Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
WASHINGTON TEME L’ESPLOSIONE DELLA RABBIA DI TUTTO IL MONDO ARABO… CRIMINI DI GUERRA: 11.000 MORTI E IL 50% DELLA CASE DISTRUTTE INDIGNANO IL MONDO AL PARI DEI TERRORISTI DI HAMAS
“Finora troppi palestinesi sono stati uccisi, troppi hanno sofferto in queste ultime settimane”. È in queste parole, pronunciate dal segretario di Stato Usa Antony Blinken, che è racchiuso il cambio di passo dell’America rispetto alla narrazione della guerra a Gaza: gli Usa continuano sì a sostenere Israele nel suo diritto a difendersi, ma la strage tra i civili palestinesi non può proseguire in questo modo.
A cinque settimane dall’attacco di Hamas contro Israele, la campagna militare israeliana per “sradicare” dalla Striscia di Gaza l’organizzazione palestinese si conferma per quel che è: una missione difficile dal punto di vista militare, costosissima sul piano umanitario ed estremamente rischiosa a livello internazionale e diplomatico.
Ne è consapevole la Casa Bianca, sempre più preoccupata per il rischio di un’escalation del conflitto, nonché per gli effetti della guerra sulla reputazione americana nel mondo.
Per entrambi i Paesi, la variabile tempo inizia a farsi sentire con una certa urgenza: Israele, dopo il trauma subito, ha fretta di raggiungere e soprattutto comunicare alla sua opinione pubblica dei risultati in qualche modo rassicuranti; gli Stati Uniti, a meno di un anno dalle elezioni presidenziali e con due guerre complicatissime da gestire, hanno fretta di raffreddare il conflitto e – non meno importante – di rimarcare il proprio impegno per tutelare i palestinesi innocenti.
Allarmati dal progressivo aumento della rabbia del mondo arabo per Gaza – non solo nelle strade, ma anche negli uffici governativi, nelle redazioni dei giornali e in altri ambienti a cui si affidano i diplomatici Usa per sondare gli umori dei Paesi ospitanti – gli Stati Uniti sono impegnati in un’offensiva mediatica – oltre quella diplomatica per convincere Israele a implementare le pause umanitarie – per cercare di cambiare il messaggio con cui spiegare la loro posizione al fianco di Tel Aviv.
Il capofila di questa strategia è, ancora una volta, il segretario di Stato Blinken, che alla Cnn ha dichiarato: “Troppi palestinesi sono stati uccisi, troppi hanno sofferto nelle ultime settimane. Vogliamo fare tutto il possibile per evitare danni e aumentare l’assistenza per loro”, motivo per cui “continueremo a parlare con Israele dei passi concreti da fare per questi obiettivi”.
Il segretario di Stato ha lodato Israele per l’annuncio di pause umanitarie quotidiane di quattro ore a Gaza, ma – ha detto – “si può e si deve fare di più per ridurre i danni per i civili palestinesi”.
Malgrado gli annunci delle scorse ore, infatti, non è chiaro quanto queste pause – che il governo israeliano ha definito “tattiche e locali” – stiano davvero consentendo la fuga dei civili dal nord di Gaza e un ingresso più consistente degli aiuti umanitari, mentre si moltiplicano le denunce di attacchi aerei su o nelle vicinanze di almeno tre ospedali.
Parlando ad Al-Jazeera, il direttore dell’ospedale Al-Shifa ha definito quella odierna come una “giornata di guerra contro gli ospedali”, aggiungendo che si tratta di una situazione tragica “nel vero senso della parola”. A dirlo sono anche le organizzazioni sanitarie presenti.
A cominciare dalla Croce rossa internazionale, secondo cui ormai il sistema sanitario nella Striscia ha toccato “un punto di non ritorno”, mettendo a rischio la vita di migliaia di persone: “civili, pazienti e membri del personale medico sono in pericolo”, ha dichiarato il capo della subdelegazione del Cicr a Gaza, William Schomburg.
Venti dei 36 ospedali della Striscia non sono più operativi a causa dei pesanti bombardamenti, della distruzione e della mancanza di forniture mediche, ha riferito l’Organizzazione mondiale della sanità. Anche le strutture ancora in funzione sono attive solo in caso di emergenza, perché molte non dispongono di disinfettanti, anestetici o elettricità sufficienti per fornire un’assistenza regolare ai pazienti, ha spiegato la portavoce dell’Oms Margaret Harris, sottolineando che alcuni ospedali ancora operativi hanno un numero di pazienti doppio rispetto ai posti letto.
