Destra di Popolo.net

FUSTIGATE, VIOLENTATE: L’INFERNO IRANIANO E’ DONNA, MA LA RESISTENZA CONTINUA

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

ZAYNAB KAZEMI, L’ATTIVISTA CHE SI TOLSE IL VELO DURANTE UN EVENTO PUBBLICO, E’ STATA CONDANNATA A 74 FRUSTATE DA UN TRIBUNALE DI TEHERAN

Zaynab Kazemi, attivista che si tolse il velo durante un evento pubblico contestando l’obbligo sull’hijab nella Repubblica islamica, è stata condannata a 74 frustate da un tribunale di Teheran che ha ritenuto il gesto “un’offesa alla pubblica decenza”.
Lo riferisce Hrana, l’agenzia degli attivisti dei diritti umani iraniani, e vari media dissidenti con sede all’estero facendo sapere che la sentenza è sospesa per cinque anni ma sarà eseguita se Kazemi, ingegnera iraniana, commetterà un altro crimine durante questo periodo. “Non mi sono mai pentita di avere alzato la voce per la giustizia contro l’oppressione e ancora non mi sento pentita”, ha scritto la donna su Instagram dopo essere stata condannata.
A febbraio, la donna si era tolta il velo sul palco durante un’evento dell’Assemblea degli ingegneri di Teheran e aveva criticato l’obbligo per le donne di indossare il velo in pubblico in Iran.
“Non riconosco un’assemblea che non permette alle donne di essere candidate se non portano il velo”, aveva detto Kazemi dal palco togliendosi l’hijab durante l’evento e lanciandolo a terra, come si può vedere in un video diffuso, e diventato virale, on-line all’epoca. E che presto è diventato un esempio di coraggio per tutte le giovani donne iraniane.
Violentatori di Stato
“Hanno abusato di me, nelle peggiori condizioni, mentre venivo arrestata a casa mia”. Dal carcere di Evin, Teheran, che la giornalista NazilaMaroufian ha condiviso il suo racconto. È stata privata della libertà con contestazione di reati quali “propaganda contro il sistema islamico iraniano”, la “diffusione di notizie false” e il non rispetto dell’obbligo di indossare il velo. L’arresto però, il quarto, è collegato anche allo scorso 30 agosto, quando intervistò il padre di Mahsa Amini, la 22enne di origine curda che morì il 16 settembre dopo essere stata messa in custodia dalla polizia morale per non aver indossato il velo in modo corretto; la ragazza, aveva dato il via alla stagione di ribellione e repressione nella Repubblica Islamica insieme allo zio Safa Aeli, 30 anni, recentemente prelevato senza alcun mandato legale a Saqqez.
L’audio della testimonianza di Nazila Maroufiandal carcere è disturbato. La voce trema, lunghe pause. È in stato di shock tra singhiozzi e parole che faticano a descrivere quanto accaduto. La registrazione è quella di una chiamata alla sua famiglia, condivisa dagli attivisti sui social media. Durante il colloquio la giornalista ha annunciato il suo sciopero della fame per protestare contro la sua situazione e quella di tutte le donne che subiscono violenza nelle stazioni di polizia e nelle carceri: “Questo sciopero è per me, ma è anche per tutte le donne in condizioni terribili in Iran. Quella della violenza è una realtà e chiunque non ne parli ha le sue ragioni per avere paura, ma durante gli interrogatori e nelle stazioni di polizia, le persone vengono aggredite verbalmente e sessualmente”.
Detenuta nelle condizioni più disumane, in una delle prigioni più temute d’Iran, dove sono rinchiusi migliaia di dissidenti politici, giornalisti e artisti, i fatti accaduti a Maroufian confermano le peggiori paure delle donne e delle famiglie iraniane dopoché varie testimonianze avevano riferito che nelle prigioni iraniane seguaci degli ayatollah erano soliti violentare uomini e donne come forma di tortura.
(da Globalist)

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ARRAFFA ARRAFFA, LE MANI DEI SOVRANISTI SU SEI MINISTERI: INFORNATA DI NUOVI DIRIGENTI

