Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
NEL 2003, LO SCRITTORE SICULO-MUSULMANO PUBBLICO’, PRESSO ‘ARISTOCRAZIA ARIANA’, “FOGLI CONSANGUINEI”, NEL QUALE SI PARLA DELL’ESISTENZA DELLA “MEMORIA DEL SANGUE”, FORMULA DI ANTICA MEMORIA PER STABILIRE IL PRIMATO DELLA RAZZA
La sigla Ar è l’abbreviazione di Aristocrazia Ariana e così si chiamano le edizioni di Franco Freda, un nome che brilla come una stella nel firmamento del terrorismo nero, e che è stato dichiarato colpevole di associazione sovversiva per la costituzione del gruppo di Ar, appunto.
Un gruppo formato da sostenitori di questa casa editrice neofascista, tradizionalista e neonazista, che si ispira a Julius Evola. Freda accusato di aver organizzato la strage di piazza Fontana del 1969, inizialmente è stato assolto per mancanza di prove (cosiddetta “formula dubitativa”).
Ma la Cassazione nel 2005 ha affermato che la strage fu realizzata dal “gruppo eversivo Ordine Nuovo…. capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”, e ha dichiarato che i due non sono più processabili in quanto “irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari”.
Adesso Freda pubblica tomi e volumi che discettano sul tema della democrazia e dei mali che questa comporta: nel novembre 2022 la sua libreria di Avellino è stata perquisita in quanto considerata la base di una cellula neonazista.
Freda è un maestro e un punto di riferimento, speriamo solo giovanile, del neopresidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco. Presso Aristocrazia Ariana, il cui nome è già tutto un programma, Buttafuoco nel 2003 ha pubblicato “Fogli consanguinei” dove il primo dei “consanguinei” è proprio il suo editore, il terrorista nero.
A Freda il quale “s’intende di libertà per essere stato rinchiuso nel cattiverio (sic) delle prigioni democratiche” e che è stato “toccato dalla legge Mancino … come istigatore all’odio razziale” (un’accusa non proprio irrilevante), il saggista Buttafuoco chiede di spiegare cosa è la “democrazia”. Glielo chiede proprio perché è un nemico della stessa.
Freda è un “uomo di grande cultura”, dice Buttafuoco del suo editore, “inarrivabile, solitario e anche spiritoso”(sai che risate parlando di democrazia con un sovversivo razzista). Ma è anche un intellettuale fumoso e incomprensibile quando sentenzia che “la ricerca dell’originario è una conversione della forma mentale che si volge all’origine e all’alto e non al futuro e al basso come effetto dell’entropia”.
Questo linguaggio ermetico conquista lo stesso lo scrittore siciliano convertitosi all’Islam e gli ricorda quello del grande Jorge Luis Borges. Buttafuoco alla fine afferra quello che conta e cioè che esiste la “memoria del sangue”, formula di antica memoria per stabilire il primato della razza. Insomma se questo è il maestro cosa sarà l’allievo? E quali sono i principi democratici (?) del nuovo intellettuale di punta che guiderà la Biennale della Italia democratica (?)
(da Dagoreport)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
NON ERA LUI L’INDAGATO, MA UN MINISTRO CON IL SUO STESSO COGNOME
Potrebbe essere solo il frutto di un clamoroso malinteso l’indagine per sospetta corruzione che ha spinto alle dimissioni il primo ministro portoghese António Costa. Cnn Portugal riporta infatti che l’intercettazione telefonica che ha dato il via allo scandalo giudiziario non coinvolgerebbe il premier, bensì un suo ministro dal nome molto simile: António Costa Silva, titolare del dicastero per lo Sviluppo economico.
Il clamoroso errore sarebbe emerso durante l’interrogatorio di sabato sera, 11 novembre, a uno degli inquisiti, Diogo Lacerda Machado, consulente e amico personale del premier. Nella telefonata intercettata, Lacerda Machado promette a un altro degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta di poter snellire alcune pratiche burocratiche parlando con il ministro delle Finanze, Fernando Medina, o cercando di arrivare al ministro dello Sviluppo economico, António Costa.
Se la rivelazione di Cnn Portugal dovesse essere confermata, si tratterebbe dunque di un errore di (quasi) omonimia commesso dai magistrati, rei di essere incappati in un errore di trascrizione agli atti. Secondo quanto dichiarato stamattina dall’avvocato di Lacerda Machado, l’errore sarebbe stato ammesso dallo stesso pm che ieri ha interrogato il suo assistito.