In serata arrivano le testimonianze di Medici senza frontiere, dopo il raid ad al-Shifa: “La struttura è stata colpita. Tutti noi eravamo inorriditi, alcuni si sono buttati a terra. Ho visto cadaveri, anche di donne e bambini. Una scena orribile che ci ha fatto piangere tutti” racconta Maher Sharif, infermiere. “La popolazione ha paura di andare negli ospedali” dichiara Mohammad Abu Mughaiseb, vice coordinatore medico di Msf a Gaza.
Come sottolinea il New York Times, la condotta convulsa di Israele è sintomatica del fatto che il tempo per sconfiggere Hamas sta per scadere. Israele ha rallentato il suo assalto su Gaza City per sviluppare un piano che possa raggiungere due obiettivi difficili e contrastanti: eliminare Hamas e proteggere la posizione internazionale di Israele, mantenendo il sostegno degli alleati. Man mano che il tempo passa e i morti aumentano, i funzionari statunitensi stanno diventando sempre più impazienti: vogliono che Israele completi la sua missione riducendo l’impatto sui civili, prima che la rabbia per la guerra destabilizzi il Medio Oriente e aumenti il sentimento anti-americano nel mondo.
In apparente contraddizione con quanto affermato giorni fa dal presidente Joe Biden e da altri funzionari, che avevano messo in dubbio il bilancio delle vittime fornito dalle autorità sanitarie di Gaza, l’assistente segretaria di Stato Barbara Leaf ha detto questa settimana ai legislatori americani che era “molto probabile” che i numeri fossero addirittura più alti rispetto ai 10mila morti citati da Hamas, che nel frattempo ha aggiornato il suo bilancio a oltre 11mila vittime.
È la Cnn oggi a rivelare come al Dipartimento di Stato stiano arrivando cablogrammi di ambasciatori della regione che raccontano come quello che appare come il sostegno pubblico e incondizionato degli Stati Uniti alla campagna israeliana a Gaza “ci stia facendo perdere il sostegno dell’opinione pubblica araba per generazioni”.
Così recita il messaggio scritto mercoledì dal numero due dell’ambasciata americana nell’Oman – inviato anche a Casa Bianca, Cia e Fbi – in cui si avvisa che gli Usa stanno “malamente perdendo la battaglia sul piano del messaggio” e a loro viene addebitata una sorta di complicità “materiale e morale di quelli che vengono considerati crimini di guerra” commessi dagli israeliani a Gaza.
La cosa che allarma di più l’alto diplomatico Usa a Muscat è che questi commenti arrivino non dalle piazze, ma “da molti dei fidati e moderati contatti” dell’ambasciata. Ed un messaggio analogo arriva da un altro cablogramma, rivelato sempre dalla Cnn, dell’ambasciata americana al Cairo in cui si cita un editoriale di un giornale governativo in cui si afferma che “la crudeltà e il disprezzo di Biden per i palestinesi supera quello di tutti i precedenti presidenti americani”.
Parole che non possono non riferirsi alle dichiarazioni con cui Biden ha messo in dubbio la veridicità del bilancio delle vittime di Gaza, perché fornito dal ministero della Sanità controllato da Hamas.
Nelle sue dichiarazioni alla Cnn, Blinken ha sottolineato che Washington è assolutamente contraria al “ricollocamento forzato dei palestinesi da Gaza”, così come a una riduzione del suo territorio.
Un concetto ribadito anche da David Satterfield, l’inviato speciale per le questioni umanitarie in Medio Oriente, che durante una conferenza stampa a Dubai ha dichiarato: “Il futuro degli abitanti di Gaza è a Gaza e in nessun altro posto. Noi non sosteniamo, come principio, il ricollocamento della popolazione di Gaza, anche all’interno della Striscia: quelli che ora sono nel sud devono avere la possibilità di tornare al nord quando sarà sicuro”.
Quanto al dopo-Hamas, gli Usa restano convinti che “il futuro di Gaza debba essere determinato dai palestinesi. Vediamo assolutamente la necessità di avere un indirizzo comune per Cisgiordania e Gaza, senza alcuna separazione tra le due”.
E ancora: “Crediamo che la soluzione dei due Stati sia l’unica garanzia definitiva di un futuro pacifico per Israele, così come per i palestinesi”. Il diplomatico americano ha ammesso che il modo in cui arrivare a questo obiettivo “dipenderà dalle circostanze”, in particolare “da come finirà la campagna”, se Hamas sarà “eliminata come minaccia”.
