Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
“SCOMPARIRANNO I SUOI POTERI PIU’ IMPORTANTI”
Da protagonista delle crisi ad automa teleguidato, da garante delle istituzioni a guardiano di un programma politico. “Abbiamo deciso di non toccare le competenze del presidente della Repubblica“, ha detto la premier Giorgia Meloni presentando in conferenza stampa il ddl costituzionale sul cosiddetto “premierato” approvato venerdì in Consiglio dei ministri. Una falsità, o meglio una truffa delle etichette: pur tenendole in piedi nella forma, infatti, il testo firmato dalla ministra Elisabetta Casellati svuota le prerogative del Quirinale nell’ambito della crisi e della formazione del governo, irregimentandole in percorsi obbligati e senza margini di autonomia.
“Di fatto scompare uno dei poteri più ampi e multiformi, capace di svilupparsi in una direzione o nell’altra a seconda delle situazioni politiche. I paletti imposti sono talmente rigidi che il ruolo del capo dello Stato è in pratica annichilito“, commenta al fattoquotidiano.it Roberta Calvano, professoressa ordinaria di Diritto costituzionale all’Unitelma Sapienza di Roma. “Mi sembra che ci sia un eccessivo irrigidimento della forma di governo sulla figura del premier, rispetto al totale ridimensionamento del capo dello Stato e delle Camere”, riassume.
Le mosse obbligate del Colle: nella formazione del governo
Calvano individua cinque nuovi vincoli insuperabili che il ddl impone all’azione del Colle. “Il primo riguarda la scelta del capo del governo: dovrà nominare necessariamente il candidato della coalizione vincente alle elezioni e non avrà più – nemmeno formalmente – il potere di decidere”. E le consultazioni, che il presidente della Repubblica tiene in base alla prassi costituzionale per verificare l’esistenza di una maggioranza? “Direi che si possono considerare superflue, essendo l’esito obbligato”, afferma la docente. “Il secondo vincolo”, prosegue, “scatta se il premier incaricato non ottiene la fiducia delle Camere: il capo dello Stato non potrà affidare l’incarico a un soggetto diverso, ma dovrà reincaricare il vincitore delle elezioni per un secondo tentativo”. E se anche quello va a vuoto? Pure qui la via d’uscita è preimpostata: “Il presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”, recita il nuovo testo dell’articolo 94, terzo comma. E siamo al terzo vincolo.
…e nella crisi
Gli ultimi due riguardano invece la fase della crisi di governo. Se il presidente del Consiglio viene sfiduciato o si dimette, non ci saranno più consultazioni né trattative né retroscena politici sul futuro esecutivo: il capo dello Stato potrà solo terminare la legislatura o affidare l’incarico allo stesso premier dimissionario, o in alternativa “a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto”. È la famosa “norma anti-ribaltone“, pensata per cancellare l’eventualità di governi tecnici o “di unità nazionale” (come gli esecutivi Monti e Draghi), o ancora sostenuti da maggioranze di orientamento opposto a quella uscente (come il Conte II). Per rafforzarla, si prevede inoltre che il nuovo premier debba “attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto ha ottenuto la fiducia”. Una clausola che la premier Meloni ha commentato con parole piuttosto significative: “Nel momento in cui il programma di governo entra in Costituzione, anche il presidente della Repubblica ha un ruolo, perchè diventa incostituzionale fare qualcosa che è contraddittorio con il programma”.
Il Quirinale “garante del programma”?
Insomma, nei piani del governo il Quirinale si trasformerebbe in un notaio garante dell’indirizzo politico, “un mero esecutore di fatto subalterno al presidente del Consiglio“, osserva la costituzionalista. Che avverte: “Imporre un obbligo di fedeltà al programma significa comprimere il libero mandato parlamentare. Deputati e senatori non potranno cambiare idea sulle priorità del Paese senza per questo suicidarsi, cioè causare lo scioglimento obbligato delle Camere. Inoltre, pensare di blindare un programma rendendolo vincolante per tutta la legislatura è assurdo: vorrebbe dire congelare la realtà. Che succede se scoppia una guerra, o una catastrofe naturale, e il governo è costretto ad assumere scelte politico-economiche incoerenti con ciò che aveva annunciato? In teoria, anche solo per questo sarebbe costretto ad andare a casa”. Può anche succedere, però, che il premier o l’esponente di maggioranza alternativo incaricati dal presidente della Repubblica non riescano a ottenere la fiducia. E lì scatta il quinto vincolo: anche in questo caso, il capo dello Stato può solo prendere atto della situazione e sciogliere le Camere.
“La legge elettorale? È incostituzionale”
Altro contenuto discusso della riforma è la “costituzionalizzazione” del principio per cui la legge elettorale deve garantire al premier eletto i numeri per governare: il nuovo articolo 92 prevede che “un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri”.
Non è specificata, però, una soglia minima di consensi che il candidato debba raggiungere per ottenere il premio. Perciò, secondo Calvano, sotto questo aspetto la riforma “si pone in contrasto con la sentenza della Consulta che nel 2014 ha dichiarato l’incostituzionalità del Porcellum (la legge elettorale approvata nel 2005 dal governo Berlusconi, ndr) perché, non prevedendo una soglia, violava il principio di eguaglianza, attribuendo ai voti della lista o della coalizione vincente un valore molto superiore a quelli degli altri”.
Il testo in realtà lascia aperta la possibilità di subordinare il premio a un ballottaggio tra i due candidati più votati, ma non lo impone: “Si sarebbe potuto specificare che la legge elettorale debba prevedere un meccanismo a doppio turno. In assenza di questa previsione, a mio avviso, la norma è incostituzionale e il presidente della Repubblica dovrebbe rifiutarsi di firmarla“, afferma la professoressa. Notando, inoltre, come il premio di maggioranza attribuito su base nazionale per entrambe le Camere rischi di porsi “in contrasto con la stessa Costituzione, che afferma che il Senato viene eletto su base regionale”
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
L’EX PRESIDENTE DELLA CONSULTA BOCCIA LA RIFORMA: “RISCHIA DI SBANDARE” – “NON PENSO SIA IL CASO DI LIMITARE COSÌ FORTEMENTE IL POTERE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA”
Il professor Sabino Cassese non demonizza il progetto di premierato messo in campo dal governo di Giorgia Meloni, ma avverte come «perseguire un eccesso di obiettivi» possa risultare controproducente.
Quindi, questa riforma non garantirà maggiore stabilità dei governi?