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

AUMENTA IL NUMERO DELLE DIREZIONI GENERALI PER ACCONTENTARE LE TRUPPE FAMELICHE DI POLTRONE

C’è una cosa che Giorgia Meloni aveva ben chiara in testa, ancor prima di varcare la soglia di Palazzo Chigi: non si può governare senza avere il pieno controllo della macchina dello Stato e di chi ne detiene le leve per farla funzionare, ovvero quel plotone di dirigenti spesso inamovibili che nei ministeri ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo. Non basta cioè nominare capi di gabinetto, vertici degli uffici legislativi e segretari particolari, ovvero tutti coloro i quali sempre entrano – come spoil system vuole – al seguito della maggioranza uscita vincente dalle urne e che cambiano a ogni cambio di esecutivo. Bisogna impossessarsi degli apparati di vertice della Nazione, per usare il lessico caro alla presidente del Consiglio. Una rivoluzione portata avanti a colpi di interventi legislativi che modificano la struttura dei dicasteri, impongono la decadenza pressoché totale dell’attuale dirigenza e, nella maggior parte dei casi, moltiplicano le poltrone. Con l’effetto di creare, anche dentro il cuore della burocrazia, un esercito di fedelissimi pronti a servire la nuova classe politica al potere.
Si inizia da sei ministeri
Ma vediamo come il governo Meloni sta riorganizzando lo Stato. Già sei i ministeri sui quali si è intervenuti. Secondo la fotografia scattata dalla Fondazione Openpolis, in quelli dell’Università e del Turismo aumenta il numero delle direzioni generali. All’Economia si passa da 4 a 6 dipartimenti. La fisionomia di Salute, Cultura e Lavoro subisce una profonda trasformazione: da un’organizzazione per direzioni generali a una per dipartimenti. Ognuno di questi interventi comporta la nomina di nuove figure apicali e, in alcuni casi, a cascata, anche dei dirigenti loro sottoposti. Ma potrebbe non finire qui: nel corso degli ultimi mesi, infatti, il Consiglio dei ministri ha esaminato preliminarmente il mutamento dei regolamenti di organizzazione anche di altri ministeri. Ovvero Esteri, Interno, Difesa, Infrastrutture, Politiche agricole e Transizione ecologica. Senza procedere, per il momento. Ma forse è soltanto una questione di tempo.
Nuove direzioni generali per Università e Turismo
In 3 dei 6 ministeri interessati dalle modifiche più incisive, le strutture di vertice sono proliferate. All’Università le direzioni generali sono salite da 6 a 8, almeno sulla carta, visto che il nuovo regolamento ministeriale non è ancora entrato in vigore. Una previsione che però era già stata varata dal governo Draghi. Al Turismo, a fine febbraio, con l’approvazione del Dl 13/2023, si è passati da 4 a 5 direzioni generali, per poi schizzare, due mesi dopo, a quota 7 (Dl 44/2023). Quasi raddoppiate rispetto alla dotazione iniziale. Anche in questo caso, comunque, si resta in attesa di regolamento, che dovrebbe arrivare a breve visto che il testo è stato esaminato in Cdm il 3 agosto
All’Economia due dipartimenti in più
Le novità più importanti riguardano il ministero dell’Economia. Strutturato sin dal 2008 in 4 dipartimenti (Tesoro; Ragioneria generale dello Stato; Finanze; Amministrazione generale) questo modello organizzativo è rimasto stabile fino a pochi mesi fa, quando dagli uffici di Via XX Settembre è partita una richiesta di parere al Consiglio di Stato su una bozza di regolamento che prevede l’introduzione del dipartimento dell’Economia, scorporando alcune competenze del Tesoro. La Corte, pur esprimendosi a favore, ha però suggerito diverse modifiche ed espresso perplessità rispetto a un’operazione che si limita a scorporare da un dipartimento strutture già esistenti e funzionanti. Probabilmente la ragione per la quale si è deciso di cambiare strada. Nel frattempo, infatti, col dl 44/2023 il governo ha alzato a 6 il numero massimo di dipartimenti previsto per legge ed esaminato in Cdm (il 26 luglio) il relativo regolamento. Quando sarà pubblicato in Gazzetta ufficiale, ai 4 dipartimenti attualmente operativi si aggiungerà il dipartimento dell’Economia e quello della Giustizia tributaria. Tale struttura assumerà competenze ora esercitate dal dipartimento delle Finanze, incrementando i costi amministrativi del Mef di circa 2,4 milioni di euro l’anno. Una decisione che va letta alla luce della riforma della giustizia tributaria prevista anche dal Pnrr
Cultura, Salute, Lavoro: via tutti i dirigenti
In altri 3 casi le norme adottate nel corso dell’ultimo anno hanno imposto una radicale mutazione della struttura, che comporta la decadenza immediata di tutte le figure di vertice. Passare da un’organizzazione per direzioni generali a una per aree dipartimentali si risolve, in sostanza, in un escamotage per cambiare l’ossatura burocratica dei ministeri. Alla Cultura, per esempio, una volta che il regolamento per istituire 4 dipartimenti al posto delle 12 direzioni generali sarà entrato in vigore, dovranno essere sostituiti la bellezza di 200 dirigenti. Il Dl 105 pubblicato il 10 agosto scorso dispone infatti che “gli incarichi dirigenziali generali e non generali decadono con il perfezionamento delle procedure di conferimento dei nuovi incarichi”. Significa in sostanza che “il governo di destra – come ha ben spiegato il professor Sabino Cassese – riprende e amplia oltre ogni limite un sistema introdotto dalla sinistra, prevedendo nuove nomine non solo dei dirigenti generali, quelli apicali, ma di tutti i dirigenti, generali e non generali, di prima e di seconda fascia”.
Una specie di spoils system fuori tempo massimo, nota Openpolis. Il primo ad aver avviato tale iter è il ministero della Salute che, in prospettiva, sarà articolato in 4 dipartimenti: una contraddizione rispetto alla strategia one health adottata dal ministero stesso, che prevede un approccio integrato tra le diverse discipline. Al Lavoro, invece, si passa da 10 direzioni generali a 3 dipartimenti. Il Deep State al tempo della destra è pronto per scendere in campo.
(da La Repubblica)

