla riapertura delle librerie e delle cartolerie e anche l’assessore al Welfare Gallera definiva la situazione lombarda “problematica”, da ieri il vertice lombardo non solo ha cambiato paradigma ed è ripartito all’attacco evocando la riapertura della Regione: “Fateci aprire il 4 maggio”.
Una mossa utile non solo a coprire le note vicende giudiziarie sulle Rsa, ma congeniale al leader del fu Carroccio a pungolare Palazzo Chigi. Non a caso Salvini cavalca la proposta Fontana e un attimo dopo gli fa eco in questi termini: “Noi siamo stati i primi a chiudere e abbiamo fatto bene e qui ricordo chi scherzava Fontana e Zaia. Non vorrei fossimo gli ultimi a riaprire, sarebbe un disastro senza precedenti Se la scuola riaprisse l’11 maggio, io i miei figli li manderei purchè siano garantiti sanificazione, distanze e dispositivi di protezione”.
Non è forse un caso che, messe da parte tra le polemiche le conferenze Facebook allarmistiche del forzista Gallera, la nuova musica cantata dal “suo” Fontana era tutta un “ripartiamo”. Con una nuova centralità comunicativa affidata agli assessori leghisti: secondo qualche osservatore ben informato, al di là dei sorrisi di apparenza, tra Forza Italia e la Lega si sta già consumando il derby per chi deciderà il prossimo candidato sindaco per il centrodestra di Milano. Bruciato(si) Gallera, difficilmente Salvini cederà il diritto di prelazione.
E così arriviamo a oggi, quando l’ex inquilino del Viminale si presenta al Senato per una conferenza stampa su agricoltura e turismo. Un Salvini indossa per la prima volta gli occhiali e apre i lavori ringraziando la Lombardia: “Ringrazio Regione Lombardia che ha dato a tutti i cittadini italiani segnale di speranza, di ripartenza, visione e pianificazione del futuro”. Ma non finisce qui.
Perchè al minuto successivo sempre Salvini ri-ringrazia Fontana e company. Ed è un ringraziamento, questa volta, che sa di stoccata al governo nazionale: “A proposito, ancora grazie alla Regione Lombardia perchè anticiperà la cassa integrazione che qualcuno aveva promesso per il 15 aprile. Ma ad oggi dallo Stato zero euro”.
E invece di lodare il Veneto di Luca Zaia, che forse teme come avversario interno, e che non a caso diverse voci del Pd tendono a elogiare per la buona gestione della crisi, Salvini parla sempre e solo della sua Regione.
“Il governo e i ministri del Pd e dei cinquestelle — si sgola in queste ore – dovrebbero fornire tutte le mascherine che servono e medici, lavoratori e cittadini lombardi, che ne hanno diritto e aspettano invano da settimane”. Ed è un attacco che sa di difesa.
Anche perchè la regione leghista per antonomasia è il nervo scoperto di un leader che ha iniziato una lunga traversata nel deserto. E allora si ritorna al punto di partenza, a quei malumori che risuonano alle orecchie del segretario di via Bellerio: “Zaia ha avuto poco dal governo, e ha saputo fare da sè, mentre Fontana, dispiace dirlo, non ne ha azzeccata una”.
Fontana e Salvini. Salvini e Fontana. Simul stabunt, simul cadent.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
DAL 27 FEBBRAIO AD OGGI I CONTINUI CAMBI DI ROTTA E GIRAVOLTE DI UN VENDITORE DI FUMO
Aprire, chiudere. Preservare la salute degli italiani con il distanziamento sociale o riprendere le attività e la vita pre-coronavirus?
Il leader della Lega, Matteo Salvini, ci ha abituati a continui cambi di rotta sulle misure che il governo dovrebbe adottare per l’Italia ai tempi del Covid 19. Oggi preme decisamente sull’acceleratore della riapertura. In linea con i governatori leghisti Fontana e Zaia.
