Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
SE SI VOGLIONO MANTENERE LE DISTANZE DI SICUREZZA SUI BUS NON POSSONO SALIRE PIU’ DI 15 PERSONE, IL CHE VUOL DIRE TRIPLICARE LE CORSE E AVERE UN ADDETTO A BORDO COME FILTRO… MA NON CI SONO I BUS E NEPPURE GLI AUTISTI, INUTILE RACCONTARE BALLE
Naso e bocca dovranno obbligatoriamente essere coperti con una mascherina, anche di stoffa, su autobus e metro. E’ l’indicazione che sarebbe emersa alla fine delle diverse riunioni odierne fra tecnici e politici sulla fase 2.
Le nuove misure sono attese nel Dpcm sulle riaperture, in parte sotto forma di articoli che integrano il protocollo del 20 marzo (che viene allegato al Dpcm) e in parte come linee guida del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Tra le novità , ci sarebbe l’introduzione di termoscanner non solo nelle grandi stazioni e negli hub aeroportuali, ma in tutte le stazioni e gli aeroporti del paese.
Inoltre, verrebbe previsto per i mezzi di trasporto collettivo (dai treni alle navi, dagli aerei a bus e metro) l’obbligo sia del distanziamento sociale che della mascherina, anche che non saranno quindi in alternativa fra loro.
Rimarrebbe invece sospeso almeno all’inizio il servizio di ristorazione e bar sui treni a lunga percorrenza e nelle stazioni, in attesa di sciogliere il nodo sulla riapertura di queste attività .
Inoltre, per risolvere il problema delle ore di punta, che affliggono soprattutto le grandi città , è previsto il prolungamento dell’orario di apertura degli uffici e dei servizi pubblici, con rimodulazione dell’orario di lavoro anche in termini di maggiore flessibilità .
Particolarmente delicato poi, il nodo del trasporto pubblico di linea, per il quale si punta a diverse misure. Si va dal contingentamento degli accessi sui mezzi e nelle stazioni, porti e aeroporti, alla vendita di biglietti con sistemi telematici o self-service (o, in assenza, di modalità che garantiscano la distanza di almeno un metro tra addetto alla vendita e utente).
Previsti inoltre specifici piani per limitare le occasioni di contatto nella fase di salita e discesa dal mezzo di trasporto, così come nelle aree destinate alla sosta dei passeggeri e durante l’attesa del mezzo nelle stazioni, negli aeroporti e nei porti.
Verranno installati dispenser di disinfettanti per i passeggeri sui mezzi a lunga percorrenza, ma anche nelle stazioni, negli aeroporti e nei porti. Inoltre, verranno forniti dispositivi di protezione al personale viaggiante e quello impiegato in attività a diretto contatto con il pubblico e si prevedono misure organizzative nei luoghi di lavoro per assicurare il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro.
(da agenzie)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
IL GOVERNO SA BENE CHE IL SISTEMA NON E’ ANCORA PRONTO MA NON INTENDE RINVIARE LA FASE DUE, UN AZZARDO CHE POTREBBE COSTARE ALTRE CENTINAIA DI VITTIME
Con l’avvicinarsi della fatidica data del 4 maggio crescono le aspettative e le attese dei cittadini per la fine del lockdown, o almeno per l’allentamento di buona parte delle misure di contenimento adottate per arrestare la diffusione del coronavirus.
La pressione sul governo e sui governatori regionali arriva anche dai rappresentanti delle categorie produttive e dagli stessi sindacati, soprattutto dopo la firma del protocollo per la sicurezza sui luoghi di lavoro che subordina la ripresa delle attività a “condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione”.
L’esecutivo, però, pur confermando la volontà di avviare la fase due nei tempi già programmati (con qualche riapertura già da lunedì 27 aprile), continua a predicare prudenza, sulla scorta di due ragionamenti che si intersecano: la preoccupazione per la lentezza con cui calano contagi e morti malgrado quasi 50 giorni di lockdown (con la spia che resta rossa in almeno 4 Regioni); la consapevolezza dei tempi lunghi e dei problemi per l’attuazione dei piani che consentano la riapertura in tutta sicurezza.
Ci sono molti riscontri oggettivi sul fatto che il lockdown abbia funzionato, contribuendo al raggiungimento di un “picco artificiale dei contagi” (per usare le parole di Rezza) intorno alla fine di marzo / inizio aprile nelle Regioni più colpite.
Il calo, però, è stato meno significativo di quanto si potesse sperare, per ragioni che non siamo ancora riusciti a isolare con precisione.
Se è vero che più che di nuovi contagi giornalieri sarebbe opportuno parlare di nuove “notifiche di contagio” allo stesso tempo restano molti punti interrogativi sui luoghi in cui e i modi con cui l’epidemia continua a diffondersi.
L’ISS sottolinea il peso dei contagi intrafamiliari (che non sappiamo ancora come gestire), ma ci sono riscontri anche su nuovi focolai in ospedali e case di cura, nonchè sull’incidenza dei luoghi di lavoro per la trasmissione del COVID-19 (alcune stime parlano del 10%).
Il numero dei morti che si registra ogni giorno è un altro elemento di preoccupazione
Le buone notizie arrivano, invece, dal lento ma costante decongestionamento di ospedali e terapie intensive, anche grazie agli sforzi fatti in queste settimane per quel che concerne l’adeguamento delle strutture e la messa in sicurezza dei reparti.