La grande domanda – a cui nessuno sa rispondere – è quando tutto questo sarà considerato sufficiente. E, soprattutto, se lo sarà davvero.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
DA NOVEMBRE 2022 A SETTEMBRE 2023 LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO HA GODUTO DI UN TEMPO DI PAROLA SULLE RETI PRINCIPALI DI 4.561 MINUTI IN TOTALE (76 ORE)…. MARIO DRAGHI SI ERA FERMATO A UN TOTALE DI 2.877 MINUTI (48 ORE): UNA SPROPORZIONE ENORME”…IL RECORD NEI TG DI MEDIASET
Trascorso dunque un anno dalle elezioni abbiamo voluto esaminare il periodo che va dal novembre del 2022 allo scorso settembre, alla ricerca dei tempi di parola concessi a Meloni sulle 7 reti generaliste e sulle 3 reti all news (RaiNews, TgCom24, SkyTg24); magari per confrontarli con quelli del suo predecessore Draghi (monitorato, per intenderci, da novembre 2021 a settembre 2022). Ne viene fuori un quadro che […] racconta di una informazione in video completamente subalterna alla premier.
La ricognizione infatti intorno alle tabelle mensili di Agcom sul pluralismo televisivo certifica che nel periodo da novembre 2022 a settembre 2023 la presidente del Consiglio ha goduto di un tempo di parola sulle reti principali di 4.561 minuti in totale (76 ore), così ripartiti: 1.696 nei tg, 2.865 nei talk.
Se guardiamo allo stesso periodo dell’anno precedente (quello che va da novembre ’21 a settembre ’22) il suo predecessore, pur rappresentato in video e voce con grande visibilità, si era fermato a un totale di 2.877 minuti (48 ore): una sproporzione enorme, incredibile se solo si pensa alla presenza in video di Draghi a febbraio e a marzo del 2022 per via dell’invasione russa in Ucraina.
Se entriamo nel dettaglio ci accorgiamo: 1) che nei telegiornali Draghi aveva totalizzato 1.031 minuti di parlato, mentre Meloni ne realizza quasi 1700; 2) che nei programmi informativi quest’ultima parla (sempre da novembre ’22 a settembre ’23) per 2.865 minuti, invece dei 1.846 dell’ex premier (monitorato ripetiamo nel periodo novembre ’21/settembre ’22).
Se andiamo più a fondo, ripartendo i dati per network, ecco la smentita alla favoletta di Mediaset che fa lo sgambetto a Meloni: nei tg di Mediaset, Meloni infatti incamera, in tempo di parola, più del doppio di quanto avesse fatto Draghi, 1.039 minuti contro 495; nei talk 610 contro 240.
In particolare il Tg5 assicura a Meloni nel periodo in esame 343 minuti, a fronte dei 165 concessi a Draghi. Interessante è prendere i due tiggì più visti in Italia, Tg1 e Tg5, per accorgersi che Meloni vi totalizza 561 minuti di parlato versus i 368 di Draghi.
Ci potremmo fermare qui, ma è utile completare l’analisi con SkyTg24, TgCom24 e RaiNews, dove lo squilibrio si fa più netto: SkyTg24 offre 3.521 minuti di parlato a Meloni mentre ne aveva offerti 2.216 a Draghi (il 70% in meno); il TgCom24 gliene offre 4.194, più del doppio dei 2.045 minuti che aveva concesso a Draghi; RaiNews 2.885, il 50% in più rispetto ai 1.996 del Migliore.
Morale: questa straordinaria tele-esposizione, la più alta del dopo-Renzi, aiuta il gradimento di Meloni, nonostante errori e difficoltà di governo. Col premierato occorrerebbe pensarci.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA COLONNA MILANESE DI FDI E’ LA PIU’ ESPOSTA AGLI SCANDALI TRA INCHIESTE E CULTO DEL POTERE FAMILIARE
La nomina di Geronimo La Russa nel consiglio di amministrazione del Piccolo Teatro di Milano è la conferma di quanto per Fratelli d’Italia la famiglia conti più dell’esperienza. Se questa tendenza è ormai emersa in tutta la sua evidenza in più occasioni, il caso del figlio del presidente del Senato piazzato in una delle massime istituzioni culturali della città è rivelatore anche di un meccanismo tutto interno al partito di Giorgia Meloni: impossibile arginare i feudatari milanesi di Fratelli d’Italia. Da La Russa alla ministra del Turismo, Daniela Santanchè, con tutto il loro giro di fedelissimi locali.
Un cerchio di potere contraddistinto, anche lontano da Roma, da affiliazioni che da politiche si trasformano in familiari. Uno dei ras più ascoltati è Marco Osnato, cognato di Romano La Russa, fratello di Ignazio e assessore di regione Lombardia. Osnato è stato eletto deputato e per lui i meloniani in Parlamento hanno subito trovato un posto di rilievo: preferito persino a Giulio Tremonti per guidare la commissione strategica Finanze alla Camera dei Deputati. Qualcuno ha protestato, «non ha competenza in materia». Più o meno la stessa critica mossa in queste ore a Geronimo La Russa, avvocato, con mille incarichi (Dall’Aci alla società di gestione dello stadio di San Siro) incassati sicuramente per la sua bravura in Legge, ma anche un pochino perché il cognome La Russa conta a Milano e nella capitale.