“Chiedere la riapertura da parte della Lombardia è un grande segnale di concretezza e di speranza, spero che il governo ne tenga conto”, ha dichiarato questa mattina Salvini. E ancora: “Altri Paesi riaprono, non possiamo rimanere indietro”. Spingendosi a parlare della scuola e di un ritorno dei figli sui banchi. “Se riaprisse l’11 maggio, i miei figli li manderei a scuola, purchè siano garantiti sanificazione, distanze e dispositivi di protezione”. Solo l’ultimo evoluzione di un percorso molto tortuoso. Ecco, data per data, le dichiarazioni del leader leghista.
21 febbraio: “Chiudere l’Italia”
In occasione dei primi contagi, in Italia, da Covid 19, Matteo Salvini, non aveva dubbi: “Bisogna chiudere tutto”. Alle domande dei giornalisti sulle misure da adottare per scongiurare l’inizio dell’emergenza, il leader leghista il 21 febbraio scorso dichiarava: “Davvero non vorrei polemiche, non penso solo ai barconi e ai barchini. Penso ai controlli di chiunque entra in Italia ed esce dall’Italia: evidentemente, qualcosa non funziona. Il Governo? Non do colpe a Tizio e a Caio: è fondamentale, se non l’hanno fatto da ieri, che da oggi – scandiva Salvini- chiunque entri in Italia con qualunque mezzo di trasporto, dalla zattera all’aeroplano, venga controllato”.
27 febbraio: “Tornare alla normalità “
Il leader leghista il 27 febbraio, a soli 6 giorni di distanza dalle sue prime dichiarazioni sull’emergenza Covid-19, sembra entrare in confusione e cambia rotta. Dal “controllare tutti”, Salvini passa al “tornare alla normalità “.
Attaccando l’Europa e il governo Conte, il leghista, dopo essere salito al Colle per un colloquio co il Capo dello Stato, Sergio Matterella, all’uscita dal Quirinale dice ai cronisti che lo attendono: “Il Paese affonda, con i governatori leghisti concordiamo che occorre riaprire tutte le attività e ritornare alla normalità “.
10 marzo: “Fermare tutto”
Nuova retromarcia di Salvini. Con l’Italia piegata da un numero impressionante di contagiati e di vittime e Salvini è costretto a cambiare registro. “Fermiamo tutto per i giorni necessari. Mettiamo in sicurezza la salute di tutta Italia. Chiudere prima che sia tardi”. E poi, il giorno seguente, l’11 marzo, alza il tiro: “Chiudere tutta l’Europa. Tutto il continente – ha sostenuto Salvini – deve diventare zona rossa, per evitare guerre commerciali. Prima si chiude Schengen, meglio è”.
26 marzo: “Riaprire tutto? Ho sbagliato”
Messo alle strette dalle trasmissione televisiva Piazzapulita su La7, Salvini è costretto ad ammettere l’errore sull’appello a riaprire. “Era evidentemente una valutazione scientificamente sbagliata”, dice, ma aggiunge: “Come era sbagliata quella del presidente del Consiglio che diceva che era tutto sotto controllo”.
4 aprile: “Riaprire le chiese per Pasqua”
Ammettere l’errore non esclude una nuova giravolta. Con la Pasqua alle porte cosa fare con le messe e i riti nelle chiese? Salvini torna sul tema dello spalancare le porte, questa volta ai fedeli. Ospite in una trasmissione di SkyTg24 dice la sua: “Aprire le chiese ai fedeli, magari con ingressi contingentati”. E spiega meglio: “Il mio è un appello a poter permettere a chi crede di andare a messa. Si può andare dal tabaccaio, allora perchè non si può curare l’anima. Si può entrare contingentati al supermercato e allora perchè no in chiesa?”. Ma la sua proposta resterà isolata. Respinta sia dagli alleati del centrodestra che dalla Chiesa.