Complessivamente, insomma, appare pacifico che le misure di contenimento abbiano parzialmente limitato i danni (sia pure con effetti diversi nelle varie Regioni e province), determinando però un equilibrio molto delicato, che sconsiglia operazioni azzardate.
(da Fanpage)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
UNA CARRELLATA NEGLI ALTRI PAESI ALLE PRESE CON L’EMERGENZA COVID-19
Se non altro, il dilemma che da giorni assilla il Governo italiano è lo stesso per tutti: come coniugare il bisogno di riattivare l’economia e il principio di massima precauzione richiamato dalla comunità scientifica, per farne decisione politica.
È così che la Fase 2 procede — o si avvicina – a tentoni, in ordine sparso, un po’ in tutti gli angoli del Globo, mentre il numero dei morti continua a salire: secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità , sono 120 mila le vittime solo in Europa, con il numero mondiale ormai attestato su quota 200 mila.
E mentre il comportamento del virus resta per molti versi ancora un mistero, i dati economici parlano chiaro e spingono i vari governi a tentare una strada per la riapertura, tra passi falsi, polemiche e rischio ricadute.
Belgio come l’Italia: Fase 2 dal 4 maggio, ma c’è un piano per le scuole
In Belgio, duramente colpito con quasi 7 mila morti, la fase 2 scatterà il 4 maggio, come in Italia e in Grecia. Il piano sarà graduale e potrà subire modifiche, battute d’arresto o marce indietro a seconda dell’andamento della pandemia, ha avvertito la premier Sophie Wilmes, sottolineando che “nessuna data è incisa nella pietra”.
Dal 4 obbligo di mascherina sui trasporti pubblici dai 12 anni in su. Il Governo si impegnerà a distribuire a ciascun cittadino mascherine di stoffa lavabili e certificate. Riapriranno industrie e servizi per i professionisti, ma il telelavoro dovrà rimanere la norma. Possibile fare attività fisica all’aperto, nel rispetto delle distanze, anche con due persone che non abitano nella stessa casa. L′11 maggio è la data indicata per tutti i negozi.
A differenza dell’Italia, però, il Governo belga ha previsto un piano anche per la riapertura graduale delle scuole. Si inizierà il 18 maggio dalle classi alla fine di ogni ciclo, con un numero massimo di dieci alunni per classe; ogni studente dovrà disporre di quattro metri quadrati di spazio di distanza l’uno dall’altro. I sindacati si interrogano sulla fattibilità delle misure annunciate.
Polemiche che riecheggiano quelle in corso in Francia e in altri Paesi, dalla Danimarca alla Germania.
Qui alcuni negozi hanno riaperto i battenti già lunedì scorso, come anche alcuni licei per permettere lo svolgimento degli esami di maturità .
A frenare l’intraprendenza di alcuni Là¤nder, anche alla luce di una lieve risalita dei contagi, è stata la stessa cancelliera Angela Merkel, che ha messo in guardia dai rischi di avere “troppa fretta” nella Fase 2.
In Francia, dove il piano verrà presentato martedì, si va verso l’obbligo di mascherine e distanze di sicurezza nei trasporti pubblici, mentre per le scuole si prevede una riapertura (per chi vuole, senza obbligo) a partire dall’11 maggio.
Negli Usa riaperture in ordine sparso
“Negli Usa la Fase 2 è iniziata, ma nessuno sa bene cosa accadrà dopo”, titola oggi il New York Times, che fa una mappatura delle riaperture nei vari stati d’America, dove i morti sono ormai più di 52mila.
Dopo settimane di lockdown – e mentre il presidente Donald Trump continua a stupire nel suo “approccio” alla pandemia – in alcuni Stati i governatori hanno autorizzato le prime riaperture, a cominciare da spiagge e parchi statali per arrivare alle singole attività commerciali.
In South Carolina, ad esempio, hanno riaperto i battenti i negozi al dettaglio, mentre la Georgia ha dato il via libera — a certe condizioni — a saloni di bellezza e tatuaggi. In Alaska hanno riaperto anche i ristoranti, che però possono accettare clienti solo su prenotazione e occupare al massimo il 25% dello spazio disponibile.
La Georgia è tra gli Stati più temerari: il piano del governatore Kemp prevede la riapertura di saloni per unghie e capelli, ma anche di bowling, cinema e altri luoghi di intrattenimento.
Tra i requisiti richiesti per lavorare, lo screening della temperatura. In Oklahoma, dal primo maggio, potranno riaprire — con alcune restrizioni – i luoghi di culto, le palestre e i centri sportivi, oltre ai saloni di toelettatura per gli animali.
In South Carolina – uno degli ultimi Stati a imporre limitazioni — già da questa settimana hanno riaperto i negozi al dettaglio, con il limite del 20% della loro capacità . Altri Stati si preparano a mettere fine al lockdown entro la fine del mese, linea del rigore per New York, California, Illinois.
Prime riaperture in India, dove la fame preoccupa più del virus
In India, dopo oltre un mese di lockdown, il governo ha permesso la riapertura dei negozi al dettaglio, ferme restando le indicazioni su distanziamento sociale e uso di mascherine. Le chiusure restano invece in atto per i centri commerciali e le aziende che hanno sede nei focolai epidemici.
