Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL GIUDIZIO NEGATIVO DI CASSESE, MIRABELLI, FLICK, PINELLI, CLEMENTI E LIUCIANI
Il testo di riforma costituzionale è stato appena approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri. Ha scatenato una serie di obiezioni dei costituzionalisti, sin dal momento in cui sono emerse le prime bozze. Suscita perplessità innanzitutto l’elezione diretta del premier, ma seguono una serie di altri distinguo, tutti fatti con dovizia di argomentazioni. Vediamo quali.
ELEZIONE DIRETTA DEL PREMIER
Cosa prevede la riforma. Il presidente del Consiglio, che fino a oggi è stato nominato dal presidente della Repubblica a seguito di un giro di consultazioni fatte per accertare che ci fosse una maggioranza, sarà “eletto a suffragio universale e diretto”. Saranno quindi i cittadini a eleggere direttamente il premier. Il presidente della Repubblica gli darà mandato di formare il governo.
Quali sono le obiezioni. La stragrande maggioranza dei costituzionalisti ritiene che l’elezione diretta del premier sia un’operazione fallimentare. Lo testimonia la storia: “Ci hanno provato, un po’ di anni fa, in Israele, ma dopo pochi mesi è stata eliminata, in quanto non andava bene”, ha detto ad HuffPost Cesare Pinelli, ordinario di diritto pubblico alla Sapienza. Perché non andava bene? “Perché manteneva la figura del Capo dello Stato, esautorandola di molti poteri. Rendendola, insomma, una figura irriconoscibile”. Su come cambia la figura del presidente della Repubblica torneremo tra poco.
Come ha spiegato ad HuffPost Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato alla Sapienza: “L’elezione diretta del premier produrrebbe un solo effetto: quella di rendere il cittadino un tifoso, secondo un modello trumpiano o bolsonariano. E a noi non servono tifosi ma, al contrario, cittadini consapevoli che il loro voto sarà ascoltato”. Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale, approva la direzione che prende la riforma, ma invita a introdurre il meccanismo della sfiducia costruttiva: per sfiduciare un premier, bisogna trovare contestualmente un governo nuovo che si regga su una maggioranza.
RAPPORTO MAGGIORANZA-PREMIER E “NORMA ANTIRIBALTONE”
Cosa prevede la riforma. L’osservazione di Cassese ci consente di spiegare come si articolerà il rapporto di fiducia tra il premier e la sua maggioranza. Si legge nel testo della riforma: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. E questo vale a inizio legislatura, dal momento che le elezioni del premier saranno simultanee a quelle del Parlamento e il premier sarà anche un parlamentare. Ma se ci sono problemi durante la legislatura, che accade? “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto – si legge nel testo – il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
Quali sono le obiezioni
Questa prospettiva è vista con molta freddezza dai costituzionalisti, perché considerato troppo rigido. Secondo ciò che ha detto a vari quotidiani Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, “dobbiamo interrogarci se un’eccessiva rigidità, dove oggi ci sono spazi di flessibilità, sia opportuna”. Non è opportuna secondo Clementi, secondo il quale “il disegno di legge crea tre ostaggi”. Per sintetizzare: il premier è ostaggio della sua maggioranza, la maggioranza ostaggio del premier e il presidente della Repubblica ostaggio perché non può far nulla in caso di crisi. Il disegno, infatti, esclude governi tecnici. Come osserva a La Stampa Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, la norma anti-ribaltone crea un paradosso: “Il secondo premier della legislatura, che non riceve un mandato popolare a governare avrebbe più poteri del premier eletto dai cittadini, disponendo solo lui dell’arma dello scioglimento delle Camere”, ha detto in un’intervista a La Stampa. Per Massimo Luciani, costituzionalista alla Sapienza anche lui intervistato dal quotidiano di via Lugaro, la disposizione secondo la quale è possibile che il secondo premier sia un parlamentare di maggioranza – eletto, sì, quindi, ma non per fare il presidente del Consiglio – “è la dimostrazione del fallimento di qualsiasi norma anti-ribaltone”. Ancora più netto Pinelli, che sostiene: “L’elettore è il primo a essere stato ingannato. Perché nel corso della legislatura gli cambiano le carte in tavola: lui voleva X, lo ha votato, invece arriva e un certo punto Y. Non funziona, è evidente”.
RUOLO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Cosa può fare oggi. Come abbiamo già spiegato, ha un potere vero e concreto di nomina del premier e di scioglimento della Camere. Con la riforma questi due poteri saranno un pro forma, perché dovrà solo essere notaio di scelte obbligate.