L’avvocato ha anche aggiunto che, stando agli atti, questo sarebbe l’unico riferimento al premier portoghese in tutta l’indagine. Alla domanda dei giornalisti che gli chiedevano se si potesse trattare di un errore intenzionale, l’avvocato ha risposto che si rifiutava di fare un processo alle intenzioni del pm.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
L’UNICO IN UTILE È FRATELLI D’ITALIA, A CUI CONVIENE NON ALZARE L’ASTICELLA DEL FINANZIAMENTO DAL 2X1000, COME CHIESTO DA TUTTI GLI ALTRI PARTITI
Fossero una società quotata in Borsa i partiti politici italiani avrebbero già dovuto presentare i libri contabili in tribunale e dichiarare fallimento. Perché i loro bilanci sono in profondo rosso e come se non bastasse il loro patrimonio, immobili e quant’altro, va sempre più assottigliandosi.
A essere messa peggio è Forza Italia, priva ora del suo grande finanziatore e fondatore, Silvio Berlusconi. Ma anche sulla Lega pesa il fardello dei debiti accumulati nei confronti dello Stato quando era ancora “Nord”, mentre Pd e Movimento 5 Stelle non sanno come turare le falle nei conti aperti dai loro stessi parlamentari morosi.
Mal comune mezzo gaudio, si dirà. Ma non è così perché un partito con il bilancio sano c’è ed è proprio quello di maggioranza nel governo, Fratelli d’Italia, che può diventare così arbitro della sorte dei concorrenti, impedendo loro di uscire dall’angolo con un qualche provvedimento di legge che alzi l’asticella del finanziamento, basato oggi su 2 per mille e donazioni.
Tempo addietro ci ha provato il Pd, proponendo un ritocco non da poco della riforma Letta, portando da 20 a 45 milioni di euro il fondo per il 2xmille, ma soprattutto con la ridistribuzione della quota di quello stesso fondo, che ogni anno resta inutilizzata perché parte dei cittadini non ne vuol sapere di finanziare i partiti.
Anche altre formazioni politiche propongono ricette analoghe, salvo il M5S, che dopo essersi iscritto lo scorso anno nel registro dei partiti riconosciuti ai sensi della legge n.13 del 2014 per accedere al 2xmille, ora ha presentato una proposta per abbassare da 100mila a 18mila euro annui il tetto delle donazioni liberali da parte di persone fisiche e società.
Ma a sbarrare la strada lo scorso anno all’inserimento in manovra dell’innalzamento della quota di tasse devoluta dai cittadini ai partiti è stato guarda caso il partito della Meloni. Che così tiene per la collottola oppositori e alleati di governo. Perché portare avanti senza soldi l’attività politica ordinaria, per non parlare delle campagne elettorali, non è per niente facile. Ed espone ad un altro rischio, quello di diventare scalabili dalle lobby.
Ma la necessità di aumentare un finanziamento che è di fatto pubblico è sentita oramai da quasi tutti i partiti. Anche se poi c’è chi se la passa peggio di altri. Prima di tutti Forza Italia, che in base agli ultimi dati disponibili, come quelli di Open Polis o Pagella Politica, ha debiti per 99 milioni di euro, un disavanzo di esercizio di oltre 340mila euro ma soprattutto un disavanzo patrimoniale di 106 milioni.
«La riduzione dei parlamentari eletti nonché la discontinuità dei versamenti provenienti da essi e dai consiglieri regionali rappresentano la causa primaria del risultato negativo della gestione caratteristica», ha ammesso il senatore-tesoriere degli Azzurri, Alfredo Messina, il giorno dopo la morte di Silvio Berlusconi.
Che anche all’ultimo ha lanciato una ciambella di salvataggio alla sua creatura politica con la rinuncia a un milione e 796mila euro di interessi sul credito vantato dall’ex Presidente. Ma il problema è che FI del 2xmille raccoglie solo le briciole, meno di un milione dei 20,4 milioni del fondo.Ne fa invece incetta il Pd, che ne incassa quasi 7,4 milioni. I Dem sono però anche secondi nella classifica dei debiti, con un fardello di 5,5 milioni. Ma quel che è più grave è la scomparsa del loro patrimonio netto, passato dai 20,3 milioni di euro del 2010 ad appena 23mila euro.