Sulla carta i morti di Covid-19 sono 780, ma il bilancio reale è verosimilmente molto più pesante. Il punto è che più ancora della pandemia, preoccupa il tracollo economico di milioni di lavoratori, molti dei quali già costretti all’esodo dalle grandi città perchè privati di qualsiasi mezzo di sostentamento.
Secondo diversi analisti, l’India è uno di quei Paesi in cui la fame rischia di uccidere più del virus Sars-Cov-2.
Il caso Iran: contagi in aumento dopo le riaperture
I funzionari iraniani hanno ammesso oggi di essere preoccupati per una recrudescenza dell’epidemia in Iran, il Paese più colpito del Medio Oriente. Nel primo giorno del Ramadan, il Ministero della Salute ha annunciato altri 76 morti che portano il bilancio ufficiale dell’epidemia a 6.650 morti.
Lo Stato ha autorizzato dall′11 aprile molte aziende a riaprire gradualmente, ma i funzionari sanitari hanno avvertito di nuove ondate di infezioni, dopo il rallentamento registrato a inizio aprile. Alirèza Zali, a capo della task force anti Covid di Teheran, ha criticato la “riapertura affrettata”, affermando che “potrebbe favorire nuove ondate di malattia nella capitale e complicare il controllo dell’epidemia”.
Brasile, il virus nelle favelas
Dal Medio Oriente all’Africa, fino all’America Latina, la pandemia fa strage soprattutto laddove povertà e arretratezza non mettono neanche in campo la scelta tra sicurezza sanitaria e fame. Complice, in molti casi, una gestione sconsiderata dell’emergenza. È il caso del Brasile.
A portare il virus nel Paese sudamericano sono stati i membri della classe media e alta, al ritorno dalle vacanze di febbraio in Europa o negli Stati Uniti. A Rio e San Paolo, molte delle prime infezioni si sono concentrate nei quartieri più ricchi, come Copacabana e Gà¡vea.
Poi, con il passare delle settimane, l’epidemia si è estesa nelle metropoli, fino ad arrivare nei quartieri più poveri e nelle favelas, che stanno pagando un prezzo altissimo per i ritardi e l’inazione del governo guidato dal presidente Jair Bolsonaro. Le vittime accertate di Covid-19 sono già più di 3.700, ma i numeri reali — come suggeriscono le immagini devastanti delle fosse comuni scavate a Manaus — rischiano di essere di gran lunga superiori.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
STORIA DI UN POLLO CHE SI CREDEVA UN’AQUILA… LO STUDIO CHE DIMOSTRA CHE CHI E’ CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO
Con la crisi economica all’orizzonte, gli italiani hanno riscoperto il loro rapporto bipolare con l’Unione europea.
Secondo la vulgata corrente, l’Unione europea (alleata) ci “deve” prestare (o regalare?) denaro per far fronte all’emergenza Covid-19, e “ce lo deve” come risarcimento materiale per le politiche neoliberiste di austerità fiscale che ci ha imposto, sfruttandoci ed impoverendoci.
L’epitome di questa narrazione è rappresentata dal recente editoriale di Alessandro Di Battista sulle colonne de Il Fatto Quotidiano.
L’attivista pentastellato si scaglia contro l’austerity, da lui definita come la strategia “elaborata dal sistema finanziario mondiale per indebolire gli Stati e costringerli allo smantellamento del welfare”, e contro l’Europa, da lui etichettata come la “continuazione del neo-liberismo con altri mezzi”.
Ma è davvero così? Davvero l’Europa, con la sua austerità neoliberista, ha imposto all’Italia un trattamento da “figlia della serva” rispetto alle altre Nazioni?
Per rispondere a tale domanda, abbiamo pensato di confrontare gli ultimi 30 anni di politiche fiscali di Italia e Belgio.
Belgio e Italia raccontano due storie possibili di come si possa intraprendere un percorso di consolidamento strutturale delle finanze pubbliche.
In un caso — quello belga — “facendo i compiti a casa”, consolidando i conti pubblici e garantendo ugualmente elevati livelli di Spesa Sociale.
Nell’altro caso — quello italiano — non “facendo i compiti a casa”, non mettendo in sicurezza la struttura della finanza pubblica negli anni grassi, e ritrovandosi per questo con meno risorse da destinare agli ammortizzatori sociali negli anni di magra.
Nel 1994, due anni dopo la firma del Trattato di Maastricht, Belgio e Italia erano due Paesi in condizioni economiche molto simili: entrambi presentavano dei livelli di rapporto tra il debito pubblico e il Pil incompatibili col criterio del 60% sancito dal Trattato — l’Italia al 127%, il Belgio al 136% — ed entrambi avevano avviato un percorso di riduzione del medesimo.
Inoltre, entrambi i Paesi si stavano lasciando alle spalle la sostanziale stagnazione dei primi anni ’90, entrando nella fase espansiva della seconda metà della decade
Per cominciare è evidente l’infondatezza della narrazione vittimistica secondo cui all’Italia sarebbero stati richiesti sacrifici di politica fiscale sproporzionati rispetto agli altri Paesi membri.
Difatti, considerando il livello di indebitamento strutturale italiano e belga, emerge come nel periodo 1992-2007 l’Italia abbia osservato livelli di rigore fiscale inferiori a quelli del Belgio.