Quali sono le obiezioni. Per Clementi: “Abbiamo un Capo dello Stato che, anche in momenti di difficoltà, vedrebbe le sue mani ancora più legate, facendo venire meno il presidente della repubblica come motore di riserva che si attiva in momenti di crisi”. Il professore della Sapienza vede anche un altro rischio: “Il rischio è che con questa mancanza di flessibilità, con questa figura del presidente della Repubblica che non può intervenire neanche in caso di crisi tra il premier e la sua maggioranza, si finisca per andare alle urne anche più volte in un anno”. Per Mirabelli ci sarà “una forte limitazione della libertà del Quirinale che sarebbe sempre più ridotto a un ruolo meramente notarile”. Per Flick: Non ci si rende conto che la creazione di due fonti, una parlamentare per la nomina del capo dello Stato e l’altra elettorale per la legittimazione del premier, è destinata a creare una prima notevole frattura tra i due soggetti istituzionali”. Secondo Luciani al Colle vengono sottratte funzioni essenziali.
LA LEGGE ELETTORALE
Cosa prevede la riforma. Affinché la riforma funzioni (o almeno ci provi) viene prevista la necessità di una legge elettorale con premio di maggioranza. Se ne farà menzione proprio in Costituzione. Al nuovo articolo 92, infatti, si leggerà: “La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura”.
Quali sono le obiezioni. Il più netto sul fronte è Cesare Pinelli, che parla di “dramma”. Poi aggiunge: “Capisco il perché dell’idea, ma non risolve i problemi, ne pone di ulteriori. L’abbiamo sperimentata e non è andata bene: un sistema del genere funziona, aiuta, se una maggioranza c’è. In quel caso le si assicura un premio in seggi. Ma se la maggioranza non c’è,la legge funziona da stampella: si dà un premio in seggi, in modo improprio, a una maggioranza che non rappresenta il Paese. Faccio notare inoltre che su questo è già intervenuta la Corte costituzionale”. Per Luciani “prevedere che la legge fissi addirittura un premio di maggioranza fino al 55% lascia molto perplessi”. Ad essere pregiudicato, argomenta il professore, “è il principio di un’adeguata rappresentatività”.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
COME MELONI PRESENTA UNA RIFORMA IN CUI TRA LEI E IL POPOLO SCOMPAIONO QUIRINALE E PARLAMENTO
Giorgia Meloni non è la prima, e probabilmente non sarà l’ultima, a ripercorrere il cammino, peraltro il più vecchio del mondo, su cui parecchi sono già inciampati, tra bicamerali fallite e bocciature referendarie: l’idea che, una volta chiamati a governare, si debba mettere su il grande circo delle riforme, che fa molto “statista”, accompagnato da una certa pomposità sulla “rivoluzione da compiere”, la transizione da chiudere, la “Terza Repubblica” da fondare.
Quella postura da “anno zero”, esibita anche nella conferenza stampa di oggi, per cui prima c’è lo sfascio e ora l’occasione per la palingenesi. Insomma, sempre meglio che parlare di tutto ciò che non va nel governo: una rivoluzione promessa in luogo di una rivoluzione mancata.
La via della Terza Repubblica è lastricata di tentativi andati a vuoto, anche di gente che maneggiava meglio la materia. La novità, a questo giro, sta nel “come” e nel “che cosa” della proposta, sfavillante esempio di populismo da far studiare nei manuali, in cui modalità e contenuti, merito e metodo si spiegano a vicenda e fanno una “narrazione”. Partiamo dal soggetto: il governo è il governo di un capo che va avanti a colpi di decreti e fiducie, pure sulla cabina di regia sul Piano Mattei (si ravvisa la necessità e urgenza, ma non ci sono soldi e contenuti), composto da comprimari, senza una dinamica politica reale.
Esso vara, e siamo all’oggetto, un disegno di riforma che sancisce formalmente la democrazia di un capo, dove l’unica cosa che conta è l’elezione diretta del premier, non la coerenza complessiva dell’architettura. C’è il leader e c’è il popolo. Tutto ciò che è in mezzo è un impiccio, dal Parlamento al capo dello Stato, con cui evidentemente si creano le premesse di un conflitto istituzionale permanente, tra una figura legittimata dal voto popolare e l’altra dal voto parlamentare. Un pasticcio.
In nessun paese al mondo, dove c’è un’elezione diretta, non viene contestualmente stabilito se è a turno unico e ballottaggio o quale sia il limite dei mandati.