Sulla Lega grava invece il fardello dei 49 milioni che il partito di Salvini deve versare nelle casse dello Stato in base a sentenze della magistratura, ora ridottisi a 18 milioni e 148mila euro. Il nuovo corso del Capitano non sta però dando i risultati sperati, visto che l’ultima perdita è di 3,9 milioni di euro mentre c’è da saldare una rata di un milione e mezzo di debiti. Scarso l’apporto del 2xmille: appena 1,2 milioni devoluti dai cittadini, centomila euro in meno di quelli andati ad Azione di Calenda.
I Cinque Stelle sono quasi in pareggio. Ma questo si deve al fatto che, nonostante i morosi siano anche qui tanti, da parte della marea di eletti nella passata legislatura sono affluiti nelle casse del Movimento 7,4 milioni. Ora però i parlamentari sono molti meno e più morosi, tant’è che verso di loro e i consiglieri regionali il partito di Conte vanta un credito d 2 milioni e 552mila euro. Questo mentre le spese sono lievitate a 6,8 milioni.
A festeggiare resta così solo Giorgia, che con un bilancio ancora formato da partitino porta a casa un utile di 527mila euro e un patrimonio netto con il segno più per 2,6 milioni. Ed è anche su questi numeri che si gioca la battaglia per la leadership politica del Paese.
(da La Stampa)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
CONCEPITA MALE, CORRETTA E INFINE NEUTRALIZZATA, PUNTAVA A INCASSARE DUE MILIARDI MA NON HA VISTO NEANCHE UN EURO… SOLO SQUALLIDA PROPAGANDA
Storia di una legge concepita male, corretta troppe volte e voluta da Giorgia Meloni per compensare – in senso politico – l’eliminazione del reddito di cittadinanza agli occhi degli elettori, prelevando almeno due miliardi di euro di “profitti ingiusti” (disse la premier, mettendoci la faccia) delle banche.
I profitti, sia chiaro, ci sono, e tanti: nei primi nove mesi 2023 il settore in Italia segna oltre 16 miliardi di utili netti, l’80% più di un anno prima. Il sindacato Fabi stima per l’intero 2023 utili operativi a 43,4 miliardi per i soli cinque gruppi (+70%), grazie al decollo dei margini d’interesse, quasi doppi per i 10 rialzi dei tassi Bce. Ma a tre mesi dal decreto blitz del 7 agosto, e a un mese dalla sua conversione in legge, è ormai chiaro che la norma non porterà un euro al fisco. Tutto marketing politico, che però ha destabilizzato le istituzioni e gli investitori, togliendo 10 miliardi in Borsa al settore nella sola seduta dell’8 agosto.
Già una dozzina dei maggiori istituti in Italia, nei conti del terzo trimestre, ha reso noto che non verserà l’obolo (dovuto a metà 2024), preferendo costituire una riserva di capitale non distribuibile di 2,5 volte l’importo. Dagli 828 milioni di Intesa Sanpaolo ai 440 di Unicredit, da Banco Bpm a Bper, e perfino le banche a controllo pubblico Mps, Mcc e Popolare Bari hanno scelto di non pagare e rafforzare il patrimonio.
I 12 leader nazionali erano chiamati a pagare la nuova imposta per 2 miliardi, ma non lo faranno, costituendo riserve patrimoniali per 5 miliardi. Utili non distribuiti, che tra l’altro riducono la tassazione prospettica del 2023. Il governo, come ha notato l’ad di Mediolanum Massimo Doris, incasserà di più, a fronte di utili maggiori. Ma in proporzione rischia di incassare meno: e nulla dalla nuova tassa.
La “parata di astensioni” avviene in un clamoroso silenzio, mentre dietro le quinte molti addetti ai lavori si chiedono come sia stato possibile per il governo prestarsi a un tale smacco. La ricostruzione che segue non troverà conferme ufficiali, ma la accreditano fonti per Repubblica attendibili. E rintraccia nel lavoro svolto sottotraccia tra agosto e settembre dalla vigilanza Bce-Bankitalia, in asse con l’Abi e con il Tesoro e con la sponda politica di Forza Italia, il fattore che ha scardinato i propositi estivi di Meloni, cui si erano accodati Matteo Salvini e la Lega.