In particolare, nonostante nel corso degli anni ’90 entrambi i Paesi avessero avviato (pur con differenti livelli di efficacia) un percorso di miglioramento del saldo strutturale di finanza pubblica, con l’arrivo degli anni 2000 i due Paesi hanno preso scelte decisamente divergenti.
Infatti, mentre il Belgio chiudeva tutti gli esercizi tra il 2000 ed il 2007 in sostanziale pareggio di bilancio strutturale, l’Italia si concedeva ben 8 anni di prodigalità , registrando livelli di indebitamento strutturale sempre superiori al 3% (con punte del 4,5% nel triennio 2003-2005).
Quindi, tiriamo una prima conclusione: nel periodo 1992-2007 il Belgio ha praticato un’austerità fiscale superiore a quella italiana, come si evince dalla dinamica dell’indebitamento strutturale e del livello del debito pubblico dei due Paesi.
Ma quali sono stati gli effetti di tale austerità ? Il Belgio ha smantellato il proprio Welfare State?
Nel periodo 1992-2007, mentre stabilizzava il proprio debito, il Belgio conservava comunque livelli di spesa per Protezione Sociale (cioè il complesso dei trasferimenti a poveri, disabili, famiglie, disoccupati, anziani, ecc.) in proporzione al Pil costantemente più elevati di quelli italiani.
Questo ci porta ad una seconda conclusione: non è vero che un percorso di consolidamento fiscale implichi necessariamente lo smantellamento delle tutele sociali; al contrario, il livello di Spesa Sociale belga ha attraversato indenne i 15 anni di assestamento fiscale, espandendosi poi ulteriormente in risposta alla recessione del 2009.
Ma quindi, è completamente infondata la percezione italiana di uno Stato Sociale che ha abbandonato il cittadino? Sì e no, a seconda di quale gruppo sociale viene considerato.
Se è vero che l’Unione europea ha richiesto degli aggiustamenti strutturali ad Italia e Belgio, è però altrettanto vero che i due Paesi hanno conservato la loro sovranità fiscale. In altri termini, l’Europa non impone vincoli sulla composizione della politica fiscale — ovverosia il livello di pressione fiscale, il livello e la composizione della spesa pubblica, ecc. — degli Stati Membri.
Ed è qui che entrano in gioco le scelte politiche dei due Paesi.
il Belgio, negli ultimi 15 anni, ha sempre destinato rispetto all’Italia una quota superiore del proprio Pil alla Spesa Sanitaria, con un differenziale che è andato allargandosi negli ultimi 10 anni e che valeva l’1,5% del reddito nazionale nel 2018.
Analogamente l’evoluzione della Spesa Assistenziale (a beneficio di disoccupati, disabili e famiglie) nei due Paesi, dipingendo anche qui un quadro di scelte politiche profondamente diverse.
Infatti, mentre il Belgio nel periodo 1990-2015 ha sempre speso tra il 7% e il 9% del Pil in assistenza, l’Italia ha oscillato tra il 2,7% ed il 4,8%.
Al 2015 — ultimi dati disponibili — la differenza tra i due Paesi era pari al 3,9% (4,8% in Italia, 8,7% in Belgio).
Come è possibile — ci si chiederà — che il Belgio abbia mantenuto livelli di Spesa Sanitaria e Assistenziale di gran lunga superiori a quelli italiani, riuscendo nel contempo ad ottenere delle performance di finanza pubblica di gran lunga migliori di quelle del Bel Paese?
Tra il 1992 ed il 2007, il Belgio faceva i “compiti a casa” (senza intaccare la quota di Pil destinata alla Spesa Sanitaria e Assistenziale), manteneva la Spesa Pensionistica intorno al 9% del Pil.
Negli stessi anni, al contrario, la spesa pensionistica italiana aumentava dal 12,5% del 1992 al 13,8% del Pil. Questo trend si è confermato poi anche negli anni più recenti, consegnandoci per il 2015 una Spesa Pensionistica italiana superiore del 5,5% a quella belga (16,2% contro 10,7%).
Quindi, tornando al quesito che ha aperto questa sezione: lo Stato Sociale è stato smantellato dall’austerità ?
In termini complessivi, la risposta è un chiaro ed inequivocabile “no”.
Infatti, nel periodo 2008-2018 — i cosiddetti “anni di austerità e rigore” — entrambi Paesi hanno aumentato la propria Spesa Sociale; inoltre, a ben guardare, l’Italia l’ha aumentata leggermente di più del Belgio (2,8% l’incremento italiano, 2,6% quello belga).
Ma allora, perchè si ha la percezione che l’austerità abbia smantellato il Welfare State? Perchè la Spesa Sociale è sì aumentata, ma non per tutti. Una sola categoria, durante questo decennio, è stata privilegiata e salvaguardata: i pensionati.
Dal 2008 in avanti (ma, a ben guardare, addirittura dal 2000), quel che l’Italia ha speso in più del Belgio per i propri pensionati — in percentuale — il Belgio l’ha speso in più dell’Italia per il proprio sistema sanitario ed assistenziale.
L’Italia, come il Belgio, ha scelto dove spendere le proprie risorse, e ha scelto di privilegiare le pensioni contro tutte le altre voci di Spesa Sociale. L’ha scelto democraticamente e liberamente: per questo non ha altri che sè stessa da incolpare se ora il risultato non sembra soddisfacente.