Riguarda la forma delle istituzioni ma, dice la premier con la stessa leggerezza con cui si usa il telefono a palazzo Chigi, il ballottaggio o meno si vedrà quando si parla di legge elettorale, che con la forma di governo non c’azzecca nulla.
E in nessun paese al mondo c’è una norma, per cui, se il premier si dimette, è previsto l’obbligo di nominare un altro esponente della stessa maggioranza che debba eseguire lo stesso programma, concetto buono per la propaganda, meno per la dinamica reale: un eventuale successore di Giorgia Meloni, dovrebbe fare o no i blocchi navali presenti nel programma e su cui ha cambiato idea?
Quel che conta, ad ogni evidenza, non è il funzionamento ma come siffatto capolavoro viene presentato, l’effetto “manifesto politico”, nutrito di ossessione leaderistica: il governo di un capo, forte del suo rapporto col popolo, vara a maggioranza, senza uno straccio di confronto con le opposizioni, un progetto di democrazia plebiscitaria, e lo presenta, appunto, senza mediazioni.
Anche qui: c’è lui (in questo caso lei) e il popolo nella campagna referendaria. Non il Parlamento, e infatti in conferenza stampa la premier lancia già la crociata del referendum: chi ci sta bene, sennò ci vediamo nelle urne. Propone disintermediazione e pratica disintermediazione. Le riforme non come costruzione costituente, da realizzare insieme agli altri perché le regole del gioco riguardano tutti, ma come clava contro gli avversari, usando tutto l’armamentario antipolitico e populista: gli “inciuci”, le “maggioranze arcobaleno”, i “governi tecnici”.
Piuttosto ardito pensare che, su questo schema plebiscitario, si possa separare, come auspicato da Giorgia Meloni, l’esito delle riforme, che per questa modalità hanno già il referendum incorporato, dal governo. Se si vota su un capo, che al tempo stesso governa e chiama il plebiscito sulle riforme, si vota su un capo, punto. Inevitabile l’intreccio dei due piani.
Dicevamo, la narrazione populista, sta proprio nel rapporto tra la realtà e la rappresentazione. Come le norme sui rave party non servono a governare il problema della sicurezza, né i centri per l’accoglienza servono a governare il fenomeno migratorio ma sono solo bandiere securitarie, questo non è un disegno di riforma compiuto, ma anch’esso una bandiera che segnala uno scarto e uno scalpo sul terreno più importante, quello della “Repubblica nata dalla Resistenza”.
Non c’è la grande rupture presidenzialista che avrebbe avuto una sua organicità, ma comunque l’impianto “made in Italy”, per gli eredi del polo escluso, estranei a quel patto fondativo, è sufficiente a tenere viva la propria alterità. Elemento questo vitale per Giorgia Meloni: preservare, mentre governa, l’ostentata diversità identitaria e il racconto anti-sistema. Anzi più aderisce al sistema nella struttura, più il resto diventa il terreno di un recupero identitario attraverso incursioni ove possibile. Non sarà una rivoluzione, ma non è poco.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELLA FONDAZIONE LEONARDO, CHE EDITA LA RIVISTA “CIVILTÀ DELLE MACCHINE”, PUNTA AL COLLE PIÙ ALTO, CON I “FRATELLI D’ITALIA” A FARE LA CLAQUE… LA FONDAZIONE LEONARDO È UN LAB, DIREBBE MELONI, CHE CHE SI CANDIDA A DIVENTARE QUELLO CHE IL MULINO È STATO PER PRODI
La civiltà di Meloni è oggi la Civiltà delle macchine. La partecipazione della premier all’AI Safety summit di Londra racconta l’ultimo spericolato amore della destra. Sta emergendo una “destra in Tesla” che parla d’intelligenza artificiale, algoretica, metaverso e che la sera sul comodino sfoglia una rivista e un libro.
La rivista è Civiltà della Macchine, e la edita la Fondazione Leonardo, presieduta da Luciano Violante, mentre il libro è Il mondo in sintesi di Cosimo Accoto. Esiste un lab, direbbe Meloni, una fondazione che si candida a diventare quello che il Mulino, a Bologna, è stato per Prodi.
La sede è a Via del Plebiscito 102, Palazzo Grazioli. Era la casa di Berlusconi. Qui, la sera, si sfasciavano i governi. E’ lo studiolo di Violante, il “cosacco” per Meloni, il sinistro-destro, che ora si occupa di spazio insieme a Pietrangelo Buttafuoco, designato alla guida della Biennale di Venezia.