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CARACCIOLO: “NEL MONDO ORFANO DELLA GUIDA AMERICANA, L’ITALIA NON SA TUTELARE L’INTERESSE NAZIONALE”

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

CON LA VIA DELLA SETA SIAMO RIUSCITI A IRRITARE SIA GLI USA CHE LA CINA, NON ERA FACILE… E QUESTI SAREBBERO I “PATRIOTI”?

Tutti i nostri politici ne parlano, tutti lo vogliono, neanche fosse Figaro. Ma qual è dunque l’interesse nazionale italiano? Non si sa. Paradosso del nostro tempo: nella sarabanda geopolitica scatenata dalla crisi d’identità e di volontà dell’America, ogni Stato conti o presuma di contare si sente di pensare e talvolta fare l’impensabile. A noi gira la testa. Il Belpaese è spaesato. Una volta passavamo ingiustamente per la Bulgaria della Nato, quasi fossimo i tirapiedi degli Usa. Eppure facevamo spesso gli affari nostri, senza classificarli interessi nazionali (suonava male). Danzando destramente intorno ai limiti della guerra fredda, senza infrangerli. Sapevamo quale fosse il nostro posto nell’Occidente. Ma a tavola non ci sono più posti assegnati. Te lo devi conquistare nel mucchio selvaggio.
È il momento degli opportunisti e dei solipsisti. E durerà a lungo. Senza riferimenti, sbandiamo paurosamente. Ad esempio, ci troviamo nel giro di pochi anni a prima firmare un’intesa con la Cina, vuota di contenuti economici ma piena di simbolismi geopolitici, perfino ideologici, scatenando la legittima irritazione dell’America. Salvo oggi smentirci: il memorandum non lo rinnoviamo, viva il “partenariato strategico” abracadabra che non ni nega a nessuno. La Cina più che irritarsi ne ricava che trattare con noi sia tempo perso. E peccato perché le staremmo pure simpatici, ma come si fa? Questo pare il sottotesto dell’anodina dichiarazione del premier cinese Li Qiang dopo l’incontro con Giorgia Meloni al G20 di Nuova Delhi. Due autogol in cinque anni con/contro il Numero Uno e il Numero Due è record mondiale. E meno male che pochi se ne accorgono fuori d’Italia perché ci danno per scontati nella peculiare interpretazione del ruolo di settimo Grande (scala del G7: mondo ieri, dominato dall’Occidente).
Il G20 è sigla della Babele geopolitica in cui stiamo navigando. Nato come vertice delle maggiori economie mondiali, oggi è somma di G7 e Brics in rapida espansione, variegata compagnia: tra cui spiccano anti-americani per professione o perché respinti dal Numero Uno (Russia, Cina), più potenze regionali in bilico (Brasile, Sudafrica) e l’India. Ovvero Repubblica di Bharat come la ribattezza il suo leader indù, Modi. Il quale è assolutamente certo che Bharat passerà alla storia quale titolare di questo secolo come gli Stati Uniti lo furono dello scorso o la Gran Bretagna dell’Ottocento. Il tutto all’insegna del provare per errori. “Geopolitica multivettoriale”, assicurano i tecnici.