L’autocommiserazione, unita ad una sorta di mania di persecuzione (“solo a noi…”), ha pervaso il dibattito politico italiano degli ultimi anni, e riemerge oggi — con maggiore virulenza — all’aggravarsi del cronico stato di crisi a cui pare che il Paese si sia rassegnato. Sembra, in poche parole, che gli italiani siano incapaci di comprendere ed accettare i propri errori e preferiscano negarli o, peggio, imputarli a cause al di là del loro controllo. I dati che abbiamo esposto ci mostrano chiaramente (almeno) due evidenze.
La prima: un’altra Italia sarebbe stata possibile se, negli ultimi 30 anni, l’elettorato avesse avuto il coraggio di correggere l’evidente sbilanciamento a favore delle pensioni nel nostro Welfare State, riconoscendo che, senza una radicale revisione della normativa pensionistica, il sistema non avrebbe potuto reggere — rendendo necessario sacrificare altre voci di Spesa Sociale.
La seconda: l’Europa non si è accanita sull’Italia in modo particolare — dacchè il medesimo rientro dal debito eccessivo è stato richiesto al Belgio, e da questo parzialmente completato — nè ha imposto alcuna forma di smantellamento dello Stato Sociale.
Il Belgio, infatti, pur facendo i “compiti a casa”, ha ugualmente conservato un sistema di protezione sociale addirittura più vasto dell’Italia — la cui Spesa Sociale, vale la pena ricordarlo, è comunque aumentata (e non diminuita) negli ultimi 30 anni.
L’Europa, semplicemente, aveva chiesto che, pur nelle sovrane scelte di politica fiscale, la dinamica del debito fosse sostenibile nel tempo.
Se poi un Paese (l’Italia) ha deliberatamente e sovranamente scelto di “macellare” il proprio Stato Sociale per garantire sempre più ampie risorse ad una clientela elettorale (i pensionati e i pensionandi), quel Paese non ha che da biasimare sè stesso.
(da TPI)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
LO STUDIO DEI RICERCATORI DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW, TENEDO PRESENTE ASPETTATIVA DI VITA E MALATTIE PREGRESSE DELLE VITTIME
Sono circa 200 mila i morti da Coronavirus nel mondo.
E gli scienziati dell’Università di Glasgow, in Scozia, si sono posti una domanda: come si può tradurre questo numero in termini di anni di vita persi?
Lo studio è stato portato avanti utilizzando i dati delle vittime di Covid-19 registrate in Italia. Il risultato è che se le persone morte non avessero contratto il virus avrebbero vissuto in media 10 anni in più.
«Poichè la maggior parte delle persone che muoiono a causa del Covid-19 sono anziane e con malattie croniche sottostanti — ha spiegato il dottor David McAllister, a capo del team di ricercatori -, alcuni hanno pensato che il numero effettivo di anni vita persi con l’epidemia fosse relativamente basso».
Gli scienziati hanno dichiarato di aver avvertito la necessità di portare avanti una ricerca di questo tipo perchè l’opinione pubblica tende a sottovalutare il rischio di questa malattia, credendo che siano solo gli anziani a dover preoccuparsi del coronavirus. «Questo tipo di risultati sono importanti per assicurarsi che i governi e i cittadini non sottovalutino gli effetti del Covid-19».
Per arrivare alla stima dei 10 anni di vita persi in media dalle vittime del coronavirus, i ricercatori hanno incrociato i dati relativi all’età dei deceduti e alle patologie croniche pregresse. Poi, basandosi sulle tabelle dell’aspettativa di vita stilate dall’Organizzazione mondiale della sanità per ciascuno dei casi clinici, hanno scoperto che le vittime di Covid-19, in media, avrebbero potuto vivere per altri 10 anni.
«Tra le vittime di Covid-19 — ha concluso McAllister -, il numero di anni vita persi appare simile a quello dei malati di cardiopatie coronariche». Lo studio dell’Università di Glasgow è in attesa di una peer review — o revisione paritaria -, ma è stato già pubblicato sulla piattaforma Wellcom Open Research.
(da agenzie)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
“NON CI SONO EVIDENZE PER POTER GARANTIRE UN PASSAPORTO DI IMMUNITA'”
Non ci sono ancora prove scientifiche che le persone che sono guarite dal Covid-19 abbiano anticorpi che proteggono da una seconda infezione.
Lo ricorda l’Oms in un documento appena pubblicato, secondo cui “a questo punto della pandemia non ci sono abbastanza evidenze sull’efficacia dell’ immunità data dagli anticorpi per garantire l’accuratezza di un ‘passaporto di immunità ‘ o un ‘certificato di libertà dal rischio’”.
Alcuni governi, spiega l’Organizzazione, hanno suggerito che trovare gli anticorpi al Sars-CoV-2 possa servire come base per un ‘passaporto di immunità ‘ che può permettere agli individui di viaggiare o di tornare al lavoro con l’assunzione che siano protetti da una reinfezione.
“Molti degli studi hanno mostrato che le persone che sono guarite dall’infezione hanno gli anticorpi per il virus. Tuttavia alcuni di questi – scrive l’Oms – hanno livelli estremamente bassi di anticorpi neutralizzanti nel sangue. Al 24 aprile 2020 nessuno studio ha valutato se la presenza degli anticorpi da Sars-CoV-2 possa dare immunità ad una successiva infezione nell’uomo”.