La rivista è diretta da Marco Ferrante e a dirla tutta è sempre stata ritenuta la casina di campagna della sinistra colta. Hanno lavorato qui Antonio Funiciello, la nipote di Giorgio Napolitano. Oggi collaborano Stefano Bartezzaghi, Marco Belpoliti di Repubblica e Nadia Terranova della Stampa. La sera c’è chi vede entrare anche Roberto Cingolani, “quella gran testa di Cingolani”, diceva Mario Draghi, che lo volle ministro della Transizione ecologica, adesso ad di Leonardo.
Basta scorrere l’indice per trovare gli ultimi argomenti della premier, vale a dire le possibili discriminazioni dell’intelligenza artificiale, la banda larga nello spazio, la space economy. A sentire Giordano Bruno Guerri, storico, il maestro della bella biografia (Malaparte, Bottai) non si può parlare di “scappatella” ideologica.
Meloni si occupa di IA “perchè gli uomini intelligenti si interessano di tecnologia a differenza degli ottusi che la scansano. L’IA sarà la grande questione del nostro tempo, più dei conflitti bellici”.
Era il 21 settembre quando Meloni, all’Onu, per la prima volta introduce nel suo discorso di governo “l’algoretica”. Sarebbe l’etica applicata agli algoritmi. Ci sono echi di Pasolini, Pound, intuizioni di Violante e poi ci sono gli articoli di un manipolo di scienziati che Violante-Ferrante-Buttafuoco hanno scoperto prima dell’esplosione dell’IA come tema.
C’è insomma di tutto: l’umanesimo, i byte, i libri di Asimov, l’IA che, ha spiegato Meloni, a Londra, “può generare meccanismi decisionali opachi, intrusioni nella nostra vita privata”, fino ad arrivare “ad atti criminali”
La sinistra in questo dibattito risulta assente, la destra, compreso Salvini, fa invece a gara per conversare con Musk, il nuovo Leonardo per alcuni, un bulletto, un nuovo oligarca, secondo l’Ft.
Si è fatto ricevere da Meloni, ma Meloni ha incontrato a Chigi, era il 5 settembre, anche Reid Hoffman, il fondatore di Linkedin, sempre per discutere di IA. L’Italia ci organizzerà perfino un G7, in Puglia, a Borgo Egnazia. Al governo, la competenza, per quanto riguarda l’IA, è del ministro Urso che però è troppo preso dai carrelli tricolori (litiga con Butti, il sottosegretario che vorrebbe più spazio)
A Palazzo Grazioli, Violante li rimpiazza entrambi. Poche settimane fa ha organizzato un incontro con Leon Panetta, ex direttore della Cia, intervistato da Monica Maggioni perché, come sempre accade, i pensatoi sono in realtà autostrade. Dove portano non si sa, ma valgono il pedaggio. Collabora con Civiltà delle Macchine anche la giornalista Rai, Barbara Carfagna, la prima a scommettere sull’intelligenza artificiale tanto da farne trasmissioni, così come Roberto Battiston, ex presidente dell’Agenzia spaziale italiana.
In mezzo ci sta sempre Violante che quando ha bisogno di fare le cose in grande, eventi, chiama Alessandro Giuli, presidente del Maxxi. Questa estate, al Meeting di Rimini, Violante si è messo a parlare pure di web 3.0. Nel comitato scientifico della Fondazione Leonardo siede Alberto Castelvecchi, che si è inventato la casa editrice Castelvecchi, esperto di difesa.
Dato che Violante è vitruviano basta che allunghi le braccia e arriva anche ad Anna Finocchiaro e all’associazione Italia decide, promossa, tra gli altri, dall’impareggiabile Giuliano Amato che qualche titolo per presiedere la Commissione Algoritmi ce l’ha, anche solo per incrocio. Insomma, il meccanico è Violante, Buttafuoco e Giuli sono i gommisti. E’ la destra in Tesla.
(da il il Foglio)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
SE LA TRATTA SUPERA LE 4 ORE, I SOVRANISTI VIAGGIANO TRA CONFORT E COSTI EXTRA, TANTO PAGANO I CITTADINI DEL LAZIO
Francesco Rocca vola solo in business class. E la novità vale anche per il suo staff. Se la tratta supera le 4 ore, si viaggia in prima classe. Comfort e costi extra? Tutto a spese dei cittadini del Lazio, che a loro insaputa hanno già dovuto aprire il portafogli per la trasferta del governatore meloniano in Etiopia. Merito di una delibera di giunta votata lo scorso 17 ottobre.