14 aprile: “Chi può riapra il prima possibile”
Dopo il sì alle riaperture e poi il no, Salvini il 14 aprile passa al “ni”. Aprire tutto, dal 4 maggio, sarebbe rischioso. Quindi, la ricetta per la fase 2 secondo l’esponente del Carroccio sarebbe: “Riaprire in sicurezza chi può il prima possibile perchè stare chiusi altre settimane e mesi porterà al disastro economico”.
16 aprile: “Riaprire la Lombardia”
L’ultimo slalom di Salvini sulla ripartenza ha la data di oggi. Basta distanziamento sociale, stop allo stare a casa, adesso per l’Italia, sostiene il leghista, c’è bisogno di una accelerazione verso la normalità . Quindi, anche regioni tra le più colpite dalla pandemia, come la Lombardia, dal 4 maggio dovranno registrare la svolta. “Chiedere la riapertura da parte della Lombardia – ha dichiarato sostenendo le richieste del governatore Attilio Fontana – è un grande segnale di concretezza e di speranza, spero che il governo ne tenga conto”. Il governo, il bersaglio di sempre.
(da agenzie)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
“SE LE AZIENDE RIAPERTE PROVOCASSERO NUOVI FOCOLAI SAREBBE UN DISTRASTRO INCOMMENSURABILE”
L’emergenza Coronavirus continua in tutta Italia, in particolare in Lombardia, dove i numeri dei contagiati e dei morti restano allarmanti. Ma nonostante questo la Regione sta pensando ad una riapertura a partire dal prossimo 4 maggio. Oltre ad aver provocato l’ira del governo, questa decisione ha messo in allarme anche medici e scienziati.
“La Lombardia mette tutti a rischio”, ha detto Pier Luigi Lopalco, l’epidemiologo, professore di Igiene dell’Università di Pisa. “Se le aziende riaperte provocassero l’insorgere di nuovi focolai sarebbe un disastro incommensurabile”.
Lopalco, nominato dal governatore Michele Emiliano responsabile delle emergenze epidemiologiche in Puglia, teme che tutti gli sforzi sinora compiuti “possano essere vanificati da scelte dettate da logiche che non tengano conto della gravità della pandemia”.
Secondo l’esperto, “i dati che ancora leggiamo rispetto alla situazione della Lombardia sono tutt’altro che confortanti” tant’è che “la circolazione del nuovo coronavirus è ancora importante e riaprire di più in quella zona industriale vorrebbe dire sovraccaricare Milano che ne è il fulcro”.
Lopalco pertanto si chiede se “coloro che decidono si rendano ben conto di che cosa questo significhi” e dei rischi che ciò comporti, perchè — spiega ancora il medico — “aumentare questa percentuale di movimenti è molto rischioso” in quanto “i conseguenti contatti sociali potrebbero generare altri focolai”. Anche perchè “la Lombardia è la regione che ha avuto la fase di proliferazione più importante della pandemia in Italia”.
(da Globalist)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
LE PROVE DEL CONTATTO DI EMERGENZA SALVATAGGI: “NON HANNO SOCCORSO IL BARCONE CON 55 PERSONE A BORDO, VIOLANDO LA LEGGE”
“Dodici persone sono morte a causa dell’azione e dell’inazione europea nel Mediterraneo. Le autorità di Malta, Italia, Libia, Portogallo, Germania, come anche Frontex, erano state informate di un gruppo di 55 (alla fine erano 63) migranti in difficoltà in mare, ma hanno scelto di lasciar morire 12 di loro di sete e annegate, mentre organizzavano il ritorno forzato dei sopravvissuti in Libia, un posto di guerra, tortura e stupro”.
E’ la denuncia di Alarm Phone, il contatto di emergenza per i salvataggi nel Mediterraneo che lunedì scorso aveva diffuso l’audio di richiesta di aiuto da parte di una donna a bordo di un gommone in avaria.
