Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
ESSERE SEPOLTI DAL RIDICOLO È, O ALMENO DOVREBBE ESSERE, PER OGNI POLITICO UN CAMPANELLO DI ALLARME. E QUESTA VOLTA NON POSSONO VENIRE IN SOCCORSO NÉ L’ARROGANZA, NÉ IL VITTIMISMO, NÉ IL COMPLOTTISMO
Sarebbe bello poter ridere della sgangherata telefonata della nostra premier, beffata dalla coppia di burloni russi Vovan e Lexus, all’anagrafe Vladimir Kuznetsov e Aleksej Stoljarov. Un passato da giornalisti e un presente da comici o, per dirla con Palazzo Chigi, da “impostori” in odore di servizi. Ma purtroppo la faccenda è estremamente seria.
Per quel che svela della personalità e della postura di Giorgia Meloni e per la disperante fotografia che offre di chi le è intorno e dovrebbe proteggerla. Da incursioni maramalde e anche e soprattutto da se stessa.
Per quel che se ne sa i due russi riescono a fissare un appuntamento telefonico con Giorgia Meloni con la stessa facilità con cui si fissa una visita dal dentista. L’interlocutore si qualifica come Presidente della commissione dell’Unione africana, il sessantatreenne Moussa Faki. E chi prende nota della richiesta e la istruisce — di regola l’ufficio del consigliere diplomatico della presidenza del Consiglio — ci casca con tutte le scarpe. Non è dato sapere se controlla l’effettiva identità e utenza da cui proviene quella chiamata. Né è dato sapere se attivi le nostre strutture diplomatiche per un controllo. Certamente non viene nemmeno messo per un attimo sul chi vive dal forte accento russo dell’inglese che parla il sedicente africano.
Che, per altro, è nato in Ciad e dunque se proprio un accento deve avere nel parlare inglese lo avrebbe francese. Il 18 settembre, dunque, il farlocco Faki viene diligentemente richiamato da Palazzo Chigi all’ora e al numero che ha fornito e una pimpante Meloni, che lo ha incontrato una sola volta in aprile, gli riserva il tempo, la confidenza e il paternalismo gradasso che si hanno con gli amici al bar
La sventurata premier è talmente compresa dal suo ruolo e dalla ciclopica considerazione che ha di se stessa che nell’interminabile conversazione vede bene di abbandonarsi a braccio a scivolose considerazioni sulla guerra in Ucraina e la tenuta dell’alleanza occidentale, sulla crisi dei migranti, sulle politiche di Macron in Niger.
Anche a Meloni non suona strano quell’africano che parla come un russo in un film di spie o nella saga di Rocky. Né suona strano che l’africano non abbia nulla da dirle ma solo domande da farle. O che, discutendo del nazionalismo ucraino, citi una figura chiave come Stepan Bandera. Probabilmente perché — come lei stessa ammette con l’interlocutore — non ha la più pallida idea di chi sia questo diavolo di Bandera.
Alla fiera del dilettantismo la frittata è dunque fatta. L’Italia scopre insomma che è in mano a Dio solo sa chi. A una dilettante che, per giunta, di fronte alla catastrofe che la “burla” russa svela non trova nulla di meglio da fare che un comunicato in cui, di fatto carica la croce sulle spalle dell ‘ambasciatore di lungo corso Francesco Talò, diplomatico di area, a un passo dalla pensione e dunque, da ieri, con un piede e mezzo fuori da Palazzo Chigi. Meloni e con lei il suo ineffabile cerchio magico si guardano bene dal chiarire se la registrazione sia l’integrale della conversazione intrattenuta il 18 settembre con l’africano farlocco o sia solo una parte
E nel farlo finire per inserire una domanda ovvia. Per quale motivo, visto che la telefonata è del 18 settembre, la registrazione è stata resa pubblica da Mosca solo l’1 novembre? In questi 40 giorni di intervallo c’è stata forse un’iniziativa diplomatica russa nei confronti di palazzo Chigi per negoziare l’uscita pubblica di quella conversazione o purgarne delle parti? A dire il vero di domande ce ne sarebbero anche molte altre. Ma ne avanziamo una sola.
Da domani quale capo di stato o di governo straniero sarà disposto a condividere con Giorgia Meloni informazioni o considerazioni di una qualche delicatezza sapendo che la nostra premier e il suo staff sono capaci di prodezze come quella con Vovan e Lexus? Essere sepolti dal ridicolo è, o almeno dovrebbe essere, per ogni politico un campanello di allarme. E questa volta non possono venire in soccorso né l’arroganza, né il vittimismo, né il complottismo.