(da agenzie)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
LA POLITICA RIDICOLA DI CHI DEVE SPECULARE SUL NULLA… SIA I TRENTA CHE VOLEVANO CELEBRARE IL 25 APRILE CHE I VENTI DI CASAPOUND CHE INAUGURAVANO LA SEDE DI OSTIA NON HANNO COMMESSO ALCUN REATO… CHE BELLO SAREBBE UNA DESTRA CHE IMPARASSE A FARSI I CAZZI PROPRI
I sovranisti gridano allo scandalo — da Matteo Salvini ad Alessandra Mussolini, da Maurizio Gasparri a Giorgia Meloni – denunciando “assembramenti” nella Capitale in occasione della Festa della Liberazione. Polemiche che da sinistra respingono come “una cagnara inaccettabile”.
Nel mirino c’è un solo raduno avvenuto nel quartiere Pigneto, dove – secondo Adnkronos – trenta persone si sono riunite in piazza Alessandrino malgrado i divieti. Sul posto è intervenuta la polizia, che ha invitato tutti a tornare a casa e così la folla si è dispersa e le persone sono andate via.
Dal video si nota che c’era qualche famiglia e tra una fila e l’altra diversi metri di distacco. Quando gli agenti hanno fatto presente che il presidio non era possibile si sono sciolti subito senza creare alcun problema.
Un banale episodio che ha dato il via a un coro di prefiche che nelle agenzie di stampa si lamenta all’unisono per le 30 persone con le bandiere tricolori alla periferia di Roma che si erano riunite per festeggiare il 25 aprile
Per Salvini “mentre gli italiani sono costretti a stare in casa, a quelli con la bandiera rossa tutto è possibile”
Per Gasparri si è trattato di “una vera e propria adunata illegale con intere famiglie e qualche striscione di commemorazione del 25 aprile”. “Un fatto gravissimo che deve essere immediatamente punito con l’arresto dei responsabili dei centri sociali promotori di questa vergognosa e sovversiva iniziativa”
Segue Meloni: “Guardo le immagini delle manifestazioni organizzate oggi dai tesserati dell’Anpi, dalla sinistra e dai centri sociali e comprendo l’incredulità , e lo sdegno, dei tantissimi italiani che mi stanno scrivendo”.
“Immagini da Roma …. una sola parola: vergognatevi! e si vergogni ancora di più chi ha permesso a questa gente di manifestare” sostiene invece il senatore della Lega Gian Marco Centinaio
In tutto ciò però c’è un problema.
Ovvero la passeggiata di Luca Marsella e altri di Casapound di oggi: “CasaPound apre la sede di Ostia. Se è concesso all’Anpi di festeggiare il 25 aprile, nessuno può impedirci oggi di stare al fianco del nostro popolo”. Con relativo video di una ventina di militanti di Casapound in piccolo corteo verso la sede, anche qui mantenendo le distanze di sicurezza. Per loro niente indignazione dei suddetti sovranisti?
In pratica non è successo nulla di illegale, nè da una parte nè dall’altra, tanto rumore per nulla.
In attesa che in Italia possa un giorno esservi una destra con almeno una qualità : la capacità di farsi i cazzi propri.
(da agenzie)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
LE ULTIME MOSSA DA DISPERATO: SPARISCE LA PAROLA “IMMIGRATO” E SPUNTA “LIBERALE” MA NON FUNZIONA DIRE TUTTO E L’INCONTRARIO DI TUTTO… SENZA IDEE, SENZA PREPARAZIONE, SOLO IL TENTATIVO DI ADATTARSI AL VENTO CHE CAMBIA
Da qualche giorno Matteo Salvini ha cambiato completamente strategia, immagine, contenuti, tutto.
Indebolito dai sondaggi, con una reputazione sempre più compromessa a livello internazionale e un inizio di dissenso interno che trapela tra i giornali, Matteo Salvini è costretto a fare quello che ha sempre fatto: adattarsi.
L’ideologia di Salvini non è infatti fissa, è mutevole, ma non cambia a seconda dell’esperienza o delle letture, ma più a seconda dei Google Trends, degli hashtag di Twitter, dei sondaggi e delle opportunità politiche.
A dimostrarlo non è solo la sua storia (iniziò nel gruppo dei “Comunisti Padani”), ma anche i suoi stessi tweet: in mancanza di sbarchi e di fatti di cronaca sui media che coinvolgano stranieri, i contenuti tradizionali di Matteo Salvini sono stati pressochè azzerati.
Salvini ha quindi cambiato look, passando dalle felpe, alle camicie, fino ad arrivare ad indossare gli occhiali, e mostrarsi non più di fronte alle salsicce delle sagre, ma a dei computer in luoghi di lavoro. Il leader della Lega ha poi cambiato anche il linguaggio.
Dal 7 marzo 2020 ad oggi, i termini “immigrati” e “immigrazione” sono apparsi in 14 tweet, con una media di circa due volte a settimana. Due volte a settimana in media, e considerata la frequenza giornaliera dei Tweet. Nel periodo immediatamente precedente, dal 7 gennaio al 24 febbraio, gli stessi termini apparivano in 44 tweet. Una considerevole differenza.
Non solo, nelle ultime 24 ore è apparsa ben tre volte la parola “liberale”, un termine che Matteo Salvini ha utilizzato dal 2011 in soli sei tweet, quando è passato dal parlare di sovranismo e autarchia a libero mercato e deregulation.