«La precarietà dei governi nella storia repubblicana è, senza dubbio, un problema da affrontare. Ma si vuole rimediare per legge a una crisi che riguarda la politica e i partiti: la politica, perché è più volatile dello stesso elettorato, e i partiti perché, base della democrazia, non sono essi stessi democratici. E poi non serve dare più potere al presidente del Consiglio, ne ha già abbastanza
Meloni non sarebbe d’accordo…
«Basta considerare il numero dei decreti legge approvati: più di uno a settimana, in media. E l’aumento della squadra di Palazzo Chigi: più del 20% di nuove strutture e di dirigenti solo in un anno. Ma penso che sarebbe coerente con la riforma proposta inserire un potere di nomina e revoca dei ministri e di proposta di scioglimento delle Camere al presidente della Repubblica, in modo che il presidente del Consiglio diventi titolare di un organo sovraordinato ai ministri».
Concorda sul fatto che il premier eletto, con questo disegno, avrà meno potere di un eventuale premier sostituto non eletto?
«Sì, il secondo presidente del Consiglio appare più solido del primo, che può essere colpito dalla sua stessa maggioranza, senza ricorso a un voto anticipato. Di fatto, cercando di evitare il cosiddetto ribaltone, si spinge il leader del secondo partito a far cadere il premier eletto. In altre parole, si crea all’interno della compagine che si vuole consolidare una concorrenza, che pone in dubbio la stabilità dello stesso governo».
Cosa suggerisce, allora?
«Bisogna evitare di caricare la riforma di finalità, che rischiano di farla sbandare: dalla nuova legge elettorale al premio di maggioranza senza soglia minima fino, appunto, alla norma cosiddetta anti-ribaltone. Sarebbe meglio semplificare i mezzi per rimediare agli attuali malanni del sistema politico: ad esempio, prevedere che, se si vuole cambiare indirizzo politico, si va a nuove elezioni».
Tra le criticità segnalate c’è anche l’assenza di un ballottaggio tra i due candidati più votati, come avviene negli altri Paesi europei che prevedono l’elezione diretta. Che ne pensa?
«Il ballottaggio sarebbe ragionevole, perché consente al popolo di esprimersi due volte. Ma non piace a chi è in maggioranza, perché, in un Paese dove le minoranze sono solitamente divise, può spingere alla loro unione e quindi dare maggiore forza alle minoranze, facendole diventare maggioranza».
Poi c’è il capitolo che riguarda il Quirinale: si crea una frattura tra premier eletto dai cittadini e presidente della Repubblica eletto dal Parlamento?
«È chiaro che il primo avrebbe un’investitura diretta e il secondo solo indiretta. E non penso sia il caso di limitare così fortemente il potere del presidente della Repubblica di gestire le crisi di governo».
Il premier, in realtà, avrebbe una doppia investitura, dal popolo e dal Parlamento…
«E questo potrebbe creare un conflitto, mentre, a mio avviso, si potrebbe superare con la semplice indicazione del candidato presidente del Consiglio dei ministri nella scheda elettorale, come si è già fatto anche con l’indicazione nel simbolo del partito del nome del candidato».
Della cancellazione della figura dei senatori a vita di nomina presidenziale cosa pensa?
«Non credo sia necessario, è un altro esempio di quell’eccesso di finalità di cui parlavo, che finisce per indebolire la riforma costituzionale. Anche perché può diventare legge solo se riesce a raccogliere la maggioranza parlamentare dei due terzi: se si va al referendum, a mio avviso, finirà come quelli Berlusconi (2006) e Renzi (2016)».
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
AL SUO POSTO SAREBBE DOVUTO ANDARE IN ONDA ROBERTO SAVIANO, CON “INSIDER”. LUI, NELLE QUATTRO PUNTATE TRASMESSE DA FEBBRAIO A MARZO 2022, NON ERA MAI SCESO SOTTO GLI 817MILA SPETTATORI, PIÙ DEL DOPPIO DI CAMILA RAZNOVICH CHE IERI NE HA RACIMOLATI SOLO 348.000
L’ha ricordato ieri lo stesso Roberto Saviano in un post sui suoi profili social. “Oggi sarebbe iniziata Insider, la mia trasmissione su Rai3, trasmissione che avrebbe raccontato il potere criminale, che il governo ha censurato”. Al suo posto, ieri sera in prime time, è andata invece in onda la seconda puntata del programma di Camila Raznovich, Macondo. E gli ascolti sono stati un autentico disastro.
Macondo si è infatti arenato all’1.4% nella presentazione e al 2.3% nel programma vero e proprio. Trainato da Che Sarà di Serena Bortone che, malgrado l’ospitata di Sting e Trudie Styler, si è fermato al 2.6%, battuto anche dalla replica di Fratelli di Crozza sul Nove. Il tutto a vantaggio del rivale diretto Massimo Gramellini e del suo In altre parole, che ieri su La7 ha ottenuto il 5.7%, piazzandosi sul podio dei più visti in prime time, dopo Tú sí que vales e Ballando con le stelle.
A tal proposito, occorre aprire una parentesi: l’abbandono di Gramellini dell’access del sabato di Rai3 si sta rivelando un’autentica catastrofe. Prendiamo per esempio gli ascolti di sabato 5 novembre 2022, esattamente un anno fa. Le parole di Gramellini otteneva sulla Terza Rete Rai il 7.4% di share pari a 1.403.000 spettatori con una presentazione del 6.2% pari a 1.155.000. Ieri sera, alla stessa ora, Bortone ha raccolto il 2.6% con 481.000 spettatori. E con ospite Sting!
Tornando a Roberto Saviano, com’era andata invece la prima stagione del su Insider? Nelle quattro puntate andate in onda da sabato 12 febbraio al 5 marzo 2022 su Rai3, lo scrittore non era mai sceso sotto la media dei 817.000 spettatori (in una occasione ne aveva conquistati 1.201.000), ovvero più del doppio di Camila Raznovich che ieri ne ha racimolati solo 348.000 con il suo Macondo, ultimo fra i programmi di prima serata sui nove canali generalisti, ed ennesimo flop della Rai meloniana.
Si è rivelato dunque produttivo per Viale Mazzini cancellare il programma di Saviano e favorire l’esodo di Gramellini su La7 per ottenere questi esangui risultati?
(da Dagoreport)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
LA MELONI PROTEGGE SOLO LA SUA CORTE DEI MIRACOLATI
Vorrei spendere qualche parola in difesa dell’ambasciatore Francesco Maria Talò, anche se non ne ha certo bisogno, costretto alle dimissioni dall’incarico di Consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, dopo la nota vicenda della “finta” telefonata da parte di due “comici” russi, nella quale è cascata il nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Non so quali responsabilità abbia avuto realmente Talò nella gestione della telefonata, ma so che le sue dimissioni non possono comunque intaccare e in effetti non intaccano una brillante e prestigiosa carriera di leale servitore dello Stato. Carriera che, peraltro, ne sono sicuro, come è accaduto qualche mese fa per le dimissioni del capo ufficio stampa di Palazzo Chigi, Mario Sechi, non si concluderà qui.