(da La Repubblica)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
FORSE ERA MEGLIO EVITARE L’AUMENTO DELL’IVA SUI PRODOTTI DELL’INFANZIA COME LATTE E PANNOLINI, QUELLI SÌ ESSENZIALI PER I NEO-GENITORI RISPETTO ALLE CENE AL RISTORANTE
Il ministro dell’Industria intende negoziare con le associazioni dei ristoratori alcuni passi per controllare i prezzi e favorire i consumi delle famiglie numerose, secondo un documento visionato da Reuters.
Il ministro dell’Industria Adolfo Urso ha convocato diverse associazioni del settore ristorazione e alimentare ad un incontro il 7 novembre. L’iniziativa nasce dal desiderio di promuovere la ristorazione nazionale e i consumi delle famiglie, “soprattutto numerose che, in un periodo di persistenti pressioni inflazionistiche, hanno dovuto rivedere le loro abitudini”.
L’obiettivo del governo è far sì che si possa “rendere possibile la fruizione dei ristoranti, luoghi emblema del buon vivere all’italiana”, si legge nel documento. Come in altri paesi europei, anche in Italia l’inflazione è alta in graduale inversione rispetto ai picchi dopo che la Banca Centrale Europea ha intrapreso la sua serie più lunga e ripida di sempre di aumenti dei tassi.
Ma il governo del premier Giorgia Meloni è desideroso di attuare misure volte a sostenere le classi inferiori in difficoltà con l’aumento dei prezzi, in un momento in cui spesso la colpa viene data alle aziende che trasferiscono sui consumatori l’aumento diretto dei costi di produzione. L’ultima mossa segue un’iniziativa simile lanciata per cercare di controllare i prezzi nelle catene di supermercati e piccoli negozianti di beni di prima necessità nell’ultimo trimestre di quest’anno.
(da agenzie)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
PER GLI AIUTI ALL’AFRICA DI SOLDI NEMMENO L’OMBRA, SONO SCOMPARSI PURE QUELLI CHE GIA’ C’ERANO
Non è uno scherzo come quello ordito ai danni di Giorgia Meloni da due comici russi travestiti da leader africano, ma il Piano Mattei, per ora, è poco più di un gioco. I pochi soldi per l’Africa che c’erano in manovra sono spariti dal testo finale trasmesso in Senato. In compenso però il governo è pronto ad approvare un decreto legge sul “Piano strategico Italia-Africa”. Spoiler: dentro non c’è una lira, ma viene disposta comunque la nascita dell’ennesima cabina di regia – per i più raffinati una Task Force – che va ad unirsi a quelle già messe in campo dall’esecutivo in numerosi ambiti, più per piazzare una bandierina che per produrre risultati concreti. Da ultimo la controversa cabina di regia affidata a Giuliano Amato sull’intelligenza artificiale.
Il Consiglio dei ministri previsto per domani si preannuncia ad alto tasso di propaganda. Il disegno di legge Casellati che introdurrà il premierato con norma anti-ribaltone annessa consentirà alla maggioranza di tenere alto sui giornali ancora un po’ il tema delle grandi riforme. Nella stessa riunione, la premier cala un altro dei suoi assi elettorali: è scoccata l’ora del leggendario Piano Mattei per l’Africa, il partenariato Italia-Africa che prende il nome dal fondatore dell’Eni. Un rovesciamento dei tradizionali rapporti di forza colonizzatore-colonizzato che, secondo i Fratelli d’Italia – novelli terzomondisti nonostante l’elevato atlantismo dimostrato in Ucraina e Medio Oriente – consentirebbe al continente africano di affrancarsi autonomamente dal dispotismo delle grandi potenze occidentali e orientali, mentre all’Italia – questa è la speranza – consentirebbe di scongiurare la bomba demografica e dunque “l’invasione migratoria” tanto temuta per i prossimi decenni.