L’opzione di evitare la tassa creando nuove riserve di capitale 2,5 volte maggiore fu introdotta il 23 settembre, con un emendamento del governo preparato dal Mef, dopo il quale FI ritirò i suoi. Dieci giorni prima la Bce aveva inviato al Tesoro il parere dovuto – ma ben critico – sull’imposta, con diversi argomenti.
L’interlocuzione tra Tesoro, Via Nazionale ed Eurotower fu intensa quei giorni: e a garantirla fluida si racconta che fu l’entourage di Fabio Panetta, membro uscente del direttivo Bce e governatore di Bankitalia in pectore, gradito a Meloni. Un altro aspetto critico, fatto notare dalla vigilanza ed escluso dal decreto nella conversione in legge, riguardava gli interessi da titoli di Stato, di cui le banche sono prime detentrici dopo la Bce stessa (ne hanno per 400 miliardi), e che poteva disincentivare il loro sostegno a Btp e simili.
Un terzo aspetto critico, di cui si sarebbe parlato solo dietro le quinte, riguardava Mps, salvata dal Tesoro nel 2017: la banca senese, in un percorso di rilancio, rischiava di pagare più caro di altre il nuovo obolo, riducendo le chance di riprivatizzarla l’anno prossimo (come da impegni con l’Ue), e gli incassi stimati (bene che vada ci saranno minusvalenze per alcuni miliardi). Si era a settembre, con lo spread in risalita, fin oltre i 200 punti base sul Bund. Ogni incidente poteva costare caro al governo. Che ha dovuto abbozzare, e di fatto rinunciare alla nuova tassa.
(da La Repubblica)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
MA CHE 36.000 TRASFERIMENTI L’ANNO. TRA TEMPI LUNGHI PER L’ANALISI DELLE DOMANDE DI ASILO E MANCATI RIMPATRI SARANNO POCHE MIGLIAIA
L’accordo siglato tra Giorgia Meloni ed Edi Rama fa acqua da tutte le parti, a cominciare dagli aspetti umanitari fino a quelli economici.
I dubbi riguardano soprattutto la convenienza per l’Italia del protocollo firmati, i cui costi finali per il nostro Paese non sono calcolabili al momento. Ma c’è una questione che il governo dovrebbe spiegare: i tempi preventivati per l’esame delle domande d’asilo all’interno dei centri che dovrebbero sorgere, a spese dell’Italia, in Albania, proprio non tornano.
Il problema è stato messo in evidenza oggi da La Repubblica, da Tito Boeri e Roberto Perotti. Durante una conferenza stampa la presidente del Consiglio ha detto che ci saranno 36mila richiedenti asilo, salvati in mare dalle unità della Guardia costiera e della Guardia di Finanza, che saranno portati ogni anno nel Paese extra Ue. La cifra deriva in particolare dall’articolo 4 del protocollo recita infatti:
La Parte italiana può realizzare nelle Aree le strutture indicate nell’Allegato 1. Le Parti concordano che il numero totale di migranti presenti contemporaneamente nel territorio albanese in applicazione del presente Protocollo non potrà essere superiore a 3.000 (tremila)
Quindi la previsione dei 36mila richiedenti asilo all’anno nasce dal fatto che il governo Meloni prevede di esaminare la domanda d’asilo per ogni migrante in un mese – viene fatta una semplice moltiplicazione, 3mila per 12 – come prevede appunto la legge italiana in materia (e le due strutture in Albania saranno sotto la giurisdizione italiana).
Il punto però sollevato da Boeri e Perotti è che questa tempistica non viene quasi mai rispettata. Anche se non ci sono dati ufficiali sui tempi dell’esame delle domande di asilo, perché il Viminale non li diffonde, i due economisti hanno interpellato degli operatori del settore in Veneto.
È emerso che i tempi medi per valutare la domanda sono di almeno 12 mesi, se le domande vengono accolte dalla commissione territoriale. Ma in caso di diniego il richiedente asilo può presentare ricorso, e il responso non arriva prima che siano trascorsi due anni.
I due economisti quindi ipotizzano che in Albania la commissione territoriale deputata all’analisi delle domande lavori speditamente come in Veneto, e che chi fa ricorso venga riportato in Italia, non rimanga nel Paese extra Ue: significa che in un anno potranno transitare nei due centri 3mila persone al massimo, e non 36mila, perché come dicevamo la risposta della commissione territoriale sull’accoglimento o meno della domanda non avviene in genere prima di un anno.