Naturalmente se, come fonti del governo lasciano intendere, la finta telefonata non è stata un semplice scherzo ma un vero e proprio atto della guerra ibrida che la Russia è solita compiere nei confronti dei Paesi occidentali, la ricostruzione di quanto accaduto dovrà necessariamente essere compiuta dal governo nella riservata sede parlamentare competente del Comitato per la sicurezza della Repubblica. Comunque, sin da quando la telefonata è stata resa pubblica, la volontà del governo di addossarne la responsabilità all’Ufficio diplomatico di Palazzo Chigi è apparsa manifesta. E a quel punto, erano inevitabili le dimissioni del capo dell’Ufficio diplomatico, appunto l’ambasciatore Talò.
Talò quindi, dimettendosi, si è comportato ancora una volta con stile e correttezza, coerentemente con tutta la sua carriera. Ma se l’ambasciatore Talò si è comportato da uomo dello Stato, occorre dire pure che è stato anche l’unico a farlo.
Non altrettanto può dirsi infatti per alcuni componenti dell’esecutivo, sottosegretari e ministri molto vicini a Meloni, che hanno cercato subito di sollevarla dall’imbarazzo di essere stata così a lungo a telefono con un impostore, con un tono molto informale, lasciandosi andare a commenti e valutazioni poco opportune anche per una vera telefonata internazionale con un leader africano o di altra nazionalità.
Da parte di Giovanbattista Fazzolari, Alfredo Mantovano, Guido Crosetto, ci sono state dichiarazioni giustificative nei confronti di Meloni (e questo è comprensibile) ma anche inutilmente colpevolizzanti l’Ufficio che aveva trattato e inoltrato la telefonata.
Questo non mi è francamente piaciuto. Anche l’Ufficio e lo stesso Consigliere diplomatico di Palazzo Chigi andavano difesi, o quantomeno non andavano cosi esposti, a maggior ragione se la telefonata non era uno scherzo ma un atto di guerra ibrida. Uomini di governo e delle istituzioni non possono fare un così evidente scaricabarile nei confronti di altri uomini e uffici dello Stato. Nemmeno per difendere il Capo. Ma in questo governo, nel governo Meloni, è così forte l’istinto di proteggere solo il capo e di mostrarsi zelanti nel farlo che spesso si finisce per compiere un danno ben più rilevante alla istituzione.
Meloni è chiusa da un anno, da quando è al governo (in realtà anche da più tempo), in un fortino con una ristretta cerchia di persone. Tutti coloro che sono fuori dal suo fortino, anche i collaboratori istituzionali, sono considerati dei corpi estranei, con i quali lei deve necessariamente avere a che fare per ragioni di ufficio ma dei quali in fondo farebbe volentieri a meno.
Nella rappresentazione vittimistica del potere che la stessa Meloni fornisce, secondo la quale è circondata da nemici che ordiscono chissà quali trame per farla cadere (in realtà non si intravvede neanche una adeguata opposizione), finiscono per essere ricomprese anche persone che ricoprono ruoli che invece andrebbero tutelati e delle quali occorrerebbe fidarsi.
D’altra parte, Meloni pare non essere consapevole che spesso proprio lei e i suoi uomini più fidati hanno (ri)messo in mano a suoi storici e ancora attuali avversari importanti pezzi dello Stato, dalla sicurezza, alla giustizia, alla cultura. Giorgia Meloni dovrebbe invece (ma guai a darle consigli!) semplicemente uscire dal suo fortino.
Da un punto di vista personale, il caso della telefonata è il secondo, dopo i fuori onda dell’ex compagno Andrea Giambruno, consecutivamente fastidioso che capita a Meloni. In entrambi i casi, Meloni ha reagito nello stesso modo, apparentemente liberandosi del problema, in realtà non risolvendolo. Magari Meloni probabilmente ha avuto la sensazione di essere riuscita così ad uscire indenne dalle due vicende o addirittura rafforzata o avendo limitato le conseguenze negative. Ma ne è uscita solo più sola. E forse, per salvare la sua immagine, si è disfatta delle persone sbagliate, proprio di quelle di cui avrebbe più bisogno. Ne valeva la pena?
(da Huffingtonpost)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
LA FOTOGRAFIA DI UN ISOLAMENTO
Ricorre oggi l’anniversario dell’assassinio di Yitzhak Rabin a Tel Aviv, mentre Israele è nuovamente chiamato a far fronte a minacce esistenziali, dopo il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre. La città di Gaza è ormai completamente circondata dalle truppe di terra israeliane, e duri scontri si registrano nella Striscia. Ma l’attacco alla città non ha ancora preso avvio. Una fase sospesa, in attesa che il deflusso dei circa 7.000 cittadini stranieri o con doppia nazionalità sia completato. Ieri Antony Blinken è arrivato in Israele per una breve visita di 4 ore, la seconda dopo lo scoppio della crisi, ed ha incontrato il premier Benjamin Netanyahu, il gabinetto di guerra, il presidente Isaac Herzog e il leader dell’opposizione Yair Lapid. Ha poi proseguito la sua missione verso la Giordania e la Turchia. L’onda lunga dell’attacco di Hamas del 7 ottobre ha profondamente modificato il quadro delle relazioni internazionali, con ricadute diverse sui vari player.