Come scrive il Fatto Quotidiano riportando il contenuto dell’atto, al governatore e agli assessori della sua giunta è concesso il rimborso del biglietto “in classe business inclusi i diritti di agenzia” per “i viaggi di durata superiore alle quattro ore”.
Per i voli più brevi – prescrizione che valeva per tutte le tratte con la giunta Zingaretti – c’è invece la classe economica. Prima classe di nuovo concessa per treno e nave.
Come detto, la novità vale anche per “i collaboratori della delegazione”. Fino all’ultimo dei portaborse. “I componenti della delegazione – si legge nella delibera – possono essere accompagnati da un numero massimo di quattro collaboratori, appositamente incaricati dal presidente della Regione, ai quali spetta il rimborso delle spese di missione”.
La platea è ampia, comprende anche il personale amministrativo e “non più di due collaboratori appartenenti alla struttura di diretta collaborazione appositamente incaricati”. Viaggio lungo, massima comodità
La prima applicazione del nuovo regolamento è arrivato con il viaggio ad Addis Abeba, una missione servita a “siglare una serie di accordi significativi nell’ambito dello sviluppo economico”. Così spiega una nota ufficiale della Regione guidata dai Fratelli d’Italia. Con il presidente c’erano altri tre collaboratori, per un totale di poco più di 10 mila euro di spesa.
Un viaggio costoso, ma sicuramente più comodo di quello per New York dello scorso settembre. Da lì sarebbe nata l’idea di iniziare a volare in business.
(da agenzie)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LA PROMESSA FATTA SULLA QUESTIONE DEL COMODATO D’USO
«Io vivo all’estero, non sono fissa su Milano. Silvio Berlusconi la casa me l’ha donata, e ci vivo ancora. Me l’ha regalata, perché dovrei lasciarla?».
Barbara Guerra non ci sta. Dopo la richiesta di sfratto alle ragazze di via Olgettina a Milano per «l’estinzione in conseguenza del decesso» del contratto di comodato d’uso degli appartamenti concessi dal Cavaliere, non vuole lasciare l’immobile. «Le promesse di Silvio nei miei riguardi erano diverse dalle ricostruzioni pubblicate sui giornali. Non è vero che ora che Silvio è morto io debba abbandonare l’immobile», ha dichiarato al Corriere.
I suoi legali hanno diffuso una nota con la quale precisano che «il titolo abitativo deriva dalla precisa volontà del dottor Berlusconi di donare alla signorina Guerra la proprietà dell’immobile in virtù della loro lunga e affettuosa frequentazione». Spiegano che «vi è ampia prova documentale e sonora». E allegano un file audio contenente la registrazione definita una conversazione tra Berlusconi e Guerra. L’audio risalirebbe al 2015. «Primo impegno mio, domani informo i proprietari della casa e ti facciamo avere subito un contratto di comodato. Sai cos’è? È la dazione gratuita di una casa», spiega la persona che sembra esser Berlusconi. L’audio è stato pubblicato su la Repubblica. Barbara Guerra chiede perché il comodato d’uso e non l’intestazione. «L’intestazione non è possibile perché è corruzione», spiegano dall’altro filo del telefono. Poi il presunto Silvio Berlusconi si lamenta che non si possono spendere mille euro in contanti. E torna su una precisazione richiesta dalla Guerra: il comodato è senza scadenza. «Te lo giuro sui miei 5 figli – spiega – appena finisce il processo te la intesto».
(da agenzie)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
NEL COMITATO MILANO-CORTINA COMPARVE UN FIGLIO DI LA RUSSA, L’ALTRO, GERONIMO, È PRESIDENTE DELL’AUTOMOBILE CLUB DI MILANOLA,,, LA NUMERO 2 DEL TENNIS ITALIANO È L’EX SINDACA DI TORINO, CHIARA APPENDINO
Il calcio. Il tennis. Gli sport invernali. Le bocce, persino. In uno dei momenti più difficili per il Paese, stretto tra crisi internazionali ed economiche, c’è un settore che la politica in generale, e il centrodestra di governo in particolare, non perde mai d’occhio: lo sport.
Eppure a Roma ci siamo portati avanti: non è ancora sicuro che ci saranno gli stadi per ospitare le partite, ma la Federcalcio ha già creato un ufficio. Risponde al dipartimento marketing e ha assunto i primi collaboratori. «Da lunedì 23 ottobre ci lavora Filippo Tajani, figlio del vicepremier, ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia, Antonio», hanno scritto nei giorni scorsi alcuni blog ripresi da siti di informazione. Filippo ha un buon curriculum, assicura chi lo conosce. E comunque non dovrebbe sentire troppo il peso di essere “figlio di”, non fosse altro perché negli uffici della Federcalcio non è il solo: a Casa Italia, l’ufficio che si occupa delle attività del centro di Coverciano sede della nazionale, ci lavora da più di un anno Marta Giorgetti, la poco più che ventenne figlia del ministro dell’Economia e delle Finanze.