Salvini è tutto il contrario di tutto, e come ogni fenomeno imprevedibile rappresenta quello più pericoloso.
La volontà di adattarsi a tutto e a qualunque costo, rinnegando qualunque parola pronunciata anche solo un giorno prima è una capacità che premia a livello di consenso nel breve termine, perchè illude le persone a cicli differenti, ma non può avere durata infinita. Anche gli investitori preferiscono prodotti tossici “certi” a prodotti finanziari incerti, e mercati deboli “certi” a mercati instabili.
(da TPI)
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Aprile 25th, 2020 Riccardo Fucile
TUTTO QUELLO CHE NON TORNA NELLA “GRANDE OPERA LOMBARDA”
L’Ospedale in Fiera è stato o no un progetto inutile? I sanitari a lavoro sono troppi o troppo pochi rispetto ai pazienti ricoverati? E questi pazienti, da dove vengono?
Visto dalla metro di Portello, il nuovo ospedale di Fiera Milano sembra una cattedrale nel deserto. Voluto insistentemente dalla giunta regionale di Attilio Fontana e presentato come soluzione lampo al sovraccarico degli ospedali in piena emergenza Coronavirus, ospita a oggi, 25 aprile, solo 10 pazienti.
E nei giorni in cui la curva dei contagi, dei ricoveri e delle terapie intensive inizia finalmente la sua discesa, le domande sull’effettiva utilità della struttura si moltiplicano.
Come noto, i contributi privati raccolti (e dichiarati) per la realizzazione della struttura sono oltre 21 milioni.
A fine marzo erano pronti i primi 53 posti letto collocati negli 8 moduli costruiti nella prima fase. Il 12 aprile, come da programma, sono finiti i lavori della seconda fase — quella progettata per ospitare fino a 104 pazienti in terapia intensiva e subintensiva.
Ma le varie tornate di malati Covid-19 annunciate a voci alterne da Fontana, da Giulio Gallera e dal direttore del Policlinico Ezio Belleri, non sono mai arrivate.
Perchè? Le ipotesi che iniziavano a farsi strada (mancanza di personale, assenza di macchinari) sono state gelate da una frase sfuggita a Gallera lo scorso 15 aprile, durante la conferenza stampa della Regione: «L’ospedale in Fiera — diceva con nonchalance — fortunatamente non è servito a ricoverare centinaia di persone».
Scoppiate immediatamente le polemiche, Fontana era arrivato in soccorso del suo assessore al Welfare. Non erano certo soldi buttati, aveva detto il presidente, e anzi l’ospedale «potrà essere utile per il futuro», anche se «mi auguro non debba mai servire». Anche il commissario Guido Bertolaso era intervenuto con un video: “la grande opera lombarda” poteva essere utilizzata «per la fase 2 e la fase 3». Ma se dopo l’emergenza la struttura verrà o meno smantellata, questo resta ancora un’incognita.
Dubbi sull’alternativa scartata
Tante le domande, poche le risposte. In primis alla stampa, che rincorre assessori e sanitari per cercare di capire il presente e il futuro dell’ospedale, la cui costruzione è stata affidata lo scorso 10 marzo a Bertolaso — nominato ad hoc dopo le reticenze della Protezione Civile. Ma poche risposte anche al Consiglio regionale, dove alcuni rappresentanti dell’opposizione, che ne hanno fatto richiesta, non siano ancora riusciti a visionare l’ormai fantomatica relazione tecnica dell’Asst Ovest Milano.
Quella, per intenderci, che esclude l’ipotesi di investire sulle vecchie strutture in disuso dell’Ospedale di Legnano. Già perchè appunto, la giunta ha sempre detto di aver preferito costruire una nuova struttura perchè ristrutturare un vecchio ospedale, come quello di Legnano, avrebbe richiesto troppo tempo.
Nulla si sa anche dei criteri con cui vengono spostati qui i pazienti: Il 21 aprile, è stata bocciata in Consiglio anche la richiesta di rendere trasparenti i criteri di trasferimento dalle varie strutture ospedaliere alla Fiera.
Chi sono (e quanti) i sanitari a lavoro?
Stando alle fonti interne al Policlinico — l’ente che ha preso in carico sia la gestione della struttura sia il reclutamento dei sanitari — al lavoro ci sarebbero tra i 250 e i 300 sanitari. Ogni due pazienti ci sono 2 medici anestesisti e 5 infermieri, uniti a radiologi, tecnici per i tamponi, i sanitari addetti alle analisi, gli operatori sociosanitari, gli addetti al recupero dei farmaci. In totale, ogni due lettini sono a lavoro circa 50 sanitari spalmati su tre turni.
Tanto? Poco? In Italia, il rapporto fra numero di pazienti ospitati in terapia intensiva e medici specializzati non è definito in maniera standard a livello nazionale. La decisione rientra infatti nelle competenze delle Regioni, che, a loro volta, delegano alle singole aziende la gestione del personale.
Stando agli standard disposti nell’articolo 3 del decreto ministeriale 13/9/1988, comunque, per le terapie intensive l’ideale sarebbe avere 24 infermieri e 12 medici a lavoro su 8 posti letto.
Una situazione non anomala dunque, almeno in una situazione non emergenziale quale può essere una pandemia. Ma che sembra essere più che rosea se si considera la scarsità di personale denunciata più volte dalle varie Federazioni (e anche prima, in verità , a causa dei tagli alla Sanità ).