IL CERCHIO ATTORNO AGLI SCANDALI
Il figlio del presidente del Senato è stato nominato dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. «Nomina legittima, nutro qualche remora sull’esperienza nell’ambito culturale», in sintesi il commento diplomatico del sindaco Beppe Sala. È lecito, in effetti, porre la questione sulle competenze in materia di La Russa junior. Ha “ereditato” lo studio legale del papà, può bastare come titolo per dire la sua in un teatro così prestigioso. Di nomina politica si tratta, in quanto racconto esula dalla competenza specifica. Tuttavia c’è nella scelta del ministro Sangiuliano una legittimazione di un pezzo del partito milanese in preda agli scandali, che più hanno tenuto banco nell’ultimo anno.
Quando dici La Russa, infatti, allo specchio si confronta il volto di Santanchè e del suo piccolo impero imprenditoriale Visibilia risucchiato dal vortice dei debiti, con privati e soprattutto con lo stato, quell’organizzazione che La Russa e la ministra rappresentano a partire dall’ottobre 2022 quando Meloni li ha portati a governare il paese.
Santanchè nel clou del disastro finanziario, al fine di studiare una strategia per non fallire con il gruppo Visibilia, si è affidata all’amico e collega di partito La Russa. Ci sarebbero stati anche alcuni incontri nello studio La Russa, quello ereditato da Geronimo. E il presidente in persona avrebbe offerto un consiglio fraterno alla ministra: «Evita in tutti i modi la bancarotta», hanno scritto nei mesi scorsi alcuni quotidiani. Tracce del sostegno legale offerto a Santanchè dai La Russa si ritrovano nelle diffide inviate al giornale locale Milano Today, firmate Ignazio La Russa per conto del misterioso fondo Negma, su cui indaga la procura di Milano in un filone parallelo a quello che vede Santanchè sotto inchiesta per falso e bancarotta. Fili incrociati di una trama di scandali per il quale la ministra ha rischiato di doversi dimettere. Salvata da Meloni per il momento, chissà fino a quando.
La coppia Santanchè – La Russa è protagonista di un’altra vicenda in corso di approfondimento sempre in procura a Milano: la compravendita della villa a Forte dei Marmi da parte del compagno della ministra (puro lui indagato nell’indagine Visibilia) e della moglie del presidente del Senato, sviluppato a 2,5 milioni e rivenduta dopo un’ora a 3,5 milioni a un imprenditore amico di entrambe le famiglie. L’acquisto, altro aspetto assai curioso, è stato fatto dalla coppia senza spendere un euro, consapevoli dell’immediata rivendita con una super plusvalenza dai contorni ancora da chiarire.
A questo impasto si è aggiunta l’accusa di stupro all’altro figlio di La Russa, Leonardo Apache. L’inchiesta è in corso, secondo le prime ricostruzioni investigative sarebbe stata abusata nella casa milanese del presidente del Senato.
Nel frattempo è arrivata la ratifica del patteggiamento per corruzione di Carlo Fidanza, il potente eurodeputato di Fratelli d’Italia, altro ras milanese di Fratelli d’Italia. Un’altra storia, certo. Ma pur sempre parte di un mosaico di scandali e opacità che oscurano il cielo sopra la colonn a milanese di Fratelli d’Italia. Un problema per alcuni militanti, ma non per Meloni e il governo. Tanto da premiare la compagnia di giro ancora una volta. Così dopo il perdono concesso a Santanchè, ecco la nomina di La Russa junior al Piccolo nel nome di un’egemonia culturale da imporre con figli, cognati e cugini, anche se lontani, purché di famiglia.
(da editorialedomani.it)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
RISARCIRE AL 100%? ORA SI SCOPRE CHE TUTTI I BENI MOBILI NON RIENTRANO NEI RISARCIMENTI… MOBILI, AUTO, MACCHINARI PRENDONO NULLA
“Risarciremo il 100% dei danni subiti”. Ricordate? Meloni, Musumeci, Bignami, Figliuolo: tutti a rassicurare gli alluvionati e ad accusare regione e sindaci “rossi” di fare polemiche strumentali sui ritardi e i mancati ristori per l’alluvione in Romagna.
Ma ora che è finalmente uscita l’ordinanza del commissario alla ricostruzione, si scopre che arredi, elettrodomestici e mobili danneggiati o distrutti potranno essere periziati ma non risarciti, almeno per ora.