Quasi l’ideale per la classe dirigente della Prima Repubblica, un bel problema per l’attuale. Certo il presidente del Consiglio, conscio della sua radice originaria e del suo attuale status, cerca di seguire l’America sui grandi dossier internazionali. Riflesso ortodosso. Il problema è che non c’è più ortodossia. L’America non sa come gestire il suo declino perché non sa pensarsi altro che egemone assoluto ma non ha più i mezzi per esserlo. E se pure li avesse gli altri, “alleati” inclusi, non glieli riconoscono. Italia chiamò: cara America vorremmo tanto stare con te ma tu dove stai? Sorry, caduta la linea.
Da questo G20 escono maionesi impazzite. Noi italiani ci troviamo a firmare con russi, americani, cinesi e resto della compagnia una dichiarazione sull’Ucraina che, se non proprio dal Cremlino, parrebbe prodotta da una Ong pacifista. Per la grande irritazione di Kiev, nemmeno invitata al summit. E per effetto di un veto di Pechino, sostenuto da buona parte della compagnia, qualche atlantico compreso, che impedisce di qualificare «aggressione» l’aggressione di Putin. Veto al quale si adeguano tutti, chi con gioia maligna chi facendo buon viso a pessimo gioco. A ben guardare, il comunicato non si discosta molto dal concordato informale tra Putin e il capo della Cia Burns abbozzato per telefono nel novembre 2021 e mai disdetto: la Russia invade ma non va oltre l’Ucraina, l’America non combatte la Russia né cerca il cambio di regime al Cremlino. Per il resto valgono i codici segreti di comunicazione fra le due superpotenze nucleari.
Lezione per noi: se non ci sono più regole né santi in paradiso, conviene prenderne atto e stabilire davvero quel che vogliamo. Meglio, che possiamo volere. Dire che bisogna farlo senza farlo non è furbo. Si può accettare l’eterodirezione quando c’è qualcuno che ti dirige. Se manca, resta l’allegria di una vita come Steve McQueen. Però in motoretta.
(da La Stampa)

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ALTRA FIGURA DI MERDA DI FUGATTI, IL TAR DI TRENTO BLOCCA ANCHE L’ABBATTIMENTO DELL’ORSA F36: “MEGLIO LA CATTURA”

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

A QUESTO PUNTO L’ITALIA NORMALE SI CHIEDE: PUO’ ANCORA RESTARE AL SUO POSTO UN PERSONAGGIO DEL GENERE?

Puntuale è arrivata ls sospensiva del Tar di Trento che ha bloccato l’ordinanza di abbattimento dell’orsa F36 del presidente della Provincia autonoma Maurizio Fugatti.
Il giudice amministrativo ha accolto il ricorso dell’associazione animalista Leal Odv, che si era opposta alla decisione di Fugatti il giorno dopo la firma dell’ordinanza. Il Tar ha disposto la cattura dell’animale e la custodia nel centro di Casteller, a Trento.
Secondo il giudice amministrativo, quello della detenzione è «l’unica cautela ragionevolmente praticabile», escludendo l’abbattimento. Il Tar ha poi chiesto alla provincia di Trento di depositare entro 10 giorni il parere dell’Ispra sulla presunta pericolosità dell’orsa, e il rapporto tecnico intitolato: «La popolazione degli orsi in Trentino: analisi demografica a supporto della valutazione delle possibili opzioni gestionali». Sul destino dell’orsa F36 il Tar tornerà in udienza il prossimo 12 ottobre.
(da agenzie)

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LA NATO PREPARA LA PIU’ GRANDE ESERCITAZIONE MILITARE DAI TEMPI DELLA GUERRA FREDDA