Un piccolo cortocircuito che in questi mesi più volte è stato fatto notare a Giancarlo Giorgetti: negli anni scorsi proprio lui gridava «via la politica dallo sport» in nome della battaglia allo spreco e agli sperperi, ma evidentemente non ha voluto impedire il lavoro, legittimo, della figlia proprio in quel settore.
Davvero la Federcalcio non aveva altri da scegliere per quei posti che non fossero figli di politici di centrodestra? E soprattutto: era così necessario creare un ufficio organizzatore, con tanto di assunzioni a tempo, per un evento che comincerà tra dieci anni?
Perché tutta questa fretta? Chi vuole male al presidente federale Gabriele Gravina parla di un suo tentativo di riposizionamento con l’attuale governo, lui da sempre considerato vicino al centrosinistra, tanto che il suo nome è più volte rimbalzato come possibile candidato governatore nell’Abruzzo dell’amico Giovanni Legnini, ex commissario alla ricostruzione post-sisma. Ma c’è anche chi fa notare come le Federazioni, e prima ancora Sport e Salute, la spa cassaforte dello sport italiano, in quanto enti di diritto privato da sempre siano utilizzati dalla politica per distribuire poltrone comode e ben remunerate. La passione è antica.
Per dire: la famiglia del presidente del Senato, Ignazio La Russa, oltre alla tradizionale fede interista, ha puntato sulle quattro ruote e sugli sport invernali. Geronimo, il primogenito, è presidente dell’Automobile club di Milano, che significa essere di fatto il re del circuito F1 di Monza. Ed è candidato per la poltrona di numero uno dell’Aci, dove da una vita è seduto il potentissimo Angelo Sticchi Damiani. Come venne fuori a marzo scorso, nel comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali di Milano- Cortina compariva il nome dell’altro figlio del presidente del Senato, Lorenzo La Russa, e la sua ex segretaria, Lavinia Prono.
Ma lo sport è anche un ottimo ripiego per chi, per scelta o necessità, fa un passo di lato dalla politica: la numero 2 del tennis italiano è l’ex sindaca di Torino, Chiara Appendino, in una Federtennis in cui lavorano molti amici del M5S. Il segretario della Federbocce è invece Riccardo Milana, ex parlamentare Pd. Le istituzioni sportive non lasciano a piedi nessuno. Nessuno che abbia un cognome importante, almeno.
(da agenzie)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LA SENATRICE: “COMPLIMENTI PER LO STILE”
La scissione della mai nata federazione tra Azione e Italia Viva ha tutte le caratteristiche di una guerra di trincea. Matteo Renzi, nelle strategie parlamentari, sembra stia riuscendo meglio di Carlo Calenda nel logoramento degli avversari. Lo scorso 19 ottobre, ha imposto il cambio del gruppo al Senato, cancellando il nome di Azione e sostituendolo con il Centro. La controversia non è stata sciolta con una prima mediazione del presidente di Palazzo Madama, Ignazio La Russa, che avrebbe proposto ad Azione di costituire un intergruppo nel Misto e a Italia Viva di costituire un gruppo ex novo. Questione di ripartizione delle risorse economiche già predisposte per il gruppo attuale. Così, è stata chiamata a esprimersi la Giunta del regolamento del Senato. Martedì 7 novembre si riaggiornerà, dopo un primo incontro inconcludente: vista la mancanza di precedenti, è difficile stabilire a chi spetterà risolvere una disputa che riguarda regole interne ai gruppi. Nel frattempo, un altro colpo è stato assestato dalla componente renziana del gruppo, che vanta sette senatori su 11 totali. Il capogruppo a Palazzo Madama, l’ex Pd Enrico Borghi, ha rimosso l’azionista Mariastella Gelmini dalla commissione Affari costituzionali. Al suo posto, premiata la new entry del partito di Renzi, la senatrice Dafne Musolino.