Gli Usa
Gli Stati Uniti hanno dovuto impegnarsi nuovamente nell’area, dopo aver cercato di riorientare le loro priorità verso l’Estremo Oriente e il confronto con la Cina, oltre all’oneroso sostegno all’Ucraina attaccata dalla Russia. Il loro primo obiettivo è stato quello di evitare un’escalation del conflitto a livello regionale, che coinvolgesse anche l’Iran e i suoi alleati, e a questo scopo hanno inviato due portaerei, la Gerald R. Ford, la più grande al mondo, e la Dwight D. Eisenhower, per inviare un duro segnale di deterrenza. Essi hanno altresì ampiamente rifornito gli arsenali israeliani, con batterie Iron Dome, proiettili e armi di tutti i generi, sottolineando il diritto dello Stato ebraico all’autodifesa, dopo l’orribile attacco subito. La Camera dei Rappresentanti ha approvato giovedì scorso uno stanziamento di 14,3 miliardi di dollari per sostenere Israele, anche se i democratici e il presidente Joe Biden (che aveva proposto un più ampio stanziamento da 106 miliardi per sostenere anche l’Ucraina e Taiwan) promettono battaglia al Senato per ripristinare la proposta originaria. Il Pentagono si è detto altresì contrario alle proposte di cessate il fuoco, che rafforzerebbe solo Hamas, dandole il tempo di prepararsi meglio, e gli Usa hanno posto il veto a una risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che lo proponeva. La visita del presidente Biden del 18 ottobre, la prima di un presidente americano in tempo di guerra, ha segnalato un chiaro impegno a favore di Israele. Tuttavia la posizione americana si è via via fatta sempre più articolata, come ha confermato lo stesso Blinken: cercare di verificare quale sia la strategia israeliana nella conduzione della guerra; sottolineare sempre più l’esigenza di risparmiare la popolazione civile (i morti sfiorano ormai le 10.000 unità, anche se si tratta di numeri non verificati); assicurare l’uscita da Gaza dei 7.000 cittadini stranieri che vi risiedono; garantire e incrementare l’afflusso costante degli aiuti umanitari alla popolazione; cercare di localizzare e liberare gli ostaggi; arginare l’ondata di violenze antipalestinesi dei coloni in Cisgiordania. Questo anche attraverso l’adozione di “pause umanitarie temporanee e localizzate”, momenti di respiro come li ha chiamati il presidente americano, che consentano di garantire un approccio più rispettoso dei diritti umani e delle leggi internazionali. Gli Usa, contrariamente al Governo israeliano, si pongono anche il problema del day after, e riaffermano l’opzione di restituire la Striscia al controllo di una Autorità Palestinese rinnovata e rivitalizzata, che veda anche il supporto di una forza di peacekeeping, composta da Stati arabi e da organizzazioni internazionali, che possa garantire una pacifica gestione transitoria, in un’ottica di rilancio di una soluzione a due Stati. È difficile anche solo immaginare che l’attuale governo di estrema destra possa contemplare un percorso di questo genere, anche se la formazione di un gabinetto di guerra, cui partecipa anche Benny Gantz, svolge in qualche modo un ruolo di bilanciamento e garanzia. Permane tuttavia una sensazione di non completa fiducia nella leadership israeliana in questa ardua sfida. È come se gli Usa, in cambio del loro esteso sostegno militare, vogliano riservarsi almeno in parte una supervisione sulla conduzione della guerra, evitando che essa possa andare fuori controllo. Secondo alcune voci, peraltro smentite da autorevoli fonti Usa, a essere messa in discussione è la stessa capacità del premier Netanyahu di guidare il confronto, e per questo andrebbero infittendosi i contatti con i leader dell’opposizione, Yair Lapid, con Benny Gantz e con l’ex premier Naftali Bennett.
La Russia
La Russia trae grande vantaggio dalla crisi a Gaza, che ha radicalmente distolto l’attenzione dalla guerra contro l’Ucraina, e reso più arduo la continuazione del sostegno degli Usa. La Russia, che tradizionalmente mantiene buoni rapporti con Israele, e ha un patto per evitare incidenti aerei in Siria, è venuta indurendo la sua posizione sulla guerra. Non ha condannato l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma ha fatto appello per un cessate il fuoco, riaffermando il suo sostegno per la creazione di uno Stato palestinese. Una risoluzione da essa presentata al Consiglio di Sicurezza è stata bocciata, proprio per la mancata condanna di Hamas. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha affermato a fine ottobre che il bombardamento israeliano di Gaza è contro la legge internazionale. Putin è arrivato a comparare il blocco israeliano di Gaza all’assedio nazista di Leningrado, uno degli eventi più traumatici della storia russa. Più in generale, la Russia non ha apprezzato la sia pur cauta condanna israeliana dell’invasione dell’Ucraina, e questa tendenza è rafforzata dallo sviluppo dei suoi legami con l’Iran, che è il suo principale fornitore di droni e missili per la conduzione della guerra. Israele teme quindi un riallineamento delle posizioni russe, e questi timori sono confermati da una serie di recenti episodi. Il 26 ottobre, una delegazione di Hamas, guidata dal prestigioso leader Abou Marzouk, ha visitato Mosca, suscitando le proteste di Israele, anche se da parte russa si è ribadita la necessità di mantenere rapporti con tutte le parti in conflitto, anche allo scopo di facilitare la liberazione degli ostaggi. Tre giorni dopo, nella repubblica russa del Daghestan, a prevalente popolazione musulmana, centinaia di rivoltosi hanno preso d’assalto un aeroporto per dare la caccia agli israeliani in arrivo da Tel Aviv. Secondo quanto riportato dal Washington Post due giorni fa, il gruppo russo paramilitare Wagner sta pianificando di inviare sistemi di difesa antiaerei SA-22 agli Hezbollah, in Libano (la notizia è stata tuttavia smentita dal portavoce russo Peskov).
La Cina
La Cina non aspira a rimpiazzare il ruolo degli Usa in Medio Oriente, ma è soddisfatta di vedere gli Stati Uniti nuovamente impantanati nella regione, il che distoglie la loro attenzione dalla competizione con Pechino, ampliandone le possibilità di affermare la sua egemonia nell’Indo-Pacifico. Essa tende anche a capitalizzare il diffuso sentimento anti-americano che i bombardamenti israeliani provocano, per rafforzare la sua influenza. Come la Russia, la Cina non ha condannato l’attacco di Hamas, e ha definito la reazione israeliana come “punizione collettiva”. Essa ha riaffermato la sua posizione di lunga data a favore dei palestinesi, anche se non di Hamas, e la sua posizione può essere definita di “neutralità antioccidentale”, una posizione coincidente con quella di molti paesi del Sud del mondo, tra cui cerca di rafforzare la sua influenza. Tuttavia, essa tende ad avere una posizione più contenuta, e a proporsi come potenziale mediatrice del conflitto. Ha proposto la convocazione di una Conferenza Internazionale di pace, anche per sottrarre agli Stati Uniti la posizione di arbitro incontrastato del conflitto. D’altronde, il coinvolgimento cinese nell’area è stato dimostrato dalla mediazione svolta tra Iran e Arabia Saudita, che ha portato alla ripresa dei rapporti diplomatici del giugno scorso: e la recente telefonata tra il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman e il presidente iraniano Ebrahim Raisi a proposito della crisi, la prima tra i due leader, è stata una conferma di quel ruolo. La Cina ha d’altronde significativi collegamenti economici con la regione. È il principale partner commerciale della maggior parte dei paesi Mena (Medio Oriente e Nord Africa) e quasi la metà del petrolio importato viene dal Golfo. Lo scorso anno il commercio complessivo della Cina con il mondo arabo è stato pari a 430 miliardi di dollari.