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

COME FUNZIONERA’ LA SIMULAZIONE DI UN ATTACCO RUSSO

La Nato si prepara a dar vita alla più grande esercitazione militare dai tempi della Guerra Fredda. Lo scrive oggi il Financial Times citando fonti dell’Alleanza Atlantica, spiegando che nelle manovre, programmate per il primo trimestre del 2024, saranno coinvolti circa 41mila soldati dei Paesi membri e oltre 50 navi da guerra. Obiettivo della missione Steadfast Defender («salda difesa»): testare la messa in atto di una risposta militare ad un’eventuale aggressione russa contro uno dei suoi membri – benché nel gergo interno il «nemico virtuale» sarà denominato «Occasus». L’esercitazione, nota il quotidiano londinese, è parte della strategia di evoluzione della Nato, dettata dallo scenario ucraino, verso un’Alleanza in grado di combattere una guerra vera e propria, e non solo di rispondere a una crisi. A livello tecnico, coerentemente, la novità principale sarà l’integrazione di dati geografici reali per creare «scenari realistici» per le truppe impegnate. L’esercitazione dovrebbe tenersi tra Germania, Polonia e i Paesi Baltici a febbraio e marzo del prossimo anno, e non sarà l’unica per il 2024: dal prossimo anno infatti saranno due, e non più solo una, le esercitazioni militari annuali della Nato.
Cambio di passo
Lo scorso giugno il Segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg aveva anticipato il salto di qualità (e di quantità) nella combat readiness dell’Alleanza, con il progressivo passaggio da 40mila a «ben oltre 300mila» soldati pronti al dispiego immediato in caso di necessità. Un approccio totalmente diverso a quello su cui si era settata l’Alleanza a partire dagli anni ’90, focalizzato sul dispiego agile di piccoli battaglioni per missioni ad hoc, come accaduto nei decenni successivi nei Balcani o in Afghanistan. Poco dopo la Germania aveva fatti sapere che 4mila soldati saranno stanziati in permanenza in Lituania, mentre altri battaglioni Nato sono stati via via già dispiegati lungo i confini orientali dell’Alleanza, a difesa/deterrenza di possibili mosse «sconsiderate» della Russia oltre il territorio ucraino. Un allarme cresciuto nel corso dell’estate con la «redistribuzione» degli uomini della famigerata milizia Wagner in Bielorussia – benché la morte di Prigozhin e la decapitazione dei vertici del gruppo a fine agosto paiano aver circoscritto la minaccia.
(da Open)

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CATENO DE LUCA A SORPRESA SARA’ A PONTIDA

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

OBIETTIVO RUBARE CONSENSI, SPACCARE LA LEGA E CREARE UN POLO AUTONOMISTA TRASVERSALE

Non è stato invitato da nessuno, ma del resto il pratone è uno spazio aperto. Il sindaco di Taormina Cateno De Luca farà irruzione – pacificamente, si intende – a Pontida, domenica prossima, al ‘sacro raduno’ della Lega. Il leader del movimento Sud con nord, candidato alle suppletive del collegio di Monza che fu di Silvio Berlusconi, ha in mente un piano non semplice: mettersi alla testa di un fronte autonomista trasversale capace di rubare consensi al Carroccio oggi in versione nazionalista
In questo senso l’auto-ospitata alla manifestazione della Lega serve come plateale manovra di disturbo mediatica, che si aggiunge a quelle nel dietro le quinte che vedono De Luca incontrare esponenti del partito insofferenti alle politiche di Matteo Salvini.
Il siciliano De Luca – che fu anche candidato sotto il simbolo della Lega Nord ai tempi di Umberto Bossi, quando il Senatur fece l’accordo con l’Mpa di Raffaele Lombardo – più che al collegio brianzolo è proiettato verso le elezioni europee, con la costruzione in corso di un polo civico e per l’appunto autonomista che peschi fuori da centrodestra e centrosinistra. Lo scorso luglio, con annessa delegazione arrivata dalla Sicilia munita di cannoli in dono, De Luca incontrò l’ex ministro del Carroccio Roberto Castelli alla festa di Autonomia e Libertà, l’associazione culturale federalista vicina proprio alla Lega. “Non si possono fare i salottieri centralisti a Roma e poi dire cose diverse sui territori. Sappiate che nel meridione potete contare su delle interlocuzioni politiche, disponibili ad un’alleanza per modificare il sistema”, spiegò allora. Ed è quello che proverà a ripetere a Pontida.
(da La Repubblica)