Oggi Alarm Phone, in collaborazione con le ong Sea Watch e Mediterranea, pubblica un rapporto in cui ricostruisce tutte le fasi della vicenda dei migranti partiti da Garabulli in Libia la notte tra il 9 e il 10 aprile scorsi.
“Contrariamente a quanto afferma Malta — si legge nel rapporto – il barcone era alla deriva in zona Sar maltese, non lontano da Lampedusa. Tutte le autorità hanno scelto di non intervenire, usando l’epidemia di Covid-19 come una scusa per infrangere drammaticamente le leggi del mare così come i diritti umani e le convenzioni sui rifugiati”.
Il servizio telefonico aveva lanciato l’allarme sul barcone in difficoltà , informando le autorità di Italia, Malta, Libia e Tunisia, lo scorso 10 aprile, dopo essere riuscita a entrare in contatto con l’imbarcazione in avaria. Sabato 11 aprile, si legge nel rapporto, il servizio di emergenza è riuscito a parlare con le autorità libiche ricevendo questa risposta: “La guardia costiera libica svolge solo un lavoro di coordinamento per via della pandemia da Covid-19, non possiamo svolgere alcuna operazione di soccorso, ma siamo in contatto con Italia e Malta”.
Domenica 12 aprile l’imbarcazione era segnalata in acque maltesi, sempre secondo il rapporto di Alarm Phone che subito dopo ha perso il contatto con il natante. Solo la sera di lunedì, dopo “36 ore di assenza di contatti”, le autorità italiana e maltese hanno organizzato una sorveglianza aerea individuando l’imbarcazione in acque maltesi. E martedì scorso Malta ha inviato un servizio di soccorso, precisando però di “non poter fornire un porto sicuro”. Alarm Phone ha “continuato a contattare le autorità militari di Malta durante il giorno per verificare che fossero iniziate le operazioni di soccorso”.
E’ stato il cargo ‘Ivan’ a intercettare l’imbarcazione in avaria ma “Malta ha ordinato di restare sul posto e limitarsi a tenere sotto controllo il natante in difficoltà fino all’arrivo dei soccorsi. Date le condizioni avverse del mare, Ivan non è stato in grado di prestare soccorso, oltre al fatto che Malta aveva ordinato di non farlo”, “sorvegliando la zona con gli aerei”, si legge nel rapporto di Alarm Phone.
Secondo le testimonianze raccolte dai migranti a bordo, “tre persone si sono gettate in mare per raggiungere Ivan e sono annegate. Altre quattro si sono buttate in acqua per la disperazione”. “Abbiamo anche cercato di attirare l’attenzione degli aerei, sollevando tra le braccia un bambino che era con noi — racconta chi era a bordo — Dall’aereo ci hanno visto sicuro, perchè ci hanno risposto con una luce rossa. Dopo, un’altra barca è arrivata e ci ha preso a bordo”.
Si trattava di un peschereccio e di un’altra imbarcazione non identificata. Hanno preso “a bordo i migranti, sotto il coordinamento delle forze aeree maltesi. A Ivan è stato ordinato di lasciare la zona”.
Martedì sera le autorità di Malta hanno comunicato ad Alarm Phone che “non avevano casi di persone soccorse, senza fornire informazioni su che fine avesse fatto l’imbarcazione avvistata”. Ieri Alarm Phone ha saputo che “56 persone erano state rimpatriate in Libia a bordo di un peschereccio. Tra loro i corpi di 5 persone morte per sete e fame durante il viaggio. Sette persone mancano ancora all’appello. Secondo i sopravvissuti, l’equipaggio del peschereccio ha fatto loro credere che li avrebbero portati in Europa. Invece li hanno riportati in Libia”. E solo ieri pomeriggio “le autorità maltesi hanno ammesso pubblicamente di aver coordinato le operazioni”.