Si legge infatti al comma 3 dell’articolo 3 dell’ordinanza che “arredi, elettrodomestici, stoviglie, utensili di uso comune, potranno essere elencati come beni danneggiati nella perizia asseverata. Tale elenco varrà ai fini peritali laddove la norma dovesse prevedere in futuro la possibilità di contributo per tali beni”.
In altre parole, al momento non sono previsti rimborsi per i beni mobili e non è detto che lo siano in futuro. Una discreta presa per i fondelli nei confronti dei cittadini che hanno perso tutto.
“Una cosa clamorosa, ai limiti dell’incredibile”, l’ha definita il presidente della regione Bonaccini invitando governo e commissario a modificare la norma, dal momento che “in un’alluvione ciò che più viene danneggiato sono proprio i beni mobili” e restando così le cose “un sacco di persone rischiano di non vedere un euro”.
Del resto, cittadini e imprese colpiti non hanno ancora visto l’ombra di un ristoro. Anzi, non hanno nemmeno potuto chiederlo, dal momento che solo dal 15 novembre, a più di sei mesi dall’alluvione, sarà possibile presentare le domande sulla apposita piattaforma informatica che dovrebbe consentire “il rimborso del 100% dei danni certificati”.
Con quali risorse ancora non si sa, dal momento che il governo ha stanziato meno della metà del fabbisogno previsto (quattro miliardi in tre anni a fronte dei nove stimati). E comunque, si scopre ora, senza ripagare quelli dei beni mobili così come i danni delle auto danneggiate o distrutte. Per i cittadini che si sono dovuti ricomprare l’automobile, la Regione ha aperto un bando di sussidi con fondi extra decreto (da donazioni e altre poste, comunque insufficienti) a cui sono giunte ottomila domande. Nella speranza che arrivino risorse aggiuntive da un governo che però, come ormai tutti hanno capito, sull’alluvione in Romagna sta davvero giocando una sporca partita politica.
(da Globalist)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA TESTIMONIANZA DEL COMMISSARIO GENERALE ONU
Philippe Lazzarini è Commissario Generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA).
“Acqua? pane?” Queste erano le domande sulla bocca di ogni bambino che ho incontrato a Gaza la settimana scorsa mentre visitavo uno dei rifugi dell’UNRWA a Rafah. Sono stato il primo alto funzionario delle Nazioni Unite ad entrare a Gaza dal 7 ottobre, il giorno in cui i militanti di Hamas uccisero più di 1.400 civili israeliani. In oltre 30 anni di lavoro in zone di conflitto, il mio incontro con questi bambini disperati è stato uno dei più tristi della mia carriera.
Non dimenticherò mai i volti dei bambini. Mentre ascoltavo le loro storie, dovevo continuare a ricordare a me stesso che eravamo all’interno di una scuola che era stata trasformata in un rifugio, un luogo che in tempo di pace è un luogo per imparare, ridere e giocare. Il Ministero della Sanità di Gaza riferisce che più di 4.000 civili uccisi in questa guerra erano bambini. Questo bilancio mensile è superiore al numero di bambini uccisi in tutti i conflitti nel mondo in un dato anno dal 2019.
Fuori dal rifugio, il mondo sta diventando molto oscuro per i palestinesi di Gaza. A causa dell’assedio in corso non c’è cibo, acqua, medicine o carburante. I mercati sono quasi vuoti. Il rivolo di aiuti che arriva via camion attraverso Rafah è molto inferiore al necessario. I servizi comunali sono fatiscenti. Le acque reflue stanno riempiendo le strade. La gente fa la fila per ore alle panetterie. Presto arriverà l’inverno e molti potrebbero morire di fame.
Con la città di Gaza circondata, le forze di difesa israeliane stanno dando istruzioni ai civili rimasti di spostarsi nelle parti meridionali della Striscia di Gaza. Ma non sono al sicuro neanche lì. Più di 700.000 persone vivono oggi in circa 150 edifici dell’UNRWA in tutta la Striscia di Gaza. Mentre scrivo, quasi 50 di questi edifici hanno subito danni e alcuni sono stati colpiti direttamente. Novantanove colleghi dell’UNRWA sono stati uccisi.
Per molti palestinesi, questo esodo ricorda lo sfollamento originario di oltre 700.000 persone dalle loro città e villaggi nel 1948, noto anche come Nakba (“catastrofe” in arabo). Leggono storie di un libro bianco del governo israeliano trapelato che suggerisce loro di essere espulsi nel Sinai. Le loro paure si aggravano quando sentono un politico israeliano chiamare gli abitanti di Gaza “animali umani” – un linguaggio disumanizzante che non pensavo di sentire nel 21° secolo.