L’Iran
L’Iran è il principale beneficiario della crisi. L’attacco di Hamas è piombato a piedi pari sui negoziati in corso tra Israele e l’Arabia Saudita, con la mediazione degli Usa, per arrivare ad un accordo di normalizzazione tra i due paesi, sulla falsariga di quelli realizzati tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan alla fine del 2020. Un accordo di tal fatta avrebbe marginalizzato l’Iran, isolandolo in tutta l’area. Inoltre, l’attacco ha spezzato il mito dell’invincibilità israeliana, evidenziandone i limiti e la fragilità. Ancora, ha allontanato l’attenzione dalla questione del programma nucleare iraniano, nel momento in cui era in discussione il rinnovo delle sanzioni. Infine, ha deviato la vigilanza sulla repressione dei diritti umani e in particolare delle donne da tempo in atto nel paese. Secondo il Washington Post, alti ufficiali iraniani hanno partecipato attivamente alla preparazione dell’attacco, attraverso ripetuti incontri a Beirut che hanno visto la presenza, oltre che di Hamas e dello Jihad Islamico, di rappresentanti di Hezbollah e delle Guardie rivoluzionarie iraniane stanziate in Siria. Circa 500 miliziani di Hamas sarebbero poi stati addestrati in Iran nel settembre precedente. L’Iran è infine il principale fornitore di mezzi militari delle organizzazioni islamiche presenti a Gaza, con un arsenale molto più aggiornato rispetto all’invasione israeliana del 2014, con droni esplosivi, missili anti carro e razzi ad alto impatto, il tipo di armi che ha trasformato il campo di battaglia in Ucraina. Anche per questo le perdite israeliane sono più che raddoppiate, con 26 morti in una settimana, rispetto ad un totale di 67 perdite in 7 settimane nella campagna del 2014. Blinken ha tuttavia dichiarato di non avere evidenza di un coinvolgimento diretto dell’Iran nell’attacco, anche se le sue relazioni con Hamas sono certamente di lunga durata. La concezione di deterrenza dell’Iran si basa su due pilastri essenziali: i missili e i droni di varia gittata e precisione (il suo armamento di terra è al contrario obsoleto, e risale ai tempi della guerra con l’Iraq); e la cosiddetta “deterrenza di profondità”, che si basa sulla possibilità di colpire Israele, e anche le basi Usa in Siria e Iraq, attraverso il sistema dei suoi alleati, in Iraq, Siria, Libano, Gaza, fino agli Houthi in Yemen: la cosiddetta mezzaluna sciita. La possibilità quindi di lanciare una guerra multifronte, di cui si sono avute alcune avvisaglie nei mesi passati. Tuttavia, come si è detto, gli avvertimenti e le misure di deterrenza americane sono stati precisi e determinati, e l’Iran con ogni probabilità sceglierà di capitalizzare sui risultati già ottenuti, senza rischiare di andare a uno scontro frontale. L’Iran esce quindi rafforzato, e la già ricordata telefonata tra il presidente Raisi e Mbs sottolinea il suo ruolo ineludibile nella regione, pur se può essere letta anche come un segnale saudita volto ad evitare ulteriori escalation.
L’Arabia Saudita
L’Arabia Saudita ha subito un duro colpo dall’operazione di Hamas, ed è stata costretta a congelare il processo di normalizzazione con Israele. La sua ambizione di giocare un ruolo centrale nell’assetto regionale è stata ridimensionata, e Mbs ha dovuto scegliere di giocare in difesa, rinunciando a svolgere un ruolo centrale nella soluzione del conflitto. Ci si è limitati alla reiterazione di posizioni di principio, quali il richiamo al Piano Arabo di Pace del 2002, l’appello a una immediata cessazione dell’escalation tra le due parti, il categorico rifiuto delle richieste israeliana di trasferimento forzoso della popolazione palestinese da Gaza, la condanna dei bombardamenti sulla popolazione civile inerme. Nessuna condanna di Hamas. A dire il vero, i sauditi il 18 ottobre hanno convocato l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC), composta da 57 membri, che nella mozione conclusiva ha denunciato l’inazione e il doppio standard della comunità internazionale in risposta alle operazioni militari israeliane a Gaza. Ma tutte queste dure dichiarazioni erano in realtà volte a fornire una copertura dopo i mesi di negoziati per arrivare alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Qualche voce critica si è tuttavia levata, come quella del principe Turki bin Faisal, già capo della sicurezza Saudita e ambasciatore a Londra e Washington, che durante un convegno a Houston ha attaccato non solo Israele e l’Occidente per lo spargimento di sangue a Gaza, ma anche Hamas per la sua follia omicida in Israele, ricordando che secondo i principi dell’Islam non è ammesso uccidere bambini, donne, anziani. Anche se ora è un privato cittadino, ha probabilmente detto in pubblico ciò che i reali sauditi vorrebbero dire ma non possono. Il conflitto a Gaza rappresenta anche un duro colpo alla capacità di attrarre potenziali investitori privati per il faraonico piano “Saudi Vision 2030” promosso da Mbs , che già faticava a decollare, ed era costretto a basarsi quasi esclusivamente sul sostegno dei fondi pubblici, pur facilitati dall’alto prezzo del petrolio. Tuttavia, per vie parallele, i sauditi avrebbero comunicato agli americani che dopo la fine del conflitto sarebbero pronti a riprendere il processo di normalizzazione con lo Stato ebraico.
Gli Emirati Arabi Uniti
Gli Emirati hanno fortemente beneficiato degli accordi di Abramo, a tutti i livelli, e intendono continuare a coglierne i vantaggi. Il giorno successivo all’attacco di Hamas, l’8 ottobre, il Ministero degli Esteri degli Emirati ha criticato Hamas per la sua “seria e grave escalation”, affermando di essere “sconvolto” dalle notizie secondo cui civili israeliani erano stati presi in ostaggio. Ha sottolineato altresì che i civili di entrambe le parti devono avere piena protezione ai sensi del diritto internazionale umanitario e non devono essere bersaglio di conflitti. La presa di posizione si differenziava profondamente da quella dell’Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo. Gli Emirati hanno tuttavia condannato Israele per il bombardamento dell’ospedale a Gaza, addossandogliene la responsabilità. Stanno adottando una posizione simile a quella assunta per il conflitto tra Russia e Ucraina, astenendosi dal sospendere i legami con Israele e cercando di mantenere aperta una finestra di opportunità con Hamas, evitando di affibbiarle l’etichetta di terrorismo. La leadership emiratina deve anche tener conto della sua constituency filo-palestinese, e comprende che la causa palestinese è troppo importante per essere ignorata completamente. Per questo, nell’ultimo anno ha cercato di prendere le distanze dal governo israeliano di estrema destra, presentando anche proposte di risoluzione al Consiglio di Sicurezza, nella sua qualità di membro non permanente, per imporre un blocco all’espansione degli insediamenti israeliani. Proprio ieri, ha dichiarato di lavorare instancabilmente per garantire un cessate il fuoco umanitario, e ha messo in guardia contro i rischi di una ricaduta regionale del conflitto. Questi rischi riguardano in particolare le minacce avanzate dagli Houthi in Yemen, di colpire gli interessi degli Usa nella Regione, e la stessa Israele. Eventuali attacchi di droni o missili Houthi contro Abu Dhabi, simili a quelli del gennaio 2022, minaccerebbero gravemente la sicurezza nazionale, la salute economica e la reputazione degli Emirati come oasi di stabilità nella regione.