Lo stesso Coordinamento regionale Ordini Professioni Infermieristiche Lombardia aveva diffuso un comunicato a fine marzo per denunciare la grave insufficienza di personale con cui si stava facendo fronte negli ospedali all’esplosione dei ricoveri.
Da quanto fanno sapere dal Policlinico, in Fiera l’80% degli impiegati sono operatori interni al Policlinico, mentre il restante 20% è stato reclutato attraverso manifestazioni di interesse di carattere regionale
Una scelta dettata anche da un’ulteriore difficoltà : non è facile trovare infermieri e sanitari preparati a tal punto da poter gestire delle terapie intensive in piena emergenza Covid-19.
E proprio la tempistica che ci sarebbe voluta per preparare inesperti ad affrontare una crisi del genere avrebbe allungato ancora di più i tempi.
Una preoccupazione che era stata condivisa con la stampa dallo stesso Nino Stocchetti, coordinatore clinico dei padiglioni in Fiera. La Cooperativa Osa, che si stava occupando di reclutare personale infermieristico sul territorio, ha fatto sapere che sono state moltissime le domande di «neolaureati senza tirocinio» che hanno fatto richiesta per poter operare in Fiera Milano.
Contattato da Open per avere notizie su come si sta sviluppando l’attività sanitaria nell’Ospedale e su chi sono effettivamente i sanitari reclutati, Stocchetti ha preferito non concedere interviste. «Sono piuttosto impegnato dal lavoro clinico — ha fatto sapere — e non riesco a ritagliare tempo per altre attività ». E così gli altri medici, infermieri e operatori attualmente al lavoro. Dal Policlinico fanno sapere che le richieste di interviste sono molte, ma nessuno se la sente di rilasciare dichiarazioni.
Chi sono i pazienti ricoverati?
Chi sono i pazienti attualmente ricoverati in Fiera? Nuovi malati gravi o terapie intensive in trasferimento dagli altri ospedali del territorio?
Sembra più probabile la seconda ipotesi: come si apprende da fonti interne al Policlinico, dei 10 pazienti attualmente presenti, 3 provengono da strutture del Milanese, 6 da strutture della Brianza e 1 dal Varesotto. Altri tre pazienti precedentemente dimessi provenivano 1 dal milanese e 2 dalla Brianza.
L’Unità di crisi regionale, però, non comunica «per ragioni di privacy» da quali strutture precise provengano.
Il dato non è secondario: sono ospedali in sofferenza oppure no? Qual è il criterio di trasferimento?
Tutte domande che a oggi non trovano risposta, nemmeno dopo che il consigliere della Regione (e medico) Michele Usuelli, ha proposto in Consiglio un emendamento per rendere più chiara la ragione dietro ai trasferimenti.
Secondo Usuelli, tra l’altro, alcuni medici avrebbero denunciato ordini di trasferimento senza che vi fosse l’effettiva necessità , dato che gli ospedali di provenienza non erano affatto saturi.
«Le uniche direttive sono quelle delle sanzioni disciplinari — ha raccontato il consigliere — e i colleghi che mi hanno parlato sono terrorizzati di essere scoperti».
«Questa roba è talmente grossa — dice — che anche il primario del San Raffaele Alberto Zangrillo (che in un’intervista a Repubblica aveva definito «inutile e tardivo» l’ospedale in Fiera,ndR) si è sentito di dover tornare sulle sue parole».
La questione dell’Ospedale di Legnano
Certo, col senno di poi, decidere è molto più facile. Nessuno poteva sapere quali sarebbero state le tempistiche dell’emergenza. Ma le incognite sulla relazione tecnica richiesta dalla giunta Lombarda per valutare le tempistiche necessarie alla ristrutturazione di Legnano picchiettano ancora sulle teste di molti.
Le voci che girano (su tutte quelle di Usuelli di +Europa e del pentastellato Riccardo Olgiati) parlano di un’analisi letta o stilata a metà : sarebbe stata presa in considerazione solo la ristrutturazione del monoblocco, l’edificio più fatiscente del complesso, e non quella di tutti gli altri edifici.
Le ragioni di Legnano
I sanitari dell’Adl Cobas che operano a Legnano, e che un mese fa avevano inviato una lettera alla Regione per promuovere la ristrutturazione di Legnano invece della costruzione ex novo dei padiglioni di Portello, sono rimasti della stessa idea.
«Si poteva allestire un ospedale vero, con tutti i meccanismi dell’ospedale», dice Riccardo Germani, operatore di Legnano, primo firmatario della lettera e protavoce Adl Cobas.
«Lo si poteva fare in pochissimo tempo e spendendo una cifra irrisoria rispetto a quello che è stato speso: ci sono palazzine nuove e completamente ristrutturate che non sono state riutilizzate con posti letto pronte, come l’ex pediatria, l’ex ginecologia e l’ex riabilitazione, ora usate per gli uffici ma con diverse centinaia di posti letto disponibili».
Fonti dalla commissione sanità della Regione chiariscono di rimando che, oltre al monoblocco totalmente inagibile, le palazzine sono in ristrutturazione per il progetto della Cittadella della Fragilità . «Sistemare il vecchio di Legnano significa aspettare almeno sei mesi e investire molti soldi in più».
Ma a oggi, nonostante le richieste, la relazione non è ancora stata visionata da Open.
(da Open)
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