Questa settimana il segretario di Stato americano Antony Blinken aveva ragione ad avvertire gli israeliani, insistendo che “non vi sarebbe stato alcuno spostamento forzato dei palestinesi da Gaza. Non ora, non dopo la guerra. Dovrebbe andare oltre e chiedere un cessate il fuoco umanitario immediato. L’assedio di Gaza deve finire e si deve consentire il flusso continuo di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza senza restrizioni.
Ciò deve essere fatto in nome dei diritti umani fondamentali. Ma ciò dovrebbe essere fatto anche per scongiurare una calamità ancora più grande. La punizione collettiva inflitta ai civili di Gaza si sta estendendo alla Cisgiordania, dove le persone sono state costrette a lasciare la propria terra o, peggio, per la sola ragione di essere palestinesi. Ciò rischia di allargare la guerra e di incendiare l’intero Medio Oriente.
L’attuale corso scelto dalle autorità israeliane non porterà la pace e la stabilità che sia gli israeliani che i palestinesi desiderano e meritano. Radere al suolo interi quartieri non è una risposta agli eclatanti crimini commessi da Hamas. Al contrario, sta creando una nuova generazione di palestinesi offesi che probabilmente continueranno il ciclo di violenza. La carneficina deve semplicemente finire.
(da agenzie)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
LA POLEMICA RIDICOLA DEL CENTRODESTRA SUL FATTO CHE FACCIA IL CUOCO… A PARTE CHE E’ UN ESPERTO E CHE FARA’ IL DIRETTORE A TITOLO GRATUITO, E’ UNO STUDIOSO QUALIFICATO E NON UN FANCAZZISTA
Uno chef alla direzione di un museo. Può apparire insolito, ma lo diventa meno considerando che stiamo parlando di una piccola, ma preziosa, istituzione: il Museo delle Ceramiche di Castelli, nel Teramano. E che Roberto Durigon, il neo direttore, è una figura eclettica, cuoco da soli 4 anni. Abruzzese, 56 anni, ex educatore ambientale, da sempre coltiva la passione per le ceramiche e per la storia. Soprattutto quella di Napoli e del Meridione. «La ceramica è funzionale alla cucina – osserva —. E anche tra i fornelli faccio ricerca sulla tradizione antica, in particolare su quella borbonica».
Durigon l’anno scorso è entrato nel Consiglio di amministrazione del Museo del borgo ai piedi del Gran Sasso, e il sindaco a maggio l’ha scelto come direttore.
«Da sempre mi occupo della storia della ceramica e dell’arte abruzzese in genere — spiega Durigon —. Con il Museo c’è un lungo rapporto di frequentazione e di ammirazione del lavoro fatto nelle precedenti gestioni. Castelli, anzi la “castellanità”, come io preferisco dire, è nel mio cuore da sempre».
Durigon, che è nato a Fano Adriano ma lavora a Roma, ricorda che dopo il terremoto dell’Aquila ha anche finanziato «il restauro di un piattino di Aurelio Anselmo Grue, opera del Museo danneggiata dalla scossa. E una quindicini di anni fa ho donato un centinaio di porcellane europee e un documento di un incisore fiammingo con le notazioni del committente al ceramista locale»
Precisazioni anche per chi, a livello locale, ha sollevato qualche dubbio sulla sua nomina. A cui replica anche il sindaco. «Durigon è uno studioso, una persona di grande competenza — puntualizza il primo cittadino Rinaldo Seca —. Il nostro è un paese di mille abitanti, il Museo è civico, facciamo grande fatica a curarne la gestione. Ma ci tengo a precisare che tutti i componenti del consiglio di amministrazione, compreso il direttore, non ricevono alcun compenso. La loro è un’attività pro bono».
Durigon si appassiona quando parla di ceramiche e dei suoi artisti. Come Carlo Antonio Grue, a cui il Museo ha dedicato di recente un’esposizione. «Intitolata non a caso “L’Oro nelle mani” — osserva —. È stato il più grande ceramista dell’epoca barocca, non solo di Castelli. Era allineato a tutti i grandi pittori dell’epoca, e anche se la sua arte si esprimeva in pochi centimetri l’enfasi è la stessa. È stato un talento straordinario». Il Museo di Castelli, attualmente in locali provvisori dopo che la sede storica in un ex monastero francescano è stata danneggiata dal terremoto, ospita oltre a una sezione archeologica con manufatti dal IV al I secolo a.C., soprattutto la produzione dell’arte ceramica castellana, dal Medioevo al Rinascimento fino all’Ottocento , comprese le creazioni dei maestri delle famiglie Grue e Gentile.