Del caso, scrive ancora Alarm Phone, erano informate le autorità europee “da 6 giorni” perchè Frontex aveva avvistato il natante il 10 aprile scorso. E da allora “Malta, Italia e tutti gli Stati europei che hanno missioni nel Mediterraneo centrale erano a conoscenza della situazione”. Nonostante ciò “non sono intervenuti ad assistere persone in difficoltà per quasi 72 ore di agonia in mare, in violazione della diritto internazionale del mare”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
MANCANO I BRACCIANTI AGRICOLI MENTRE UN MILIONE DI FAMIGLIE PERCEPISCE IL REDDITO DI CITTADINANZA: E’ COSI’ DIFFICILE FAR ALZARE QUALCUNO DAL DIVANO?
La “riforma dei centri per l’impiego”, parte essenziale del reddito di cittadinanza, non è mai decollata: i Navigator non hanno inciso e sono stati colpiti gli unici soggetti efficienti, le Agenzie per il lavoro.
Il reddito di cittadinanza è stata una delle riforme chiave del primo Governo Conte. Al di là delle valutazioni strettamente politiche su questa misura, è arrivato il momento di fare un bilancio sui risvolti occupazionali dell’intervento, che doveva costituire, almeno per una parte dei beneficiari del reddito, un “ponte” verso il rientro nel mercato del lavoro.
Questo ponte non è mai stato costruito e, a ben vedere, sono stati fatti dei passi indietro rispetto alla situazione precedente.
La “riforma dei Centri per l’Impiego”, che avrebbero dovuto essere rivoluzionati da un’App venuta dal Mississipi, portata in dote dal nuovo Presidente dell’Anpal Mimmo Parisi, non è mai stata nemmeno avviata.
Nessuna norma, nessun intervento organizzativo hanno modificato il sistema di funzionamento di queste strutture, a parte una sola, discutibile, misura: l’inserimento dei Navigator, una figura dai compiti poco chiari, il cui passaggio è stato a dir poco ininfluente (non si conosce un solo caso in cui i Navigator hanno inciso, almeno in parte, all’interno di un centro per l’impiego).
Figura che ha ingenerato anche un clamoroso paradosso: i Navigator sono stati “assunti” con il contratto di collaborazione coordinata e continuativa, di durata biennale.
E’ stato chiesto a questi ragazzi di cercare lavoro agli altri, ma il massimo che è stato offerto loro è stato un contratto precario.
Un altro fallimento riguarda l’App che avrebbe dovuto miracolosamente far decollare i Centri per l’Impiego. Tale App non è stata introdotta e, a dirla tutta, forse questa non è una cattiva notizia: basta fare un giro sul web per trovare decine di sistemi di questo tipo, già pienamente funzionanti, che sono gestiti da imprese private.
La creazione di un software pubblico avrebbe ingenerato costi aggiuntivi senza alcun reale beneficio per il mercato.
In questo scenario di mancate riforme, l’unica gamba del mercato del lavoro che erogava servizi efficienti alle imprese e ai lavoratori, le agenzie private per il lavoro, è stata colpita da provvedimenti durissimi (il Decreto dignità ) e non è stata coinvolta nella gestione dei servizi per l’impiego, nonostante esistano sul territorio esperienze di successo fondate sulla collaborazione virtuosa tra pubblico e privatoInsomma, sono clamorosamente fallite le “norme anti-divano”, quelle disposizioni che avrebbero dovuto imporre ai percettori del reddito di cittadinanza la ricerca attiva di un’occupazione.
Circostanza confermata in maniera efficace dalla notizia che l’agricoltura rischia di subire un blocco produttivo per carenza di braccianti, proprio quando i dati INPS raccontano che il numero di nuclei familiari che percepiscono reddito o pensione di cittadinanza si aggira intorno al milione.