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QUALI SONO I DUBBI DELL’ANTITRUST UE SU ITA-LUFTHANSA

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

ALTRO CHE ATTACCARE GENTILONI, I PROBLEMI SONO ROTTE, SLOT E CRESCITA FUTURA

Sarà proprio la Commissione Europea a decidere se Lufthansa sarà l’approdo finale della storia tribolata della compagnia di bandiera nazionale, incarnata ora da Ita Airways dopo la fine nel 2021 di Alitalia. Ma dietro le lamentele del premier Meloni sui tempi lunghi della pratica a Bruxelles si nasconde una questione più di sostanza: il timore che dopo il vaglio europeo l’accordo diventi poco conveniente per tedeschi e italiani.
L’intesa tra lo Roma e la compagnia tedesca firmata a maggio prevede che Lufthansa versi a Ita 325 milioni di euro a titolo di aumento di capitale, mentre il ministero dell’Economia ne effettuerà uno da 250 milioni di euro. Al closing Lufthansa avrà una partecipazione nel capitale pari al 41% per poi salire progressivamente nel corso degli anni fino a rilevare l’intera compagnia versando altri 504 milioni. Ora serve l’ok comunitario. L’esame formale non è iniziato, ma dalle prime interlocuzioni con l’Antitrust Ue sono già chiari i punti critici su cui l’Europa potrebbe intervenire
Lufthansa troppo grande
Ita si appresta a entrare in un network europeo formato da Lufthansa Regional, Lufthansa CityLine, Lufthansa cargo, Air Dolomiti, Swiss, Austrian Airlines, Brussels Airlines, Edelweiss Air ed Eurowings. E’ quasi certo che la Commissione Ue imponga dei paletti all’operazione. C’è una lunga serie di precedenti a riguardo. E’ il punto più delicato perché Lufthansa vuole evitare che i rimedi imposti siano troppo gravosi, mentre il governo italiano teme che a Ita sia preclusa una prospettiva di crescita autonoma e diventi così un vettore marginale. La tesi tedesca che sarà sostenuta con la Commissione è che compagini regionali come Ita per le loro dimensioni ridotte non sposteranno gli attuali equilibri che vedono il 60% del mercato in mano a 5 big (Ryanair, easyjet, Air France-Klm, British Airways con Iberia (Iag) e Lufthansa). Non sarebbero necessari grandi interventi perché la concentrazione del mercato lascia ancora abbastanza spazio per altri contendenti
Rotte e Slot
Ma anche passasse la tesi che il grande quadro europeo non ha bisogno di correzioni, la Commissione può – anzi è l’esito più probabile- chiedere interventi sui singoli aeroporti e rotte in cui Lufthansa-Ita si troveranno a dominare, ad esempio il presidente di Wizz Air si è scagliato di recente contro il dominio a Linate del nascente nuovo gruppo con l’80% degli slot. Ma potrebbero essere coinvolti anche gli altri aeroporti italiani come Fiumicino e Malpensa.
Eredità vecchia Alitalia
Un altro punto su cui l’Italia ha dovuto dare molte garanzie alla Ue è che Ita non ha nessuna “continuità” con la vecchia Alitalia (pur avendone comprato il marchio non lo usa e ha dovuto ricostituire da zero flotta e personale). Tra privatizzazioni fallite (la gestione CAI e quella Etihad) e salvataggi successivi Alitalia ha sorpassato ogni limite in tema di aiuti pubblici ammessi dall’Europa con periodiche iniezioni di soldi dei contribuenti sotto forma di aumenti di capitale e prestiti mai restituiti. Anche Lufthansa ha attenuto garanzie contrattuali e legali che le evitino di trovarsi a gestire sgradevoli eredità, come quella dei reintegri di ex dipendenti. Ma anche questi aspetti finiscono sotto la lente dei tecnici Ue
I ricorsi dei concorrenti
Un ulteriore elemento di ritardo può arrivare dai concorrenti, che come prassi in questo settore cercheranno di intervenire durante e dopo ogni decisione dell’Antitrust Europeo. Per quanto i precedenti episodi non hanno impedito alle fusioni di arrivare in porto (specie quando era coinvolto direttamente il governo di un paese membro), le battaglie legali si sono protratte per anni limitando progetti e crescita delle società coinvolte
(da La Repubblica)