Durigon lavora a Roma come chef per un paio di locali. Propone cibo da strada romano, ma quando può preferisce cimentarsi con le ricette delle tradizione borbonica. «Come la crostata di tagliolini, che risale a inizio Ottocento, quando la regina Carolina chiese ai suoi cuochi di inventare un piatto sfizioso perché la figlia era inappetente. E sono anche orgoglioso di aver ripreso la tradizione settecentesca della parmigiana, una versione con il cioccolato. Un azzardo, ma che si è rivelata una scommessa vincente».
A Durigon piace talmente la storia del Meridione, che su Facebook lo trovate sotto il profilo «Roberto Brigante», con un’immagine di Francesco II, l’ultimo dei Borboni, e il dipinto di un bandito armato di coltello (non da cucina). «Ma è questo è solo un gioco» dice sorridendo.
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
CHE COMICHE: IL MINISTERO ORA FA APPELLO AL CONSIGLIO DI STATO, QUELLO CHE AVREBBE DOVUTO INTERPELLARE PRIMA
Il Tar del Lazio ha annullato il decreto con il quale il Ministero delle Imprese e del Made in Italy il 31 marzo scorso ha stabilito le modalità dell’obbligo di comunicazione da parte degli esercenti dei prezzi dei carburanti.
L’annullamento del decreto è stato deciso in assenza della prevista e preventiva comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri e del parere del Consiglio di Stato.
La decisione è contenuta in una sentenza con la quale è stato accolto un ricorso proposto da Fe.Gi.Ca. – Federazione Gestori Impianti Carburanti e Affini, F.I.G.I.S.C. – Federazione Italiana Gestori Impianti Stradali Carburanti, e da alcuni esercenti.
Il ministero delle Imprese e del Made in Italy ha dato mandato all’Avvocatura dello Stato di proporre immediato appello al Consiglio di Stato con richiesta di sospensione degli effetti della sentenza del Tar del Lazio, che prevede l’annullamento del decreto con il quale sono state stabilite le modalità dell’obbligo di comunicazione da parte degli esercenti dei prezzi dei carburanti.
(da agenzie)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
TUTTI INVOCANO LA SECONDA NAKBA, OVVERO LA SECONDA CACCIATA DEGLI ARABI DALLE TERRE DELL’ISRAELE BIBLICA A COMPLETARE L’OPERA INIZIATA 75 ANNI FA… OGGI IL 37% SONO ULTRAORTODOSSI, IL 35% SIONISTI RELIGIOSI E SOLO IL 28% LAICI: “LO DICE LA BIBBIA CHE QUESTA TERRA E’ NOSTRA”
«Deportiamo i palestinesi». Sino a soltanto pochi anni fa era un tabù, anche i coloni ebrei più estremisti evitavano di parlarne ad alta voce e senz’altro non con i giornalisti stranieri. Ma dal 7 di ottobre è caduta qualsiasi barriera, non ci sono più paraventi o ritrosie. Ciò che prima era nascosto è diventato opinione comune, anzi, viene guardato con sospetto chiunque non la condivida.
«Nakba shtaim», la chiama qui la gente per la strada con un misto di arabo ed ebraico. La « Nakba » per i palestinesi è sempre stata «la catastrofe», l’espulsione di oltre 700.000 persone dalle terre del neonato Stato di Israele nel 1948. « Shtaim » in ebraico significa due. Dunque, «seconda Nakba»: la seconda cacciata degli arabi dalle terre dell’Israele biblica a completare l’opera iniziata 75 anni fa.
«Non abbiamo più alternative: noi o loro. Il pogrom islamo-nazista di Hamas ha messo in luce ciò che davvero pensano gli arabi di noi. Ci vogliono tutti morti. Impossibile la coesistenza, assurdo pensare al compromesso politico, suicida contemplare l’ipotesi di due Stati paralleli nati dalla partizione della regione. Assieme non possiamo più stare e, dato che adesso noi siamo molto più forti, abbiamo il dovere di prevenire un nuovo Olocausto. I palestinesi devono andarsene non solo da Gaza, ma anche da Giudea, Samaria e Valle del Giordano», dicono all’unisono gli abitanti delle colonie ebraiche costruite progressivamente nei territori conquistati dall’esercito israeliano nella guerra del giugno 1967.
Siamo arrivati nell’area delle 22 colonie di Gush Etzion, sulla dorsale tra Gerusalemme e Ramallah, mentre ieri in tutta la Cisgiordania giungeva l’eco dei gravi scontri tra manifestanti palestinesi, militari e coloni israeliani, specie nelle province settentrionali. La radio militare già nel primo pomeriggio segnalava 14 morti palestinesi nel campo profughi di Jenin (sono circa 180 dal 7 ottobre in Cisgiordania).