Il Qatar
Il Qatar ha svolto un ruolo centrale, in coordinamento con gli Stati Uniti, nel raggiungere un accordo tra Israele, Hamas e Egitto per garantire la fuoriuscita giornaliera da Gaza, attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, di centinaia di cittadini stranieri o con doppia nazionalità (in totale, sarebbero circa 7.000), e di civili palestinesi gravemente feriti. Parallelamente, verrebbe assicurata l’entrata quotidiana di centinaia di camion recanti aiuti umanitari per la popolazione civile. Un accordo di straordinaria importanza, che gli Stati Uniti stanno cercando in ogni modo di mantenere in funzione. Il Qatar può essere ad ogni titolo essere definito un paese cerniera, con una influenza assai maggiore della sua dimensione. Un piccolo paese, con appena 300.000 abitanti, ma che ospita la più grande base militare Usa nell’area, insieme ai più importanti leader di Hamas all’estero, Ismail Haniyeh e Khalid Meshaal. Esso condivide con l’Iran la più grande riserva di gas naturale al mondo. È altresì sede del network Al Jazeera, il più influente del mondo arabo. L’anno scorso, ha ospitato la Coppa del Mondo di calcio. Per anni, in coordinamento con Israele, ha sovvenzionato Hamas con 30 milioni di dollari al mese, in passato anche con valigie piene di contanti che passavano attraverso i valichi con Israele, e servivano a pagare gli impiegati pubblici, a sostenere la popolazione civile e a tenere calma la situazione. Il Qatar non ha pubblicamente condannato l’attacco di Hamas, e, come altri paesi arabi, ha deprecato l’escalation dei bombardamenti contro i civili a Gaza, definendoli come “barbari”. Malgrado questa aspra retorica, il paese mantiene costanti rapporti con Israele, e lo scorso week end, secondo il Washington Post, David Barnea, direttore del Mossad, ha visitato in segreto Doha per discutere del rilascio degli ostaggi e di altri aspetti particolarmente sensibili.
L’Egitto
L’Egitto, attraverso il valico di Rafah, controlla l’unica via d’uscita dalla Striscia di Gaza ancora in funzione. Ma ha fatto molta resistenza prima di accettare l’accordo che permette di far partire da Gaza i residenti stranieri. Un concept paper elaborato dal Ministero dell’Intelligence israeliano ipotizza che i 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza vengano trasferiti nel Sinai, dapprima in tendopoli nel Nord della penisola, per poi costruire città permanenti. Verrebbe istituita in Israele una zona di sicurezza per impedire il ritorno degli sfollati. Non si chiarisce il destino di Gaza una volta svuotata dalla sua popolazione. Anche se l’ufficio del primo ministro ha sminuito tale documento, definendolo “un esercizio ipotetico”, le sue conclusioni hanno rafforzato i timori egiziani di vecchia data, che Israele voglia fare di Gaza un problema egiziano, ed hanno ravvivato nei palestinesi il ricordo della “Naqba” del 1948. Israele avrebbe anche avanzato la proposta che la Banca Mondiale possa stralciare una larga porzione del debito egiziano in cambio di tale trasferimento, dando sollievo alle sua acuta crisi debitoria, seconda solo a quella dell’Ucraina. Ma il presidente Al-Sisi ha respinto decisamente tali ipotesi, e ha affermato che l’afflusso di una massa di rifugiati dal Sinai rischierebbe di portarvi anche militanti palestinesi, che potrebbero portare attacchi contro Israele, mettendo in pericolo lo stesso trattato di pace del 1979. Ha proposto invece che Israele ospiti i palestinesi nel deserto del Negev, confinante con la Striscia, finché non porrà fine alle sue operazioni militari. D’altronde, l’Egitto ha a lungo dovuto far fronte alla guerriglia di gruppi armati islamisti nel Sinai, spesso collegati ai miliziani di Hamas attraverso un sistema di tunnel, e non vuole trovarsi di fronte ad una recrudescenza del problema.
La Giordania
La Giordania ha condannato con particolare durezza la guerra israeliana che sta uccidendo persone innocenti a Gaza, creando una catastrofe umanitaria senza precedenti, e il 1° novembre ha richiamato il proprio ambasciatore in Israele, invitando Israele a ritirare il suo. La reazione giordana, che come la maggior parte degli stati arabi non ha condannato l’attacco di Hamas, è dovuta sicuramente al fatto che la maggioranza della sua popolazione è di origine palestinese, e la corona sente messo in pericolo il suo stesso futuro se la guerra dovesse ancora aggravarsi. Un altro timore è che una ulteriore escalation, a livello regionale o anche in Cisgiordania, possa produrre una nuova ondata di profughi, dopo quelle del ‘48 e del ’67. Il 19 ottobre, Re Abdullah aveva annullato il previsto summit con Biden, cui dovevano partecipare anche il presidente palestinese Abbas e il presidente egiziano Al-Sisi, in seguito all’esplosione verificatasi in un ospedale di Gaza, inizialmente attribuita ad un bombardamento israeliano, anche se in seguito è risultata essere stata prodotta da un razzo dello Jihad islamico andato fuori bersaglio. Il giorno prima, decine di manifestanti avevano tentato di assaltare l’Ambasciata israeliana. Ad Amman si è tenuto il summit dei ministri degli Esteri di Emirati arabi, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto, insieme al segretario generale dell’Olp Hussein al-Sheik, alla presenza del segretario di Stato americano Antony Blinken. La Giordania afferma che obiettivo del vertice è “fermare la guerra israeliana a Gaza e il disastro umanitario che sta creando”. I ministri arabi hanno portato a Blinken la richiesta di un cessate il fuoco immediato e la consegna urgente di aiuti umanitari. I ministri discuteranno anche delle ripercussioni della guerra e dei modi per porre fine a questo deterioramento che minaccia l’intera regione.