Dopo oltre trenta annunci fatti dalla premier e un rinvio a gennaio 2024 della conferenza Italia-Africa, arriva dunque il decreto sul Piano Mattei. Che in realtà, come si legge nella bozza del provvedimento, ricevuta in anteprima da HuffPost, non introduce il Piano, ma ne prepara semplicemente la cornice, la governance. Le ambizioni sono senza limiti, come si legge nel provvedimento: “Il Piano Mattei persegue la costruzione di un nuovo partenariato tra Italia e Stati del continente africano, volto a promuovere uno sviluppo comune, sostenibile e duraturo, nella dimensione politica, economica, sociale, culturale e di sicurezza”. Da lodare anche il metodo individuato da Roma nell’attuarlo: “Il Piano favorisce la condivisione e la partecipazione degli Stati africani interessati all’individuazione, alla definizione e all’attuazione degli interventi previsti dal Piano, nonché l’impegno compartecipato alla stabilità e alla sicurezza regionali e globali”.
Una pioggia di interventi in arrivo in una pluralità di settori puntualmente elencati nel decreto: “Cooperazione allo sviluppo, promozione delle esportazioni e degli investimenti, istruzione e formazione professionale, ricerca e innovazione, salute, agricoltura e sicurezza alimentare, approvvigionamento e sfruttamento sostenibile delle risorse naturali, incluse quelle idriche ed energetiche, tutela dell’ambiente e adattamento ai cambiamenti climatici, ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture anche digitali, sostegno all’imprenditoria e in particolare a quella giovanile e femminile, promozione dell’occupazione” e ovviamente “prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare”. Che poi, in fin dei conti, quest’ultimo è il reale obiettivo di Palazzo Chigi. Un vastissimo programma che pone due quesiti a chi lo osserva da fuori: il primo è perché non si adottino sforzi simili, di così alta portata, per promuovere interventi tanto ambiziosi anche e prima di tutto nel nostro Paese. Il secondo è molto più semplice e probabilmente squalifica il primo: con quali risorse il governo Meloni intende attuare questa Nuova Via della Seta in salsa italiana?
Già, perché innanzitutto stiamo parlando di un continente, quello africano, che conta una popolazione in costante crescita di quasi un miliardo e mezzo di abitanti, venticinque volte superiore a quella italiana. È sottinteso che, se di partenariato si dovesse realmente parlare, quello andrebbe fatto ad un più alto livello, ad esempio tra Europa e Africa, con il coinvolgimento di molti più Paesi oltre al nostro. Poi il problema principale – e qui la colpa ovviamente non è del governo – è che le risorse non ci sono. L’ultima beffa è arrivata con la legge di bilancio. Come anticipato a ottobre da HuffPost, nella manovra Palazzo Chigi aveva fatto inserire un fondo da 600 milioni di euro da distribuire in tre anni dal 2024 al 2026, destinato esclusivamente a rafforzare la “cooperazione orizzontale” in Africa. Scarne risorse che comunque erano un piccolo inizio. Peccato che però, nei dieci giorni successivi, il fondo per l’Africa sia uscito dalla girandola dei provvedimenti in manovra, per fare spazio ai contentini per Lega e Forza Italia
In compenso si procede con un decreto Piano Mattei che però non contiene una lira. Anzi, qualcosa nel provvedimento c’è: l’autorizzazione alla spesa di 500.000 euro per finanziare la struttura di missione che supporterà un’apposita cabina di regia dedicata al Piano Mattei e presieduta dalla presidente del Consiglio in persona. Si tratta di una nuova task force, l’ennesima da quando questo governo è entrato in carica un anno fa. Nell’ordine, ne hanno fatte su Pnrr, migranti, Giubileo, siccità, Lep, Ilva e Intelligenza artificiale. Con tanto di coinvolgimento, sul tema del salario minimo, del quasi dimenticato Cnel, che già esisteva. All’interno della cabina di regia, fanno sapere ad HuffPost autorevoli fonti governative, saranno coinvolte oltre ai ministri interessanti anche enti e società pubbliche competenti in materia, “seguendo il medesimo metodo adottato ai tempi della cabina di regia che contribuì a predisporre il RepowerEu”. Ciò significa che, a far la parte del leone per quanto riguarda il troncone energetico del Piano, con l’obiettivo di rendere l’Italia “hub energetico del Mediterraneo” saranno in qualche modo coinvolte anche le grandi partecipate, da Eni a Enel passando ovviamente per Snam e Terna. I membri non governativi della cabina di regia saranno in seguito nominati con apposito Dpcm. Mezzo milione di euro e una nuova task force. Il Piano Mattei è ancora un’illusione.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
C’E’ ANCHE CHI VUOLE LAVORARE MENTRE PROSEGUE GLI STUDI
Il 16 ottobre si è chiuso il bando dell’Ama per assumere 100 posti da addetto allo spazzamento e raccolta rifiuti rivolto agli under 30. E dalle candidature emerge un quadro inaspettato: moltissimi giovani sembrano infatti ambire a un posto da spazzino, con un contratto da apprendista, livello B2. Su 2550 domande pervenute, l’età media dei candidati risulta essere 24 anni, molti con una buona conoscenza della lingua inglese. Decisiva dal momento che bisognerà lavorare anche nei quadranti del centro storico romano, e dunque avere a che fare con i turisti. Ne parla Repubblica, che elenca anche i compiti previsti: i spazzamento manuale intorno ai cassonetti, pulizia dei cestini, raccolta delle foglie e – non da ultimo – pulizia di tombini e caditoie.