I comandi israeliani hanno fatto ricorso ai bombardamenti aerei. Manifestazioni anche a Nablus, Ramallah e diversi centri minori. Abbiamo visto molti villaggi palestinesi totalmente circondati e sotto coprifuoco sulle colline verso Hebron, parecchie strade secondarie per la zona di Betlemme erano state chiuse con barricate di pietre spostate dai bulldozer. Gruppi di soldati e coloni pattugliavano le campagne.
Oggi il 37 percento dei coloni sono ultraortodossi, il 35 sionisti religiosi e solo il 28 laici. «Gli arabi vanno tutti deportati. Non c’è altra soluzione. Questa terra è nostra per diritto divino, loro sono ospiti, ma visto che non ci vogliono è giusto mandarli via, dove non mi interessa», esclama Esther, una 42enne che lavora nella scuola locale. Il ragionamento religioso va per la maggiore. «La Bibbia spiega chiaramente che questa è la patria degli ebrei. Sono state le sinistre israeliane a illudere gli arabi di poter restare.
Anche loro citano il Corano per ribadire che questa è terra islamica. E dunque il compromesso è impossibile», dice Aharon Yokel, che è nato 50 anni fa nel quartiere religioso di Bnei Barak, a Tel Aviv, e da 18 anni vive nella vicina colonia di Tekoa. Da tre settimane porta sempre con sé il mitragliatore con il colpo in canna. «Noi siamo i padroni di casa e possiamo decidere chi parte e chi resta».
(da Il Corriere della Sera)
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Novembre 10th, 2023 Riccardo Fucile
I DATI DELL’UNICEF… “NON POSSIAMO DESCRIVERE L’ENTITA’ DELLA NOSTRA SOFFERENZA”
Tra le centinaia di migliaia di palestinesi costretti a lasciare le proprie case a Gaza dopo l’intensificarsi degli scontri tra Israele e Hamas ci sono almeno 155mila tra donne incinte e prossime al parto e neo mamme in allattamento che necessitano di assistenza sanitaria primaria. Sono questi i numeri, drammatici, dell’emergenza umanitaria che si sta verificando nella Striscia, secondo i dati aggiornati e resi noti a Fanpage.it da Unicef.
A preoccupare è soprattutto l’accesso alle cure mediche, dal momento che la maggior parte degli ospedali è in sofferenza a causa dei bombardamenti e della mancanza di carburante. Si stima che a Gaza ci siano 50mila donne in gravidanza, con più di 180 parti al giorno. Il 15% di loro rischia di avere complicazioni legate al parto e di aver bisogno di ulteriori cure mediche.
Secondo Unicef, queste donne non possono accedere ai servizi ostetrici di emergenza di cui hanno bisogno per partorire in sicurezza e prendersi cura dei loro neonati. Con 14 ospedali e 45 centri di assistenza sanitaria primaria chiusi, alcune donne sono costrette a partorire nei rifugi, nelle loro case, nelle strade in mezzo alle macerie o in strutture sanitarie sovraccariche, dove le condizioni igieniche stanno peggiorando e il rischio di infezioni e complicazioni mediche è in aumento.
Anche le strutture sanitarie sono sotto tiro: il primo novembre è stato bombardato l’ospedale Al Hilo, un ospedale materno cruciale. Per cui, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia ha previsto che le morti materne aumenteranno, data la mancanza di accesso a cure adeguate. Senza calcolare il bilancio psicologico delle ostilità ha anche conseguenze dirette – e talvolta mortali – sulla salute riproduttiva, tra cui un aumento degli aborti indotti dallo stress, dei nati morti e dei parti prematuri.
A ciò si aggiunga, secondo dati aggiornati al 3 novembre, che la vita di 130 bambini prematuri è a rischio senza incubatrici, cosa che potrebbe succede a breve se non arriverà il carburante per tenerli in funzione, e che sono già stati segnalati oltre 22.500 casi di infezioni respiratorie acute, oltre a 12.000 casi di diarrea.
Tra le tante storie di donne in attesa che arrivano da Gaza, c’è anche quella di Noor Hammad, 24enne di Khan Younis che dovrebbe partorire il suo primo figlio a gennaio: “Non ho idea di dove partorirò mia figlia e di come la curerò all’inizio senza un alloggio né vestiti. Non ho niente”, ha raccontato al quotidiano inglese The Guardian. “Non sono affatto pronta a partorire, inoltre gli ospedali attualmente non ricevono casi simili al mio a causa del numero di feriti di cui si stanno occupando. Non posso descrivere l’entità della mia sofferenza; tutti i nostri sogni sono stati distrutti. Spero che questa guerra finisca e che io possa dare alla luce mia figlia in pace”.
(da Fanpage)
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