Possibile che i due fenomeni non siano del tutto collegati (non è detto che ci percepisce il reddito sia in grado di fare il bracciante), ma una domanda “nasce spontanea”: era proprio impossibile tentare di far alzare qualcuno dal divano e proporre il lavoro stagionale?
(da agenzie)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
SHERIKAT, 26 ANNI, NATA IN NIGERIA, SI E’ ISCRITTA A UNA SCUOLA PER INFERMIERI E ORA PRESTA SERVIZIO COME OPERATIRCE SOCIO-SANITARIA
E’ arrivata a Taranto con un barcone carico di profughi nel dicembre 2015. Era partita dalla Libia, dopo settimane di attesa.
Oggi Sherikat è operatrice socio sanitaria nella casa di riposo del Comune di Milano in via Famagosta. Lì, in prima linea, dove gli anziani soffrono e perdono la vita per il coronavirus. Anche in questa struttura ci sono state vittime, anche se al momento non è nella lista di quelle messe sotto la lente di ingrandimento della procura.
La sua è una storia di normale integrazione, visto che Sherikat, da quando è arrivata in Italia, è riuscita ad avere il riconoscimento della protezione internazionale per motivi umanitari.
Dopo questo passaggio, si è iscritta a una scuola per infermieri e ha partecipato a un concorso per entrare subito a lavorare nelle Residenze sanitarie assistite pubbliche (Rsa). “Ogni giorno mi vesto con la tuta, indosso la mascherina e la visiera e vado in corsia – racconta in uno splendido italiano la ragazza che ha 26 anni ed è nata in Nigeria – Certo, questo è un molto momento difficile per l’Italia e per le persone anziane, ma io sono contenta di dare il mio contributo al Paese che mi ha accolto quando avevo bisogno. Mi piace il mio lavoro, sto bene con le persone avanti con gli anni”.
Sherikat abitava inizialmente in un centro d’accoglienza per migranti a Lonate. Dopo i decreti sicurezza è uscita e dall’ottobre scorso è ospite dela famiglia di un avvvocato che si occupa spesso di diritto delle migrazioni, Alberto Guariso.
“Anche per noi è una bella esperienza e vediamo che Sherikat è molto impegnata nel suo lavoro. Fa turni di molte ore consecutive ma non demorde, anche se sicuramente è sotto stress come tutti quelli che lavorano nelle Rsa”, dice Guariso.
Sherikat racconta che nella struttura dove lavora ci sono 285 anziani: “Tutti abbiamo paura in questi giorni con le notizie che ci sono. Abbiamo colleghi che si sono ammalati, il personale oggi è molto ridotto, si lavora come in trincea. Gli anziani sanno quello che succede fuori, hanno paura anche loro, ma soprattutto sono preoccupati per i loro parenti che non vedono da diverse settimane. Noi li facciamo parlare con i figli attraverso le videochiamate, cerchiamo di tranquillizzarli, ma certo sono giorni di grande angoscia per tutti”.
Lei comunque non si tira indietro: ogni giorno va al lavoro, si mette tutte le protezioni e la sera le toglie per tornare a casa. Al viaggio in barcone per arrivare in Italia cerca di non pensare più: “E’ lontano nel tempo, anche se quel ricordo mi fa sempre soffrire. Ma oggi penso di più alla mia famiglia che è in Nigeria: non li sento da molti mesi e non so come sta andando lì l’epidemia. Spero stiano tutti bene, mentre io sono qui ad aiutare i parenti di altre persone. Spero che questo sacrificio serva per costruirmi un futuro in questa città che ora sento come casa mia”
(da “La Repubblica”)
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Aprile 16th, 2020 Riccardo Fucile
FONTANA VUOLE RIAPRIRE TUTTO PERCHE’ HA PAURA DI PERDERE CONSENSI
Riaprire!, No, chiudere!, Riaprire, no, chiudere, oggi sì, domani no, domani boh.