«Un cambiamento positivo»
Ma i neo-assunti dovranno anche e guidare camioncini e squaletti, e in futuro avranno in dotazione i palmari per informare i residenti sul corretto conferimento nei cassonetti. Mansioni da svolgere in 6 giorni alla settimana per un totale di 38 ore, da spalmare in turni sia diurni che notturni. Secondo Maurizio Marchini presidente dell’associazione Lila (un gruppo di lavoratori interni ad Ama da tempo attivo nel narrare il sistema di raccolta romano e le sue falle), «i nuovi ragazzi hanno più forza e sono in grado di rimuovere i rifiuti dal suolo intorno i cassonetti in meno di 48 ore. È chiaro che la situazione migliora rispetto al passato quando c’erano migliaia di operatori esonerati dal sollevare i pesi da terra».
«Coltivare i sogni lavorando per AMA»
«La tendenza sta cambiando in positivo anche perché i nuovi operatori ecologici stanno rimuovendo molti rifiuti anche ingombranti dal suolo – conclude Marchini – ma dobbiamo anche dire che gli anziani non potevano farlo perché avevano le schiene rotte da anni di lavoro usurante». Sulle pagine di Repubblica viene raccontato anche un caso emblematico: quello di Susanna Biciocchi, 22 anni, al quarto anno del corso di laurea in lingua inglese in Farmacia all’Università Tor Vergata, che da agosto lavora come operatrice ecologica di Ama. Biciocchi spiega che «si può fare qualcosa per la città anche pulendo le strade»: «Rimango perché a Roma si possono coltivare i sogni anche facendo l’operatrice ecologica». In effetti lei è riuscita a combinare questa missione alla sua aspirazione: «quella di fare ricerche di laboratorio, giocare con le molecole e gli elementi chimici. Ma con questo lavoro mi sono accorta che posso applicarlo alla realtà grazie al settore dei rifiuti».
I problemi di Roma
Tuttavia, riconosce, «quello di operatore ecologico è un lavoro complesso e molto diverso rispetto a come si immagina dall’esterno. È un lavoro molto manuale, quasi artigianale ed è riduttivo dire che raccogliamo solo rifiuti: ci occupiamo anche del verde, spesso siamo chiamati come squadre di pronto intervento e puliamo anche i tombini». Roma, nello specifico, ha diverse criticità: innanzitutto, «è una città troppo estesa che ha tantissimo verde e cose di cui occuparsi. Spesso dobbiamo tornare più volte nelle stesse zone per fare la manutenzione sui cespugli o sui tombini, non solo nel centro storico ma anche in quartieri come Garbatella dove c’è moltissima erba».
I cassonetti
Un altro problema sono «i rifiuti intorno ai cassonetti: cerchiamo di fare il possibile. E poi i rifiuti ingombranti gettati per strada come frigoriferi, divani, mobili. In questo periodo stiamo andando spesso nel quadrante dei Ponti, vicino al centro commerciale Maximo: in questo periodo ci sono molti materiali di legno per strada». Come si potrebbe contribuire al miglioramento delle condizioni nelle strade della Capitale? Secondo Biciocchi, aumentando «la differenziata e il porta a porta: aiuterebbe anche l’ambiente. Ma per questo serve più collaborazione con i cittadini per aiutarli a conferire meglio e in maniera più adeguata i rifiuti nei cassonetti».
(da agenzie)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
L’ATTACCO AI CIVILI E’ UN CRIMINE DI GUERRA
La guerra tra Israele e Hamas che va avanti dallo scorso 7 ottobre continua a colpire i civili. Fin qui sono 8 mila i morti nei raid dell’esercito israeliano (IDF) tra i palestinesi, di cui 3324 bambini, mentre 1400 sono le vittime israeliane dall’avvio dell’operazione Tempesta di al-Aqsa da parte di Hamas. Abbiamo parlato delle cause e delle dinamiche del conflitto in corso con lo storico israeliano dell’Università di Exeter, Ilan Pappé, autore tra gli altri del volume The Making of the Arab-Israeli Conflict, 1947-1951 (I. B. Tauris) e tra i fondatori della campagna di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).