Lo sfogo sui social
Come spesso è accaduto in questa legislatura, i contrasti tra Azione e Italia Viva hanno trovato immediato sfogo sui social. «Non farò più parte della commissione Affari costituzionali del Senato. Non l’ho deciso io, ma Renzi e Borghi, che non hanno avuto neanche il coraggio di dirmelo. La decisione mi è stata comunicata, con non poco imbarazzo, da una funzionaria di Italia Viva. Complimenti per lo stile». Al post di Gelmini, ha risposto lo stesso Borghi: «Cara Maria Stella, visto che ti sei abituata, in compagnia peraltro, a disertare le riunioni del gruppo dove si affrontano le questioni, per portarle in pubblico, ti risponderò pubblicamente: ritengo che Musolino sia più capace e affidabile di te in Prima commissione. Tocca al capogruppo decidere. E ha deciso, sapendo di esprimere il consenso maggioritario del gruppo. Tutto qui. Stai bene». A questo punto è intervenuto direttamente Calenda, il quale ha ricordato che «Quando Borghi è entrato nel gruppo parlamentare, la frattura tra Azione e Italia Viva era già consumata. Da statuto avremmo potuto mettere un veto sul suo ingresso. Non lo abbiamo fatto, ritenendo che avrebbe tenuto un comportamento professionale o almeno conforme alla normale educazione. Amen. Per fortuna tutto ciò è alle nostre spalle».
Le reazioni
La saga di post, tweet, commenti, like, dopo l’intervento di Calenda, si è espansa. Raffaella Paita, predecessora di Borghi e adesso coordinatrice nazionale di Italia Viva, ha attaccato il leader di Azione: «Calenda, nei gruppi parlamentari democratici funziona così. Ma ci sono due cose su cui tu proprio non puoi dare lezioni. La prima è l’educazione. La seconda è come si fa politica. Smetti di attaccare Italia Viva e fatti una vita anche senza di noi, se ti riesce. Vedo con piacere che attacchi più Renzi di Giorgia Meloni o Elly Schlein: si chiama “ingratitudine del beneficiario rancoroso”. Ciao». La batteria social renziana è ormai partita e la discussione, da coinvolgere soltanto i senatori, è arrivata anche a Montecitorio. Il deputato Francesco Bonifazi, da sempre vicino a Renzi è annoverato tra i membri del cosiddetto giglio magico, ha scritto: «Capire le regole dei gruppi parlamentari è molto semplice. Non bisogna essere esperti di neutrini al Cern, anche Mariastella può farcela. Chi ha la maggioranza decide. Siccome Gelmini fa come vuole, si assenta senza dirlo, non si relaziona con gli altri e pensa di fare come le pare, la conseguenza naturale è che da oggi Gelmini non segua più l’autonomia differenziata e la commissione Affari costituzionali. Tutto qui. Semplice, no?».
(da agenzie)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
PER ZAREENA GREWAL, DOCENTE DI YALE, “I COLONI ISRAELIANI NON SONO CIVILI”. E DUNQUE, COME MILITARI, SONO OBIETTIVI LEGITTIMI DEI TERRORISTI
Tra gli alberi di autunno, la studentessa di Princeton University strappa, uno per uno, dalla bacheca del campus i volantini con i volti degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas. Quando un passante le chiede perché, si accende «Israele è regime coloniale, i palestinesi indigeni oppressi dall’imperialismo bianco. È guerra di liberazione!».
La ragazza è “pacifica” rispetto ad altri atenei Usa, a Tulane University, New Orleans, lo studente ebreo Dylan Mann è aggredito da compagni, intenti a bruciare la bandiera di Israele, colpito al volto con la frattura del naso. Solo l’intervento della giovane Natalie Mendelsohn lo salva, «Mi son trovata le mani bagnate dal sangue di un ebreo racconta Natalie – mai avrei pensato di vivere questo dolore».
A Cooper Union, New York, gli studenti ebrei sono assediati in biblioteca da dimostranti filo Hamas e minacciati per le kippah. Alla Cornell University, uno studente di 21 anni è stato arrestato per aver minacciato sui social media «Se vedi un ebreo sul campus seguilo e tagliagli la gola… porta il tuo fucile, spara ai maiali ebrei».
Yale, Princeton, Harvard, Stanford ignorano i raid di Hamas contro innocenti, ci vogliono interventi di docenti come l’ex ministro democratico Summers, o di mecenati, perché arrivano tardi, e tiepide, dichiarazioni. Domina la tesi resa popolare dall’attrice Whoopi Goldberg, la sola repressione storica è dei bianchi sui neri, gli ebrei sono bianchi dunque complici dell’imperialismo, «L’Olocausto non aveva nulla a che fare con il razzismo». Per Zareena Grewal, docente a Yale, «i coloni israeliani non sono civili» e dunque, come militari, sono obiettivi legittimi di Hamas, inclusi bambini, anziani, donne incinte.