Il caso del presidente della Lombardia Attilio Fontana — risoluto e tetragono a corrente alternata — ha già tutte le caratteristiche per essere studiato domani nelle facoltà di politologia, quando questi giorni folli saranno finiti, come un mirabile esempio di auto-dissipazione.
Una sorta di Dottor Jeckyll e Mister Hide ai tempi del Covid, un suicidio amministrativo a mezzo ordinanza. In questa tormentata vicenda la politica ovviamente non c’entra nulla, la tenuta psicofisica e la lucidità probabilmente sì. Il virus ha fatto cadere ogni distinzione tra destra e sinistra nelle politiche di contrasto, tendendo alte quelle tra buonsenso e follia, tra isteria e calma.
Al contrario del suo collega Luca Zaia, che pure è uomo del Carroccio come lui, Fontana non ne ha azzeccata una.
Zaia, miglior espressione di una storica anima del leghismo, quella pragmatica (che ha sempre convissuto con quella ideologica), proprio in nome di questa tradizione di efficienza amministrativa, ha preso una strada e non l’ha più mollata: test e tamponi, monitoraggio e tracciatura. Da due mesi sta tenendo questa rotta, con coerenza quasi ossessiva. Si può criticarlo — forse — ma non certo rimproverarlo sulla linearità e la consequenzialità delle sue scelte.
E poi il governatore del Veneto ha maturato una idea, coltivata nel tempo, costruendo le condizioni per poterla attuare: riaprire in sicurezza.
Non bisogna dimenticare che proprio in Veneto — esattamente come in Lombardia — era stata proclamata la prima zona rossa d’Italia. Poi i destini — di sicuro anche per altri fattori — si sono separati e la forza nei numeri si è fatta tirannica nei suoi verdetti: il tasso di mortalità del virus in Lombardia oggi è del 18 per cento, quello del Veneto è del 6.1 per cento, uno dei più bassi, il quintultimo in Italia (in condizioni migliori ci sono solo Molise, Lazio, Basilicata e Umbria).
Quindi la Lombardia oggi produce le cifre più preoccupanti nella spettrografia pandemica, sia in numeri assoluti che in percentuale, sia per numero di contagi che per numero di morti assoluti, sia per tasso percentuale di mortalità . Quindi il tema è che Zaia non solo ha preso una linea coerente, ma ha costruito anche le condizioni per poterla attuare. Fontana — invece — da mesi continua a procedere a zig zag con clamorose capriole che hanno creato disorientamento, sopratutto in chi gli sta vicino: improvvisa di ora in ora.
Solo martedì scorso (non un anno, ma due giorni fa!) il governatore della Lombardia nella sua regione aveva azzerato la cauta disposizione del governo sulla riapertura delle librerie. Troppi rischi di contagio, aveva detto Fontana, troppi potenziali contatti, e le serrande erano rimaste abbassate per 10 milioni di italiani.
Chiunque può giudicare come in due giorni non sia cambiato assolutamente nulla, dal punto di vista dei numeri del contagio. E che quindi è davvero incredibile che la stessa giunta secondo cui non c’erano le condizioni per gestire la riapertura (sia pure in esercizi “a traffico ridotto”), difficilmente potrebbe sostenere l’idea di “riaprire tutto”.
Tuttavia è esattamente questo il punto: Fontana adesso dice che vuole riaccendere tutte le attività , comprese quelle industriali, in sole due settimane, esattamente come fino a 48ore fa voleva chiudere ogni cosa in nome della riduzione del contagio. Fontana ha rimproverato al governo di non aver chiuso la famosa zona rossa di Bergamo, ma ha platealmente ignorato che il governo, da una settimana, lo invitava a procedere in autonomia se ne ravvisava gli estremi. La chiusura della Lombardia — come è noto — alla fine è stata decisa, sempre dal governo, con un provvedimento deciso a livello centrale.