Come è stato possibile che il movimento che governa la Striscia di Gaza abbia preso di sorpresa uno dei più sofisticati sistemi di sorveglianza al mondo lo scorso 7 ottobre entrando in territorio israeliano, uccidendo centinaia di civili e prendendo centinaia di ostaggi, molti dei quali in seguito sono stati trasferiti a Gaza? È sembrato che per alcuni giorni lo stato fosse assente. C’è stata una sottovalutazione del rischio di un possibile attacco da parte delle autorità israeliane?
Non si tratta di certo della prima sorpresa e neppure sarà l’ultima. Hamas ha potuto perpetrare questo attacco in particolare per le priorità del governo israeliano. Benjamin Netanyahu era interamente concentrato sulla Cisgiordania e ha abbandonato la difesa del confine meridionale del paese. C’è stata anche una forma di arroganza tra gli orientalisti israeliani all’interno delle forze di sicurezza o nei media di credere di sapere cosa pensano e quali sono le strategie dei palestinesi.
Vuole dire che tutto questo sangue è il frutto di un conflitto che va avanti all’infinito, senza soluzione, della colonizzazione dei territori occupati, dell’assedio di Gaza?
Tutto questo ci riporta a una totale mancanza di comprensione della realtà degli ultimi 75 anni. Cioè stiamo parlando di un popolo colonizzato, quello palestinese, che non ha rinunciato alla sua lotta contro la colonizzazione. Quello che in particolare è mancato sulla comprensione della situazione sul campo da parte israeliana, sia se si guarda alla rappresentazione mediatica sia se si considera l’azione dell’intelligence, è stato di ignorare la miseria che ha inflitto alla popolazione di Gaza sin dal 2007 e che sarebbe di certo esplosa prima o poi, come è successo qualche giorno fa. Sapevamo che sarebbe accaduto, non immaginavamo quando e come, ma eravamo sicuri che sarebbe accaduto. Quando uso il “noi”, mi riferisco a tutti coloro i quali non sono prigionieri della narrativa sionista israeliana.
Gli attacchi di Hamas possono essere stati motivati dall’avversione per la normalizzazione tra Egitto, Arabia Saudita e Israele che era in corso, con la mediazione degli Stati Uniti, a 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur (1973)? L’intesa sembra ormai essere stata accantonata, in seguito allo scoppio del conflitto, e dopo il colloquio telefonico senza precedenti tra il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, e il principe ereditario saudita, Mohamed Bin Salman, in cui i due leader hanno espresso l’impegno comune per fermare l’escalation del conflitto in corso e il pieno sostegno alla causa palestinese.
Io penso che il motivo principale che ha spinto il movimento che governa la Striscia di Gaza ad agire sia stato di fermare l’assedio e chiedere il rilascio dei prigionieri. È possibile che l’accordo con l’Arabia Saudita abbia determinato il momento temporale in cui è stato deciso e attuato questo attacco ma non era di sicuro la principale preoccupazione che avevano in mente.
Possiamo quindi affermare che gli attacchi del 7 ottobre che hanno dato il via a questo gravissimo e sanguinario conflitto tra Israele e Hamas siano stati orchestrati contro le continue violazioni da parte israeliana allo status quo della moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, luogo di preghiera per i musulmani e di visita per i non-musulmani, con i raid della polizia israeliana e la provocatoria incursione del ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir?
Dal 2020, le ripetute violazioni della moschea di al-Aqsa da parte dell’esercito e dei coloni israeliani hanno fatto accrescere nei palestinesi la motivazione a fare qualcosa. Anche le uccisioni dei palestinesi sin dal 2021 in Cisgiordania sono andate drammaticamente aumentando e l’Autorità palestinese si è dimostrata incapace di proteggere i suoi cittadini. E così tutti questi fattori hanno giocato un ruolo nel riaccendere il conflitto.
Si può forse sostenere che Hamas stia combattendo una guerra per la sua esistenza? In altre parole il movimento che governa la Striscia di Gaza vuole mostrare al mondo che il conflitto israelo-palestinese esiste e non è marginale rispetto alle guerre che dilaniano il Medio Oriente, come il conflitto in Siria?