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CAIVANO, UNA TERRA DI NESSUNO, DOPO LA SCENEGGIATA DEL GOVERNO

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

IERI ALCUNE PERSONE A VOLTO COPERTO E IN SELLA A MOTO HANNO SPARATO PER STRADA, NEL PARCO VERDE DI CAIVANO…LA DENUNCIA DEL PARROCO DON PATRICIELLO: “SFRECCIAVANO PER I VIALI SPARANDO ALL’IMPAZZATA. IL TERRORE”

“In sella alle loro moto, sono arrivati ancora una volta. Volti coperti. Armi pesanti in mano. Sfrecciano per i viali sparando all’impazzata. È il terrore…”. Paura poco prima della scorsa mezzanotte nel Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli, per una stesa, un raid con colpi di arma da fuoco sparati all’impazzata: a denunciarla su Facebook è don Maurizio Patriciello, parroco che da anni si batte contro la criminalità.
“La domenica volge a termine – scrive don Maurizio – manca poco più di un’ora alla mezzanotte. Per la gente della mia parrocchia non c’è pace. In sella alle loro moto, sono arrivati ancora una volta. Volti coperti. Armi pesanti in mano. Sfrecciano per i viali sparando all’ impazzata. È il terrore. Le ‘stese’ fanno paura. Può morire chiunque. Signore, aiutaci”
All’alba del 5 settembre, lo Stato aveva fatto vedere e sentire la sua presenza a Caivano con un’operazione interforze nella quale sono stati impiegati 400 uomini. Qualche giorno dopo è stato varato il decreto legge Caivano.
I carabinieri del nucleo operativo di Poggioreale sono intervenuti in via Al Chiaro di Luna a Ponticelli (Napoli) per l’esplosione di colpi d’arma da fuoco. Sul posto sono stati repertati 21 bossoli di vario calibro.
Al momento non risultano feriti ma è stata sequestrata una Fiat Panda con un’ogiva conficcata nella carrozzeria e il lunotto posteriore infranto. Indagini in corso per chiarire dinamica.
(da agenzie)

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NEL MAROCCO FERITO DAL SISMA: “NIENTE TENDE ALLE DONNA E MULI COME AMBULANZE”