Il Bahrain
Giovedì il Bahrein ha annunciato il ritiro del suo ambasciatore in Israele e non è chiaro se anche l’ambasciatore israeliano sia stato espulso. La decisione sarebbe stata adottata dal Parlamento, in relazione al conflitto tra Israele e Hamas, per il forte aumento delle vittime civili e per il blocco della Striscia densamente popolata. Israele afferma di non avere avuto comunicazioni ufficiali al riguardo. La notizia è di particolare gravità, poiché il Bahrain è uno dei paesi che avevano aderito agli accordi di Abramo, nel 2002, normalizzando le relazioni con Israele. Il Bahrein è un piccolo arcipelago nel Golfo Persico, dove la famiglia reale Al Khalifa, alleata dell’Arabia Saudita e espressione della minoranza sunnita, governa su una popolazione per il 70% sciita. Durante la Primavera araba, nel 2011, una insurrezione della popolazione fu schiacciata grazie all’intervento armato dei sauditi, di Emirati e Kuwait. La monarchia regnante teme ora pesanti ripercussioni per il conflitto in atto a Gaza.
Il Marocco
Il Marocco, anch’esso firmatario degli Accordi di Abramo, è profondamente scosso dalle ripercussioni del conflitto in atto. Mentre le dichiarazioni ufficiali condannavano gli attacchi contro i civili “da qualsiasi parte” e sottolineavano la necessità di dialogo e negoziati, migliaia di marocchini a Rabat scendevano in piazza per chiedere l’annullamento degli accordi di normalizzazione, ed il Partito islamico Giustizia e Sviluppo elogiava l’attacco di Hamas come un atto eroico, una reazione naturale e legittima alle quotidiane violazioni israeliane. Ancora oggi, un comunicato del Ministero degli Esteri ribadisce la grande preoccupazione e l’indignazione per l’escalation delle operazioni militari a Gaza e la situazione catastrofica delle condizioni umanitarie, con le sempre più larghe devastazioni e le migliaia di vittime civili. Tutti questi atti sono in contraddizione con il diritto umanitario internazionale, si afferma, mentre aumentano i rischi di escalation del conflitto nei Territori palestinesi e di espansione della violenza alle aree vicine, minacciando così la stabilità dell’intera regione. Si esprime il disappunto per l’inerzia della Comunità internazionale e dello stesso Consiglio di Sicurezza, ed il sostegno alla Autorità palestinese e alle sue istituzioni. Il regno del Marocco chiede una riduzione della tensione che porti ad un cessate il fuoco e alla creazione di canali umanitari, per facilitare l’ingresso degli aiuti nonché il rilascio di prigionieri e detenuti, con l’obbligo di riaprire una prospettiva politica alla questione palestinese, con il rilancio della soluzione a due stati.
La Turchia
Inizialmente, Ankara aveva scelto un approccio più cauto, basato su tre linee: dare chiaro sostegno retorico e umanitario alla popolazione di Gaza; ricercare un terreno comune con altri attori regionali; prendere cautamente le distanze da Hamas in seguito ai suoi attacchi. Le autorità turche avevano detto agli esponenti di Hamas presenti nel paese che non potevano più garantire la loro sicurezza, il che equivaleva a un invito ad andarsene. Avendo perso la scommessa che puntava a uno sviluppo moderato di Hamas attraverso l’impegno politico, la Turchia non era sembrata disposta ad appoggiare o difendere gli attacchi terroristici. Erdogan aveva usato un tono moderatamente critico rispetto alla risposta militare di Israele, per continuare a migliorare gradualmente i rapporti bilaterali. Probabilmente, Ankara puntava sulla possibilità di svolgere un ruolo di mediazione tra le parti, ma poi ha dovuto prendere atto del fatto che l’iniziativa diplomatica faceva riferimento al Qatar e all’Egitto. Il presidente Erdogan, lo scorso 28 ottobre, durante una manifestazione per celebrare il centenario della nascita dello Stato turco, che ha riunito centinaia di migliaia di persone, ha impresso una brusca svolta alla posizione turca: ha definito come criminali i comportamenti di Israele a Gaza, e ha affermato che i combattenti di Hamas non sono terroristi. Fino a oggi, con la decisione di richiamare in patria per consultazioni il proprio ambasciatore in Israele, Sakir Ozkan Torunlar – pur confermando di voler mantenere i rapporti diplomatici con lo Stato ebraico – e con la dichiarazione pubblica di Erdogan contro Netanyahu, definito “una persona con cui non si può più parlare”, e contro le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra da parte di Israele a Gaza, che “faremo di tutto per portare davanti alla Corte penale internazionale”. Quanto basta, per il Ministero degli Esteri israeliano, per affermare che Erdogan si sta schierando come Hamas. Il deterioramento delle relazioni tra Israele e Turchia ha già avuto pesanti conseguenze sull’economia turca, che già versa in condizioni critiche. Il cambio con il dollaro è precipitato pesantemente, e l’allarme tra gli investitori stranieri, che contavano sulla distensione tra i due paesi, si è diffuso. Domenica è atteso Blinken, proveniente dalla Giordania, per un paziente lavoro di ricucitura diplomatica. Gli Usa considerano la Turchia come una potenziale componente della forza internazionale di peacekeeping che dovrebbe assicurare una pacifica transizione dopo la fine della guerra a Gaza.
Hezbollah e il Libano
Dallo scoppio della guerra sono venuti infittendosi gli attacchi da parte di Hezbollah e di milizie palestinesi operanti nei campi profughi nel Sud del paese, con lanci di razzi, colpi di mortaio e droni che hanno mantenuto alta la pressione su Israele, che ha reagito ogni volta. Questa costante pressione ha costretto lo Stato ebraico a dislocare parte delle sue forze sulla frontiera nord del paese, distogliendole dal conflitto in corso a Gaza. Tuttavia, la tensione da ambo le parti è stata mantenuta entro limiti contenuti, senza degenerare in un conflitto più generale con un approccio che richiama la cauta posizione assunta dall’Iran. Hezbollah dispone di un arsenale dieci volte più potente e assai più preciso di quello di Hamas, è in possesso di uno stock di circa 150.000 missili e droni a media e lunga gittata, in grado di colpire pesantemente e in profondità l’intero territorio israeliano. Tuttavia, l’organizzazione islamica esita ad aprire un nuovo conflitto con Israele, simile a quello del 2006, sia per le terribili condizioni economiche in cui versa il paese, sia per gli avvisi ricevuti dagli Usa, con le forze di deterrenza messe in campo nel Mediterraneo orientale. Proprio ieri, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel suo primo intervento pubblico dall’inizio del conflitto ha negato che il suo gruppo fosse in qualsiasi modo a conoscenza dell’attacco del 7 ottobre, che “è stato al 100% palestinese in termine di decisione e esecuzione”. Egli è sembrato così prendere in qualche modo le distanze da quell’operazione, non ha in alcun modo espresso l’intenzione di ampliare la partecipazione del suo gruppo al conflitto con interventi di vaste proporzioni e ha messo in guardia Israele contro la messa in atto di operazioni preventive, anche se ha reiterato le sue minacce contro Israele ed espresso la sua solidarietà con i militanti palestinesi e i loro martiri. D’altronde, i rapporti con Hamas non sono dei migliori: l’organizzazione sciita le rimprovera di essersi schierata contro Assad, all’inizio della guerra civile in Siria. Esponenti politici e giornalisti libanesi hanno risposto per le rime all’appello del leader di Hamas Khaled Meshaal, che chiedeva di aprire un secondo fronte contro Israele, mentre le sue forze sono impegnate a Gaza. Meshaal aveva criticato l’approccio graduale e limitato adottato da Hezbollah sul confine settentrionale di Israele, giudicandolo insufficiente. Le sue osservazioni sono state respinte, come provenienti da un uomo che alloggia in un albergo a cinque stelle a Doha. Un giornalista vicino ad Hezbollah ha aggiunto che se Meshaal arriva a Beirut, è pronto a portarlo nel Sud del paese perché possa combattere in prima persona.