Ma 3mila è comunque una cifra ottimistica, fanno notare, perché il 30 per cento delle domande riceve una risposta negativa, e dunque il migrante può avviare un ricorso. Quindi ai famosi 3mila, dopo il primo anno bisognerebbe sottrarre il 30 per cento (900), che appunto a quel punto potrebbe fare ricorso: quindi potrebbero transitare in media 2100 persone all’anno, non 3mila.
E tutto questo porta a una considerazione: i costi stimati non sembrano proprio un affare per l’Italia. Da quanto sappiamo il nostro Paese dovrà versare all’Albania 16,5 milioni di euro a titolo forfettario entro 90 giorni dall’entrata in vigore del protocollo. Considerando che l’accordo ha una durata di 5 anni, questa somma potrebbe ammontare a 82 milioni di euro nel corso di questi 5 anni, con la possibilità di rinnovo per ulteriori 5 anni. È previsto poi un fondo di garanzia di 100 milioni di euro da versare su un conto corrente. Questo fondo potrebbe essere utilizzato per coprire varie spese o come garanzia per eventuali costi aggiuntivi. Ma tutto questo non servirà a gestire 36mila migranti ogni anno, ma come vi abbiamo spiegato, la gestione è molto più complicata degli annunci ottimistici della premier.
Anche perché è prevista la costruzione, a nostre spese, anche di strutture sanitarie e di abitazioni per il personale italiano che dovrà lavorare nei centri. Senza considerare il fatto che chi lascerà l’Albania dovrà comunque essere trasferito a spese nostre.
(da Fanpage)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
IN APERTO CONTRASTO CON IL MAGISTERO DEL PONTEFICE FIN DA QUANDO, NEL 2018, AVEVA DEFINITO “CREDIBILI” LE ACCUSE, POI FINITE IN UN NULLA DI FATTO, DELL’ARCIVESCOVO VIGANÒ
«Sollevato dal governo pastorale», cioè cacciato: Papa Francesco ha rimosso dalla diocesi texana di Tyler, negli Stati Uniti, il vescovo tradizionalista americano Joseph E. Strickland, in aperto contrasto con il magistero del pontefice fin da quando, nel 2018, aveva definito «credibili» le accuse poi finite in niente dell’arcivescovo Viganò, l’ex nunzio negli Usa che era arrivato a chiedere le dimissioni di Bergoglio.
È molto raro che un vescovo venga rimosso d’autorità: in genere, quando lo si vuole mandare via, gli si lascia prima la possibilità di dimettersi, pubblicamente rifiutata dal vescovo texano. Strickland ha 65 anni, dieci meno dell’età pensionabile dei vescovi. Molto attivo su «X», l’ex Twitter, all’inizio dell’anno aveva tra l’altro scritto di rifiutare «il programma del Papa che mina il Deposito della Fede».
Ma non si tratta solo dell’opposizione alle aperture di Francesco, dall’atteggiamento nei confronti delle persone Lgbtq alla possibilità di accedere ai sacramenti per chi non è «perfetto», né delle posizioni affini all’ultradestra americana come la contestazione dei vaccini contro il Covid e delle misure di contenimento della pandemia. In Vaticano si dice che l’indagine condotta dai due vescovi americani ha mostrato seri problemi di «comunione» tra il vescovo Strickland e gli altri preti della diocesi e i fedeli, e c’erano pure rapporti assai difficili con gli altri vescovi americani.
L’annuncio della rimozione è stato dato in contemporanea dalla Santa Sede e dalla Conferenza episcopale Usa. Il Papa ha nominato il vescovo di Austin, monsignor Joe Vasquez, come amministratore apostolico della Diocesi rimasta vacante, in attesa della nomina di un successore. Non è la prima volta che la Santa Sede interviene con durezza contro gli ultraconservatori in odore di scisma.
Alla fine dell’anno scorso don Frank Pavone, fervente sostenitore di Donald Trump, venne spretato per «comunicazioni blasfeme sui social media» e «persistente disobbedienza alle legittime istruzioni del suo vescovo diocesano». Proprio il vescovo Strickland, in quell’occasione, commentò su Twitter: «La blasfemia è che questo santo prete sia cancellato mentre un presidente cattivo promuove continuamente la negazione della verità e l’assassinio di non-nati, gli officiali vaticani promuovono l’immoralità e la negazione del deposito della fede e i preti promuovono la confusione gender devastando molte vite».