Di sicuro c’è anche questo fattore, ma il punto cruciale resta sempre lo stato di assedio e la richiesta di rilascio degli oltre 10 mila prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.
A questo punto l’esercito israeliano (IDF) sta esagerando, con i raid a tappeto dell’operazione Spade di ferro (2023) che in una sola notte hanno causato oltre 700 vittime, una possibile invasione di terra di Gaza, già sotto assedio dopo il ritiro unilaterale israeliano del 2005, dove stanno finendo le scorte di acqua, benzina, medicinali ed elettricità, e la richiesta agli abitanti di Gaza Nord di spostarsi al confine con l’Egitto?
Siamo oltre l’esagerazione. Siamo di fronte a qualcosa di simile a politiche di genocidio che non possono essere comparate con nessuna altra azione o attacco che Israele abbia inflitto negli anni passati contro la Striscia di Gaza.
Con il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, che, dopo anni di sostegno incondizionato a Israele, si è detto contrario allo spostamento dei palestinesi di Gaza in Egitto, in questo contesto di conflitto così grave, come è possibile avviare una mediazione per un corridoio umanitario, il rilascio degli ostaggi e una tregua tra le parti?
Tutto è nelle mani degli Stati Uniti in questa fase. Nel momento in cui il corridoio umanitario e il rilascio degli ostaggi saranno la principale priorità statunitense, Israele agirà di conseguenza. Altrimenti ci sono davvero opportunità molto limitate perché questo scenario si realizzi.
(da Fanpage)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
DISOCCUPATI E NET SONO UN BACINO DA ATTIVARE
Da qui al 2030 saluteranno le loro scrivanie, fabbriche o luoghi di lavoro oltre mezzo milione di persone all’anno. Uomini e donne che, compatibilmente con le strette sul pensionamento in atto, diranno addio ai colleghi e al cartellino per ritirarsi dal lavoro. Il problema è che la loro sostituzione sarà difficile: le fette di popolazione più giovane che avanzano garantiscono l’afflusso di 400mila nuovi lavoratori e rischia così di aprirsi un “buco” da più di 100mila lavoratori all’anno.
Non è un quadro sereno quello che emerge da una nota di approfondimento di Prometeia, società di consulenza e analisi economica, soprattutto alla luce di quel che già sta accadendo per alcune aziende: manodopera sempre più difficile da reperire, soprattutto se si alza l’asticella nel campo di quella “specializzata”. Il problema, evidenziano gli economisti, non è più tanto una questione di prospettiva, dei decenni a venire. E’ un problema dell’oggi, che riguarda anche la possibilità di mettere a terra gli investimenti del Pnrr e affrontare la transizione tecnologica, la digitalizzazione, il cambiamento climatico.
Che siamo una popolazione in invecchiamento l’ha certificato anche l’ultimo rapporto Istat. Se si prende solo la porzione di 15-64enni, quelli che compongono statisticamente la popolazione in età lavorativa, ne abbiamo persi 1,8 milioni dal 2012, nonostante l’apporto dell’immigrazione. Ora che i baby-boomers, nati negli anni Cinquanta e Sessanta, stanno uscendo dai radar dell’occupazione, il bilancio tra ingressi e uscite dalla forza lavoro rischia di diventare molto negativo.
Per altro, l’equilibrio del sistema è minacciato quando il flusso si guarda più da vicino. Una lente per osservarlo è quello del livello di educazione/formazione dei lavoratori. Si apre qui un “mismatch” importante sul fronte delle persone con scarse qualifiche: molte sono concentrate nelle fasce d’età più prossime alla pensione, mentre i giovani – seppure ancor poco rispetto al resto d’Europa – hanno titoli di studio più alti
Certo, l’evoluzione tecnologica dei processi produttivi e dell’erogazione dei servizi dovrebbe alimentare la domanda di lavoro qualificato e in un certo senso smussare questo spigolo, che resta comunque sul tavolo. C’è poi la lente settoriale. L’industria fa infatti il 25% dell’occupazione maschile, solo il 12% di quella femminile. Nei servizi – tolti commercio e ospitalità – trova lavoro il 68% delle occupate donne. Anche questi squilibri rischiano di pesare sui meccanismi di sostituzione.
Disoccupati e neet, argomenta ancora Prometeia, sono un potenziale bacino da cui attingere per sopperire al problema. Ma non è così semplice: molti dei due milioni di disoccupati italiani sono in una posizione estremamente debole, difficile che possano rispondere attivamente alla richiesta delle aziende.