(da Huffingtonpost)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
SCORTATO DALLA GUARDIA DI FINANZA CHE LO AVEVA INTERCETTATO A POCHI CHILOMETRI DALLA COSTA
Oltre 500 persone sono sbarcate a Lampedusa dopo che il vecchio peschereccio sul quale viaggiavano è stato agganciato dalla Guardia costiera e scortato in porto. I naufraghi, per la precisione, sono 531, quasi tutti originari del Bangladesh: ci sono anche cinque donne e sei bambini. Erano tutti straripati su una barca di 25 metri, salpata da Zuarah, in Libia.
Alcuni provengono anche da Siria, Pakistan ed Egitto, e hanno raccontato di aver pagato dai 4 mila ai 7 mila dollari per la traversata. Una volta arrivati in porto (alla banchina commerciale, per evitare i rischi dovuti al forte vento, i migranti sono stati suddivisi in piccoli gruppi e trasferiti nell’hotspot dell’isola, dove erano presenti 45 ospiti. Sono soccorsi a circa 35 chilometri dalla costa.
Appena qualche giorno fa un altro peschereccio con a bordo 426 persone era stato soccorso a Lampedusa. Altri due vecchi pescherecci erano arrivati nelle settimane precedenti, nonostante il maltempo e il mare grosso.
La situazione nell’isola sembra comunque essere molto diversa da quella di metà settembre, dove in pochi giorni erano arrivate migliaia di persone, portando l’hotspot di Contrada Imbriacola sull’orlo del collasso.
Dall’inizio del 2023 al 3 novembre sono sbarcate in Italia 144.708 persone. Sono i numeri del cruscotto del ministero dell’Interno, che mostrano le differenze con gli stessi periodi degli anni precedenti: da gennaio a novembre nel 2022 erano arrivate 87.332 persone, l’anno precedente erano state 54.251.
La maggior parte delle persone che arrivate in Italia via mare nel 2023 provengono da Guinea (17.710), Tunisia (16.096) e Costa d’Avorio (15.800). A seguire – nella lista dei Paesi di provenienza stilata sempre dal Viminale – ci sono Egitto, Bangladesh, Burkina Faso, Siria, Pakistan e Sudan.
(da Fanpage)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 5th, 2023 Riccardo Fucile
COSA ACCADREBBE SE LE OPPOSIZIONI USASSERO L’ESEMPIO UMANO E ISTITUZIONALE DEL CAPO DELLO STATO PER CONTRASTARE LE NUOVE REGOLE COSTITUZIONALI DI GIORGIA MELONI? GLI ALTRI TIMORI CHE SERPEGGIANO NELLA MAGGIORANZA RIGUARDANO LE EVENTUALI DIMISSIONI DEL CAPO DELLO STATO
E se qualcuno volesse utilizzare il probabile referendum sul premierato strumentalizzando il nome di Mattarella? Che cosa succederebbe se le opposizioni usassero il suo esempio, umano e istituzionale, per contrastare le nuove regole costituzionali di Giorgia Meloni? Chi vincerebbe, tra gli italiani?
Ecco alcune domande, congegnate secondo il periodo ipotetico della possibilità, che circolano nei palazzi della politica dopo la presentazione di quella che la premier ha chiamato «la madre di tutte le riforme», sulla quale il governo sta scommettendo il proprio futuro. Gli altri timori che serpeggiano nella maggioranza riguardano le eventuali dimissioni del capo dello Stato nel caso che il cambiamento comunque si imponga. Posto che appassionino, certo dividendoli, i protagonisti della vita pubblica, questi temi non raccolgono risposte al Quirinale. Dove il silenzio stavolta è privo di aggettivi: né enigmatico, né irritato, né compiaciuto.
È solo silenzio, e si capisce. L’alternativa sarebbe di rassegnarsi a una rincorsa di congetture, azzardi e polemiche sulla presidenza della Repubblica destinate a trascinarsi per almeno 12-18 mesi (senza contare i tempi necessari a fare poi un referendum, qualora la maggioranza non superasse i due terzi dei voti parlamentari). Ovvio, insomma, che l’eventualità di un così prolungato periodo di illazioni e dispute sia insopportabile per Sergio Mattarella. Il quale non può e non vuole lasciarsi trascinare nel piccolo cabotaggio della politica, anche se l’inquilina di Palazzo Chigi ha cercato di tenerlo fuori dalla faccenda citando rapporti collaborativi con lui grazie ad una «interlocuzione con gli uffici del Quirinale».
E qui bisogna ragionare su questa parola, elevata dal lessico giuridico più polveroso al linguaggio politico corrente da Giuseppe Conte. Non a caso l’ex premier grillino amava definirsi «l’avvocato del popolo» e si dichiarava sempre pronto alle «interlocuzioni» con destra e sinistra. Da allora molti usano quel termine forse perché ha risonanze antiche e perfino solenni. L’ha fatto pure la Meloni, lasciando quasi intendere che il capo dello Stato e i suoi tecnici abbiano espresso una sorta di consenso preventivo al premierato. Non è così. Mattarella, dopo aver ricevuto una visita della ministra Elisabetta Casellati, che gli aveva portato una prima bozza della riforma, si è limitato a far chiedere alcuni chiarimenti tecnico-giuridici, come è d’uso nella leale collaborazione fra istituzioni.
(da Il Corriere della Sera)
argomento: Politica | Commenta »