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
I NODI: IL PREMIO DI MAGGIORANZA, LE LISTE BLOCCATE, LA SOGLIA DI SBARRAMENTO E L’EVENTUALE DOPPIO TURNO…LEGA E FORZA ITALIA SONO PRONTE ALLE BARRICATE CONTRO LA REINTRODUZIONE DELLE PREFERENZE, BANDIERA STORICA DELLA MELONI
Alla «madre di tutte le riforme» manca un tassello decisivo: la legge elettorale. Il dibattito per il momento rimane sottotraccia, per il ministro Roberto Calderoli, intervistato da La Stampa, «chi ne parla ora non ragiona bene», ma l’eventuale introduzione del premierato impone dei cambiamenti.
I nodi per il momento sono almeno quattro: il premio di maggioranza, le liste bloccate, la soglia di sbarramento e l’eventuale doppio turno. Capitoli ostici, poco spendibili in talk show e comizi, ma al centro delle ansie dei partiti.
Nella maggioranza ci sono diverse visioni: Lega e Forza Italia sono pronte ad alzare le barricate contro la reintroduzione delle preferenze, bandiera storica di Giorgia Meloni, ma potrebbe non essercene bisogno perché FdI ha capito che non è aria e le liste resteranno bloccate. Compatto invece il no al doppio turno che tradizionalmente penalizza la destra, «si rischia di eleggere il premier con un’affluenza bassissima», è la posizione ufficiale. Altra incognita: come si sceglierà il candidato premier? Con le primarie, difficile, almeno a destra, o con accordo nelle coalizioni sul modello delle Regioni?
Il ministro delle Riforme Maria Elisabetta Alberti Casellati ha spiegato di essere al lavoro, «sto preparando un testo», senza entrare in alcun dettaglio e deludendo i parlamentari che non vogliono vedere anche questo dossier venire imposto dal governo. La riservatezza dell’ex presidente del Senato è ampiamente giustificata, Casellati sa che paradossalmente è più facile cambiare la forma di governo che mettere d’accordo i partiti per cambiare le regole del gioco.
Eppure, proprio l’introduzione dell’elezione diretta del presidente del Consiglio obbliga a cambiare il sistema di scelta dei parlamentari. In uno dei cinque articoli della riforma del premierato, infatti, si prevede il premio di maggioranza al 55%, inserendolo nella Costituzione, senza però indicare una percentuale minima da raggiungere per farlo scattare.
Questo è uno dei nodi cruciali. Non esistono posizioni ufficiali, ma i partiti cominciano a segnare il territorio per evitare sorprese. Forza Italia pensa che tra la percentuale ottenuta alle urne e quella del numero dei parlamentari debba esserci una differenza massima di 15 punti, detto in maniera più comprensibile: per raggiungere il premio di maggioranza del 55% bisogna prendere almeno il 40% dei voti.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari è stato molto più vago: «La soglia sarà sopra al 30%», aggiungendo poi, «sarà indicata nella nuova legge elettorale». Secondo il Pd si tratta di una soglia «risibile». Riccardo Magi di +Europa aggiunge: «Mettere il premio di maggioranza in Costituzione è un sotterfugio per evitare che la Consulta bocci questa riforma». In FdI si ipotizza di garantire premi di maggioranza graduali (uno per chi raggiunge il 33% e un altro, più consistente, per chi supera il 40%).
La sensazione di molti, a destra e sinistra, è che il premio di maggioranza possa essere modificato: «Il Parlamento dovrà dire la sua e il testo finale potrà essere diverso da quello attuale», dice Nazario Pagano, Forza Italia, presidente della commissione Affari costituzionali della Camera. Parole solo all’apparenza ovvie. Pagano sottolinea l’urgenza di intervenire sulla legge elettorale: «Bisogna cominciare subito a scrivere un testo base, che può essere anche soltanto una modifica della legge attuale. Sarebbe un punto di partenza».
(da La Stampa)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
“NON MI INTERESSA OCCUPARE UN POSTO PER OTTENERE UNA RIVINCITA, MA SE CI SARÀ UNO SPAZIO VORREI DARE IL MIO CONTRIBUTO”
Roberto Formigoni vuole rientrare in politica, non dove ha lasciato quando era presidente della Regione Lombardia e fu travolto dall’inchiesta Maugeri o per cercare una rivincita personale, ma perché è convinto che a 76 anni abbia ancora qualcosa da dire, da proporre e da fare ora che ha scontato per intero la condanna a 5 anni e 10 mesi per corruzione. Dopo 5 mesi nel carcere di Bollate nel 2019 e detenzione domiciliare due anni dopo e affidamento in prova ai servizi sociali, oggi salda il debito con la giustizia.