Settembre 11th, 2023 Riccardo Fucile

SOCCORSI CHE ARRIVANO CON IL CONTAGOCCE E SUPERSTITI SENZA RIPARO

Muhammad si sporge dalla transenna arrangiata dalla gendarmerie usando ciò che resta di una porta di legno, di una finestra. «Lì c’è mia madre», ci dice e non serve che aggiunga altro per capire si tratti di una tragedia. L’hotel in cui era la sua famiglia, adesso, pende martoriato nel vuoto, mattonelle del bagno e brandelli di letti resistono quasi inspiegabilmente alla gravità. Il terremoto che venerdì notte ha ferito il Marocco prendendosi più di duemila vite lo ha lasciato così. Muhammad lo fissa, non piange nemmeno più: «Sono tre giorni che mamma è lì. Era in vacanza con mio padre, mio fratello, la moglie e una loro amica. Sono tutti morti, è la volontà di Allah».
La signora Aisha e suo marito Ibrahim sono due delle tre persone rimaste ancora tra le macerie di quell’inferno di polvere e sassi che è oggi Moulay Brahim: i corpi esposti a pochi metri da noi, ancora irrecuperabili.
È qui, sulle montagne del Grande Atlante, a Sud di Marrakech, che la scossa è stata davvero spietata, ingoiando vite e calcestruzzo. «C’est tombé», dicono, e il suono sinistro che evoca la parola vale più della sua traduzione: «Crollato, è crollato tutto».
Le vie del paesino sono dormitori a cielo aperto: quella che sembrerebbe una discarica è quanto di più simile a un rifugio: assi di legno, un letto in ottone sgangherato, panche spezzate: tutto quanto possa ospitare un materasso, va bene. Senza nulla sulla testa, né speranza. Quella è evaporata quando hanno ritrovato i corpi di una mamma e del suo bambino nato da due giorni. Tre uomini della gendarmerie, quattro pompieri, un’auto che lavora come ambulanza. «Tra ieri e oggi hanno estratto vive quattro persone», e sembra già un miracolo.
Scendendo per una strada martoriata da quella che pare una pioggia di meteoriti grandi come tavoli da pranzo si gira intorno a un benzinaio e, risalendo, si incontra un ospedale da campo che accoglie feriti lievi. Impossibile avvicinarli, ma qualche metro più in là una distesa di terra ospita una ventina di tende blu: cinquanta famiglie dormono distribuite in quei ricoveri di fortuna, ma almeno altre cento sono fuori a chiedere disperatamente un tetto sotto cui dormire.
«La vergogna è che danno le tende ai più ricchi: chi può pagare qualcosa agli agenti trova la sua brandina. Noi restiamo fuori. Non abbiamo nemmeno una coperta. E la notte è freddo. Siamo scesi dalle montagne per trovare un riparo, ma non ci vogliono aiutare».
Fatyma, sessant’anni su cui la vita ha lasciato segni profondi, un posto per sé e il marito lo ha trovato: «Qui siamo due o tre famiglie per ogni tenda, tante persone cercano alloggio ma i letti sono finiti. Non c’è più acqua, stanno finendo i viveri. Non viene nessuno, a parte questi due poliziotti qui davanti. Facciamo domande ma non ci rispondono, siamo trattati come bestie». Gli animi si scaldano, due uomini urlano, si spingono, gli altri intervengono mentre si stanno prendendo per il collo. Ci avvicina una ragazza: «Io un posto in tenda non lo avrò mai. Sono sola, non sono sposata, un poliziotto mi ha detto: che vuoi? Sei solo una donna, vattene».
Un mulo su cui è stata costruita una lettiga con legno e cuscini è quanto di più simile a un mezzo di soccorso, per gli abitanti di Ait Othmane. «È la nostra ambulanza», ci dicono. «Tanto, persone ferite non ce ne sono. Chi era lì sotto, è già morto».
Uno dei posti più vicini all’epicentro è anche tra i meno accessibili. Si scava con le mani tra montagne di detriti. Si cammina scalzi su ciò che una volta era il paese e ora è una enorme necropoli per cercare una sorella, un figlio.
Qui chiunque ha perso qualcuno: «Non mangiamo da tre giorni. Non c’è più acqua, siamo disperati, moriremo anche noi che non siamo finiti sotto le macerie». Eppure nella voce non c’è quasi disperazione, solo rabbia: «La morte è una cosa a cui siamo preparati, fa parte di ciò che siamo e solo Allah decide quando è il momento».
Avvicinarsi all’epicentro è un viaggio tra ferite lacere: i sensi di marcia sui tornanti sono spariti, si passa alternandosi nei pochi centimetri che la pioggia di rocce lascia agli pneumatici, tra scavatrici in servizio permanente e null’altro: non un’ambulanza, non un mezzo dell’esercito. Basterebbe un’altra caduta a travolgere le auto che si avventurano per portare aiuto spontaneo.
Risaliamo verso Moulay Brahim per poi virare a Sud, direzione Imlil. Un villaggio noto ai turisti che tutto l’anno lo raggiungono per sciare o per il trekking. La strada è ai limiti della percorribilità. Passando da Asni troviamo nuovi ricoveri organizzati: le solite tende blu, con ragazzini di una decina d’anni che si caricano di continuo taniche trasparenti d’acqua sulle spalle. Un ragazzo più grande ne prende due e s’avvia verso i paesi tagliati fuori. Si sale e spariscono le connessioni: telefoni muti, nemmeno più l’energia elettrica. A Imlil però acqua c’è, anche tavolini colorati, alberi di mele, chi insiste a vendere i propri prodotti, olio d’Argan e sacchetti di noci, poche centinaia di metri dopo l’ennesimo accampamento improvvisato, come mille altri sulla strada. In paese ci invitano a mangiare un tajin di verdure e pecora: «Niente posate, usate il pane e le mani». Non contano neanche un ferito, o almeno così dicono per non spaventare i turisti che scendono sorridenti con gli zaini per la loro scarpinata incontrando quad, volanti, camion della gendarmerie e persino un furgone dell’esercito. Qui, nell’unico angolo di Marocco in cui l’inferno non è arrivato.
Mancano un paio d’ore al tramonto, è ora di tornare. Dalle montagne scende incerto verso Marrakech un furgoncino. Nel suo montacarichi un tappeto avvolge dignitosamente una delle duemila persone che la scossa ha ucciso. L’ospedale di Tahnout non prende più una sola persona, forse nemmeno i corpi che ancora, lentamente, emergono dalla tragedia.
(da La Repubblica)

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