(da agenzie)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
CON LA LEGGE DI BILANCIO PROSEGUE LA DEMOLIZIONE DELLA SANITA’ PUBBLICA
Dopo aver ridotto i fondi per la sanità, il governo Meloni introduce con la legge di Bilancio altre misure per “picconare” il servizio sanitario nazionale pubblico. La legge di Bilancio ha alzato la dotazione per sanità di soli 3 miliardi (di cui 2,3 destinati al rinnovo dei contratti collettivi di settore) portandola a 136 miliardi. Ma l’incremento non tiene il passo con l’inflazione e segna una diminuzione della spesa in rapporto al Pil. Tra le altre novità ci sono disposizioni per aumentare i fondi che possono essere usati per acquistare servizi dalla sanità privata, e una misura che sopprime gli inventivi alle farmacie per la vendita di farmaci generici (identici a quelli di “marca” con brevetto scaduto ma meno cari), a vantaggio delle grandi case farmaceutiche e a svantaggio di conti pubblici e tasche dei cittadini.
L’articolo 45 prevede la possibilità di alzare la cifra pagata per gli straordinari di medici del servizio pubblico al fine di ridurre le liste di attesa. Ma i medici del SSN hanno già spiegato che il punto non è quanto vengono pagati gli straordinari ma che mancano le persone per farli (e la manovra non prevede nessun piano di nuove assunzioni). A questo punto però l’articolo 46 introduce una seconda opzione, quella di rivolgersi a strutture private, e prevede un incremento di fondi a questo scopo (123 milioni nel 2024, 368 milioni nel 2025 e ben 490 milioni nel 2026). Il risultato sarà insomma quello di spingere sempre più persone verso medici e strutture private che assorbiranno al quasi totalità dei fondi stanziati per alleggerire le liste di attesa. Nell’articolo successivo, il 47, ecco un altro regalino ai privati. In sostanza le regioni che fanno maggiormente ricorso a strutture private non subiranno più nessuna penalizzazione, a differenza di quanto accadeva prima in base a un criterio di “appropriatezza”.
La manovra riformula poi quello che va ai farmacisti come percentuale o quota fissa dalla vendita di medicinali (art.44). La novità più significativa è che viene meno l’incentivo di 28 centesimi a confezione per la vendita di farmaci generici equivalenti. In questo modo, anche per prodotti il cui brevetto è scaduto, la convenienza per chi vende è quella di piazzare il farmaco con il prezzo più alto. quasi sempre quello originale. Nel complesso si vede insomma come prosegua inesorabile l’opera di progressivo smantellamento della sanità pubblica. Un’operazione in cui si sono cimentati con maggiore o minor ardore, governi di tutti i colori. E ancora un’operazione particolarmente subdola perché mai ufficialmente dichiarata ma perseguita con trucchetti come l’impossibilità di fare un esame o una visita con il Ssn in tempi compatibili con le patologie. Forse anche per questo sinora accolta con una certa passività dall’opinione pubblica. A dare il la fu l’allora presidente del Consiglio Mario Monti che nel novembre 2012 affermò “Il nostro Sistema sanitario nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento (ossia non pubbliche, ndr)”.
Il processo di riduzione delle risorse inizia qualche anno prima ma si intensifica nel decennio successivo. Come ricostruito dalla fondazione Gimbe, che parla di una “sanità in rotta verso il baratro”, tra il 2010 e il 2019 vengono tolti alla sanità pubblica 37 miliardi di euro. Solo nel quinquennio 2010 – 2015 vengono meno 25 miliardi allo scopo di migliorare i conti pubblici. Sono anni in cui si susseguono il quarto governo Berlusconi, il governo Monti, il governo Letta ed infine l’esecutivo Renzi. Altri 12 miliardi sono decurtati tra il 2015 e 2019 dai governi Renzi, Gentiloni e Conte 1. Nello stesso decennio i posti letto in ospedale si riducono da 410 a 350 ogni 100mila abitanti. I posti in terapia intensiva diventano la metà di quelli della Germania. Con lo scoppio della pandemia i fondi tornano brevemente a salire, in due anni aumentano di 11 miliardi che però servono ovviamente per le maggiori spese causate dall’emergenza e dunque non comportano alcun miglioramento strutturale del servizio. Messo da parte il Covid si ricomincia a stringere la cinghia. Oggi la spesa per la sanità pubblica vale in Italia il 6,6% del Pil, al di sotto della media Ocse e 4 punti percentuali in meno rispetto alla Germania. I medici di base a disposizione della popolazione sono 6,8 ogni 10mila abitanti e in continuo calo e al di sotto della media Ue.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
L’ATTRICE, SOSTENITRICE DI DIVERSE CAUSE UMANITARIE: “”E’ UNA PRIGIONE A CIELO APERTO”
L’attrice statunitense Angelina Jolie, sostenitrice di molte cause umanitarie, ha dichiarato che Gaza sta diventando una «fossa comune» e ha accusato i leader mondiali di complicità per non aver agito per imporre un cessate il fuoco nella guerra tra Israele e Hamas.