Quanto le è costato?
«La cosa che mi è pesata veramente è l’ingiustizia della condanna che ho subito. Sapere di non aver mai compiuto quello di cui mi accusavano e che stavo sopportando il peso di una sentenza politica senza colpa e senza prova, come disse il grande avvocato Franco Coppi dopo avermi difeso in Cassazione»
La sentenza passata in giudicato dice definitivamente che lei fu corrotto da Pierangelo Daccò con regali, viaggi esotici e altri benefit.
«Mi sono conformato ad essa anche se la ritenevo profondamente ingiusta. Daccò era un uomo ricco che da venti anni organizzava le vacanze ai Caraibi per una ventina di amici tra cui io. Non potendo io ricambiare con la stessa generosità, a Capodanno non potevo regalare più di una cravatta o un portafogli».
Se potesse tornare indietro, cosa non rifarebbe?
«Avrei fatto meglio a non fare quelle vacanze, perché un presidente di Regione, seppure lavorasse come un matto tutto il santo giorno, anche nelle vacanze avrebbe dovuto avere un atteggiamento più modesto».
Lei è stato ed è uomo di Cl. È cambiato il suo rapporto con Comunione e liberazione?
«No. È cambiata un po’ Cl».
Le è stata vicina?
«Sì. Ciellini qualsiasi e dirigenza, ma anche tante persone che non conoscevo che mi facevano capire che continuavano ad apprezzare il Formigoni che aveva fatto le cose e che avevano votato».
In questi anni ha tenuto un basso profilo. Perché?
«Era una delle indicazioni dei giudici di sorveglianza».
Non si è mai allontanato dalla politica. Molti si chiedono cosa farà ora.
«Non lo so. In tanti mi chiedono di rientrare, amici con cariche istituzionali, dirigenti di partiti e gente che incontro per strada. Io non ho ancora deciso, per il momento devo chiudere un percorso (nei prossimi mesi i giudici valuteranno formalmente se ha completato positivamente l’affidamento, ndr ). Voglio dare una risposta seria e responsabile. Non mi interessa occupare un posto per ottenere una rivincita, ma se ci sarà uno spazio per una elezione vorrei dare il mio contributo per riportare i giovani ad aver un rapporto diverso con la politica».
Alle prossime Europee?
«Che sia chiaro, io in questo momento non sono candidato da nessuna parte e le elezioni sono a giugno, si vedrà e comunque prima bisogna verificare se e quando potrò candidarmi, e questo non è ancora chiaro. Voglio prima rientrare nella vita normale».
Eventualmente, sempre nel centrodestra?
«Sì. Io sono sempre stato un cattolico popolare, la mia casa è il Partito popolare europeo».
Al quale aderisce Forza Italia.
«Ho una grande stima per Giorgia Meloni ed alcuni suoi ministri, ma sono e sarò un popolare democratico cristiano dentro il centrodestra».
Come si spiega che nonostante tutto la politica la cerchi ancora?
«Per rimpianto dei tempi passati, quando Formigoni governava la Lombardia le cose andavano meglio. Pensano che abbia dei consigli da dare. Da me vengono anche imprenditori e artigiani che fanno fatica a trovare punti di riferimento».
Forse perché quando lei era in politica il rapporto con l’elettore era diretto e i voti dovevate guadagnarveli di persona?
«Il fatto che i candidati siano scelti dal capo del partito credo sia l’handicap maggiore per la buona politica perché uno deve poter scegliere il candidato cui poi rivolgersi. Oggi non si sa chi cercare».
Dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi è cambiato qualcosa per lei in FI?
«Oggi è tutto diverso. Forza Italia, il Popolo delle libertà non ha più la forza che aveva ai tempi del primo Berlusconi».
Da oggi ha per intero la sua libertà. Cosa farà?
«Niente d particolare. Non c’è niente da festeggiare, al massimo un pranzo a casa di amici».