L’antica sigla Democratic Socialists of America vede i militanti scendere in piazza per Hamas e costringe il deputato progressista Shri Thanedar alle dimissioni (la leader di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez ha ancora la tessera Dsa, ma prende le distanze da Hamas). Il movimento nasce da una malintesa lettura della “politica delle identità”, teoria diffusa nei campus, che fa dire al professore Ameil Joseph su X-Twitter «postcolonialismo non è parola da laboratorio» ma teoria per armare le masse.
Due intellettuali, Yascha Mounk, sul sito Persuasion, e Simon Sebag Montefiore, sulla rivista Atlantic, in toni disperati, ammoniscono liberal e democratici contro l’assurdità di citare i “Dannati della terra” di Frantz Fanon (Einaudi), pamphlet contro l’imperialismo francese in Algeria, per esaltare Hamas. Non basta: come per la critica a “verità, realtà e oggettività” dei postmoderni che, alimentando no vax e no green pass, ha accumulato morti di Covid, così la sacrosanta campagna per i diritti umani di popoli oppressi da Europa e Stati Uniti in Africa, Asia ed America Latina, assolve, per paradosso, Hamas.
Poiché si batte contro Israele, alleato degli Usa, diventa icona alla Che Guevara. Toni simili echeggiano nell’appello dei docenti dell’università di Bologna, nel manifesto firmato dal fisico Carlo Rovelli, al centro di una polemica accesa dal Foglio, nella galassia di estremismo e populismo che prolifera, comunisti e neofascisti fianco a fianco, online e nei talk show della disinformazione.
Che Hamas dalle elezioni, alla libertà di parola e religione, alle donne e diritti Lgbtq neghi ogni ideale nobile della sinistra non importa.
(da “la Repubblica”)
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Novembre 3rd, 2023 Riccardo Fucile
L’ANTITRUST HA INVIATO UNA SEGNALAZIONE AI COMUNI DI ROMA, MILANO E NAPOLI PER LE “CRITICITÀ RISCONTRATE NELL’EROGAZIONE DEL SERVIZIO TAXI A DANNO DEGLI UTENTI”… L’AUTORITÀ SOLLECITA I COMUNI AD AUMENTARE LE LICENZE OLTRE IL 20%
L’Antitrust ha inviato ai Comuni di Roma, Milano e Napoli una segnalazione “sulle criticità riscontrate nell’erogazione del servizio taxi a danno degli utenti, in termini di qualità ed efficienza del servizio reso”. Lo comunica l’Autorità.
Dall’analisi delle risposte fornite dai Comuni alle richieste di informazioni inviate dall’Autorità “è emersa una diffusa e strutturale inadeguatezza del numero delle licenze attive rispetto alla domanda del servizio taxi.
Questa situazione ha generato un numero molto elevato di richieste inevase e di tempi eccessivamente lunghi di attesa per l’erogazione del servizio” sottolinea l’Antitrust. L’indagine svolta fotografa un contesto in cui a Roma il numero di licenze attive è pari a 7.962, cui corrispondono 2,8 licenze ogni 1.000 residenti; a Milano le 4.853 licenze attive sono pari a 3,5 licenze ogni 1.000 residenti; a Napoli, a fronte di 2.364 licenze attive, sono disponibili 2,6 licenze ogni 1.000 abitanti.
Per superare questa grave situazione e aprire il mercato alla concorrenza, l’Autorità sollecita i Comuni di Roma, Milano e Napoli ad adeguare il numero delle licenze taxi alla domanda di tali servizi, di cui una significativa parte rimane, ad oggi, costantemente insoddisfatta, spingendo l’aumento oltre il tetto del 20% fissato in via straordinaria nel cosiddetto decreto Asset (n. 104/2023 convertito nella legge 9 ottobre 2023, n. 136) e adottando in tempi brevi i bandi di pubblico concorso per l’assegnazione delle nuove licenze.
Sempre nell’ottica di aumentare la qualità del servizio, si auspica anche l’adozione di misure aggiuntive, come la regolamentazione dell’istituto delle doppie guide (attualmente presente a Roma e a Milano ma non a Napoli); l’implementazione del taxi sharing; l’efficientamento dei turni, per renderli più flessibili.
Inoltre l’Autorità raccomanda l’esercizio di un monitoraggio, attivo ed efficace, sull’adeguatezza dell’offerta del servizio taxi e sull’effettiva prestazione del servizio stesso, adottando adeguati meccanismi di controllo, i cui esiti dovranno essere adeguatamente pubblicizzati.
(da agenzie)
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