Mentre faceva queste pressioni sul governo nazionale perchè altri prendessero le decisioni che lui non aveva il coraggio di prendere (avrebbe voluto dire mettersi contro gli imprenditori e la Confindustria regionale), tuttavia, la Lombardia teneva un atteggiamento del tutto divergente nella sua gestione dell’emergenza soprattutto sul piano sanitario, con le direttive che qui su TPI abbiamo documentato con carte e documenti, che sono diventati l’origine di veri e propri disastri (a partire dalla gestione dell’ospedale di Alzano Lombardo).
La Lombardia cercava grandi successi di immagine di sapore “autonomista”, e per fare questo, dopo tanti scivoloni, ha provato a cavalcare la vicenda dell’ospedale della Fiera cercandolo di trasformare “nell’ospedale dei lombardi”, un successo “dei lombardi”, l’ospedale “che ci paghiamo noi con i soldi nostri”, proprio mentre lo allestivano con i respiratori messi a disposizione (come era giusto) dal governo, e richiesti personalmente da Guido Bertolaso, poco prima di ammalarsi, al ministro Boccia.
Nelle stesse ore un terzo di tutti i respiratori acquistati dallo Stato italiano (come era giusto) venivano destinati in Lombardia, suscitando anche i malumori degli altri governatori. E nelle stesse ore, voli di medici e infermieri volontari — organizzati da governo e Protezione Civile — arrivavano in Lombardia per sostenere gli ospedali più colpiti.
Nonostante questo, da Fontana, proprio mentre con una mano chiudeva e otteneva, con l’altra arrivavano proteste e invettive “contro Roma”. Anche in questo caso, la differenza con Zaia era abissale: il governatore del Veneto non ha mai fatto lagne, mai creato polemiche artificiose, e anche quando aveva posizioni diverse (come è legittimo) da quelle del governo centrale, il massimo della polemicità che si è consentito è stata “Non è questo il momento di fare polemiche” (come ha risposto in una intervista a #CartaBianca solo dieci giorni fa).
Il punto adesso è: anche chi da tempo sostiene l’ipotesi di una “fase 2 intelligente” da applicare nei tempi più stretti possibili, non può non domandarsi come si possa passare dall’idea di una “chiusura totale” a quella di una “riapertura totale” in sole 24 ore, e per giunta proprio nella regione più contaminata d’Italia.
La spiegazione è molto semplice: i timori per il consenso in Lombardia stanno determinando le scelte sanitarie della giunta. Mentre, casomai — come nel caso del Veneto — dovrebbe essere esattamente il contrario: solo azzeccando le mosse giuste si può sperare, legittimamente, di costruire consenso.
Ma Fontana in questo momento ha avvertito le pressioni (comprensibili) dei settori produttivi, ha registrato le dinamiche della Confindustria (dove Licia Mattioli, la sfidante del candidato “lombardo” Bonomi, è una aprituttista convinta), si è accorto che il movimento delle “riaperture spontanee” (con i nulla osta, senza veri permessi e con gli escamotages più disparati) abbia preso piede sul suo territorio, in modo diffuso, nelle piccole imprese e negli esercizi, sostenuto dalla forza della disperazione.
Il governatore ha capito — in una parola — di non essere più in sintonia con il suo popolo, e — al contrario — che la linea “ideologica” del chiudere tutto, era invisa ai suoi stessi elettori.
Così, mentre fino a ieri cercava consenso con la paura, presentandosi come il campione dei “chiudituttisti” e costruendo la sua polemica contro Roma, all’insegna di un rigore securitario, adesso Fontana ribalta tutto, cambia linea e diventa disinvoltamente “aprituttista”, con l’idea di recuperare il consenso che stava perdendo. È una scelta disperata, che non può invertire la tendenza: nel breve o nel lungo periodo, infatti, qualcuno si presenterà alla cassa a chiedere il conto.
E in tempi di follia — come sappiamo — l’unica moneta che paga sempre è la coerenza.
(da TPI)
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