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2023 Riccardo Fucile
IL COGNATO E IL MANAGER VICINO AI CLAN
Gaetano Raspagliesi, cognato del presidente del Senato Ignazio La Russa, in affari con un imprenditore legato alla ‘ndrangheta del clan Bellocco.
Le parole inedite di Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, già esponente di primo piano del Msi a Milano, che svela la volontà di Antonino La Russa, padre di Ignazio, di candidare in Parlamento il banchiere della mafia, Michele Sindona.
E ancora, Fratelli d’Italia che nell’anno della sua nascita riceve un finanziamento dal partito di Silvio Berlusconi. Sono alcune delle rivelazioni della nuova inchiesta di Report sulla famiglia La Russa, in onda stasera su Rai3.
Nel prequel, non senza scatenare le ire del presidente del Senato che in un video inviato alla trasmissione replicò e minacciò querele, si era partiti dai vecchi affari tessuti da Nino La Russa e prima dal finanziere siciliano Michelangelo Virgillito.
Da qui raccontando la storia di un call center di Regione Lombardia aperto in Sicilia, a Paternò, paese di origine dei La Russa. Ed è dai call center che la nuova puntata riparte. Al centro Gaetano Raspagliesi, il quale dopo l’esperienza con la società Midica, finita con una perdita di 3 milioni, e salvata grazie all’intervento di un imprenditore bresciano, rilancia con un’altra società, la Melodica che mette gli occhi sulla Future srl, società del gruppo Blue Call (allora Call 5 srl), che fattura dieci milioni l’anno. Il contatto è con l’imprenditore Andrea Ruffino. È lui a presentare Raspagliesi al management di Blue Call. E il motivo è semplice: Raspagliesi è il cognato dell’allora ministro della Difesa. Siamo nel 2011. E però Ruffino si porta dietro un segreto: i suoi contatti diretti con i Bellocco. Così come racconta l’indagine della Procura di Milano. Che pur non indagando Raspagliesi mette agli atti intercettazioni in cui Ruffino lo definisce persona utile vista l’illustre parentela.
Ora, Ruffino portandosi in Blue Call la ‘ndrangheta finirà per soccomberle. Nel 2011 poi Raspagliesi acquista l’80% di Future srl per 2,8 milioni per rivenderla dopo tre mesi a 700mila euro a una società che per i magistrati rappresenta gli interessi della ‘ndrangheta a Milano.
Ma se nella vicenda Blue Call sono le carte giudiziarie a tratteggiare la storia, nel delineare i rapporti tra i La Russa e Sindona, c’è una intervista inedita di Staiti di Cuddia, rilasciata ben prima della puntata di Report che tanto ha fatto scaldare il presidente del Senato e che di fatto smentirebbe quanto dichiarato dallo stesso La Russa. “Sono certo che con Michele Sindona mio padre mai abbia intrattenuto alcun rapporto di lavoro e men che meno personale”, diceva nel video di replica alla trasmissione.
Eppure è Staiti di Cuddia che nel 2011, sei anni prima di morire, spiega in una videointervista che Ranucci stasera manderà in onda: “Nel 1976, elezioni politiche anticipate, era stata ventilata su suggerimento di Antonino La Russa la candidatura di Michele Sindona in un collegio senatoriale sicuro della Sicilia”. Sindona non sarà candidato. Staiti ricorda poi ciò che successe il 12 aprile 1973 a Milano, quando durante una manifestazione neofascista una bomba a mano uccise il poliziotto Antonio Marino. Condannati: Vittorio Loi e Maurizio Murelli. A quel corteo era presente Ignazio La Russa.
E, svela Report, per pagare le spese alla famiglia Marino intervenne proprio La Russa padre. Non si sapeva. Come non si sapeva che tra il 2012 e il 2013, quando nasce FdI, il neo partito di Giorgia Meloni riceve un finanziamento di 700mila euro da Forza Italia. La nascita di FdI è legata a ciò che accadde nel 2010, quando Berlusconi cacciò Gianfranco Fini dal Pdl. Una faida interna che, secondo Report, è legata anche alle dichiarazioni del pentito Spatuzza il quale, oltre a riscrivere la strage di via D’Amelio, fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri.
All’epoca il governo Berlusconi non rinnoverà il programma di protezione a Spatuzza. Questo racconta a Report l’ex Pdl Fabio Granata, allora vice presidente della Commissione antimafia. L’attacco più duro gli arrivò da Ignazio La Russa.
(da ilfattoquotidiano.it)
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