«Questo è il bombardamento deliberato di una popolazione intrappolata che non può fuggire da nessuna parte. Gaza è stata una prigione a cielo aperto per quasi due decenni e sta rapidamente diventando una fossa comune», afferma la Jolie in un messaggio su Instagram. L’attrice ha sottolineato che «intere famiglie vengono uccise» e che il 40% delle vittime sono bambini.
«Mentre il mondo sta a guardare e con il sostegno attivo di molti governi, milioni di civili palestinesi (bambini, donne, famiglie) vengono puniti collettivamente e disumanizzati, mentre vengono privati di cibo, medicine e aiuti umanitari in violazione del diritto internazionale», ha aggiunto. Jolie ha sottolineato che «rifiutandosi di chiedere un cessate il fuoco umanitario e impedendo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di imporlo a entrambe le parti, i leader mondiali sono complici di questi crimini».
L’attrice premio Oscar, nominata nel 2003 Ambasciatrice di buona volontà dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per il suo impegno e le sue attività umanitarie, ha visitato più di 40 aree di crisi, tra cui Libia, Bosnia, Haiti, Congo, Siria e Iraq, e ha denunciato in particolare la violenza sessuale contro le donne nelle guerre.
(da agenzie)
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Novembre 2nd, 2023 Riccardo Fucile
“HO IL DOVERE DI RACCONTARE QUELLO CHE HO VISTO”
Giuditta Brattini, la cooperante di Gazzella Onlus bloccata a Gaza da settimane, rintrerà oggi stesso in Italia: “Ora sono all’ospedale Umberto I al Cairo, dove sono stata portata ieri dal Console italiano che ci ha ricevutoi al border di Rafah”, racconta a Fanpage.it al telefono. “Ho bisogno di sedimentare quello che ho visto e di raccontarlo; noi che siamo usciti dalla striscia di Gaza dobbiamo raccontare quello che abbiamo visto: un genocidio, si stanno violando i diritti fondamentali”.
Sono queste le prime parole di Giuditta Brattini che finalmente, oggi, potrà riabbracciare i propri cari. Racconta a Fanpage.it, le settimane che ha trascorso nella striscia dopo gli attacchi del 7 ottobre scorso. “Diciamo che, come sistemazione, anche noi eravamo senza servizi igienici e dormivamo all’aperto, ovviamente queste condizioni non sono paragonabili a quelle dei palestinesi, però ecco, abbiamo provato sulla nostra pelle cosa significa essere evacuati dalla propria casa e girare con lo zaino in spalla con dentro le poche cose che ti servono perché il resto te lo sei lasciato dietro”.
Un racconto accorato, stanco, stremato, rubato tra una visita di controllo e l’altra presso l’ospedale italiano Umberto I al Cairo. Pronta per dirigersi in aereoporto e tornare in Italia. “Abbiamo fatto un paio di giorni a Gaza City, poi a Khan Yunis ed infine a Rafah, sempre in una struttura logistica dell’Unrwa”, racconta Giuditta Brattini.
“Immagina due milioni di persone di cui un milione sfollato che deve abbandonare la propria casa. Queste persone ammassate in luoghi di riparo che non hanno niente, cioè un basket food giornaliero dell’Unrwa per famiglia. Va detto, questa non è una responsabilità dell’Unrwa che anzi sta facendo il possibile, ma un basket food dell’Onu non è altro che un panino e una scatoletta di carne al giorno, per famiglia”.
Giuditta Brattini ci lascia con questa dichiarazione prima di riagganciare: “Quando si è nella striscia di Gaza non si ha il tempo di metabolizzare. Adesso ho bisogno di mettere in ordine tutto e raccontare, noi che siamo usciti abbiamo il dovere di farlo, di dire quello che abbiamo visto e quello che pensiamo: Io credo si stia consumando un genocidio e che si stia violando i diritti fondamentali”
(da Fanpage)
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