Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
A 65 ANNI, L’EX SINDACO DI ROMA PUNTA A RACCOGLIERE IL MALCONTENTO DEI DESTRORSI FILO-PUTINIANI
Gianni Alemanno, 65 anni, fa il suo partito. Ragione sociale: rompere le scatole a Giorgia Meloni. Vi riuscirà? È difficile decifrarlo. Persino per i vecchi camerati di un tempo rimane un mistero. È filo Putin e filo palestinese, anti capitalista, anti Mes, anti sistema, troppi amici di una stagione lontana a cui doveva qualcosa. Ora è soprattutto anti Fratelli d’Italia, e spero di racimolare, alle Europee, il presunto malcontento che c’è per la destra che si è fatta governo. “Fratelli d’Italia – tuona – è un partito conservatore, liberista, ultra atlantista. Mi fa rimpiangere la Dc di Fanfani e di Moro”.
Sabato rivelerà il nome e il simbolo della sua creatura all’Hotel Midas, nel congresso di fondazione che farà dell’attuale movimento Forum dell’Indipendenza italiana un partito.
Il simbolo del nuovo soggetto lo ha disegnato Massimo Arlechino, il padre dell’effigie di Alleanza nazionale. “Siamo qui per raccogliere lo scontento”, ammette Arlechino, “per fermare la guerra in Ucraina siamo andati persino dal Papa, ma non è servito. E così proviamo a farci movimento politico”.
Attesi 427 delegati da tutta Italia. Non si capisce se Marco Rizzo, il comunista più vanitoso al mondo, sarà della partita. Di certo parteciperà alla tavola rotonda del Midas, domenica mattina. Alemanno e Rizzo come Bush e Gorbaciov. Di sicuro ci sarà Fabio Granata, ex finiano, un altro eretico di destra (è stato assessore in giunte di sinistra), che fu il vice di Alemanno ai tempi del Fronte della Gioventù. Tutto, nella vecchiaia, si tiene.
“Le elezioni saranno anticipate, la legislatura morirà prima del suo tempo”, scruta l’orizzonte Alemanno, facendo melina sulla partecipazione alle Europee (“non abbiamo ancora deciso”).
E allora perché fare il partito? In realtà il dado è tratto. La scorsa primavera lo si poteva incontrare alle lezioni pubbliche di Alessandro Orsini [“Poi hanno scritto che avrei fatto una cosa con Pillon, poi con Vannacci, ora con Rizzo”, fa finta di indignarsi “contro il teatrino della politica”, ma si capisce che questa attenzione gli piace.
“Non è vero che siamo di destra estrema, siamo fuori dagli schemi, in Argentina ero contro Milei, troppo liberista, e in Israele critichiamo Netanyahu: quello che sta facendo non può essere condiviso”. Né di destra né di sinistra. Come compagno di viaggio c’è un altro fuoriuscito di An, come il napoletano Marcello Tagliatela, che punta sulla questione sociale. È partita la corsa a chi è più sovranista nella destra italiana.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
A TRAINARE I BILANCI DI VIALE MAZZINI CI PENSANO I SOLITI AMADEUS, FIORELLO, CARLO CONTI MENTRE I VARI PINO INSEGNO HANNO AFFOSSATO SOLO L’AUDITEL E LA RAI E’ COSTRETTA A RICORRERE ALLE REPLICHE DI MONTALBANO
Per le novità Rai è la stagione dei numeri minuscoli, a una cifra. Quelli che una volta facevano le cosiddette “altre reti”, le piccole, e che oggi sono diventate l’alternativa. Grazie a Maurizio Crozza e a Fabio Fazio, il Nove è diventato — tra i fratelli minori — il canale più visto. Il primo bilancio per il servizio pubblico racconta che gli spettatori vanno sull’usato sicuro (basta vedere i risultati delle repliche de Il commissario Montalbano), e i titoli storici.
La tv che resiste è quella di Carlo Conti, Amadeus, Antonella Clerici, Mara Venier, Alberto Matano, Marco Liorni, quella tradizionale, con una platea di spettatori adulti e fedeli, visti i dati. TeleMeloni è bocciata con perdite. Se Pino Insegno con Il mercante in fiera su Rai 2 si è fermato al 2%, la scommessa di Avanti popolo, il martedì sera su Rai 3, è persa: stesso share, il 2% con 380 mila spettatori. Nunzia De Girolamo con Ciao Maschio nella notte di Rai 1 aveva portato ottimi risultati, e anche con Estate in diretta, insieme a Gianluca Semprini. Ma in prima serata, con un programma ibrido, people show più approfondimento, ha fatto fuggire il pubblico.
Solo le partite di calcio vanno oltre i 7 milioni di spettatori, ma una serie di titoli garantiscono a Viale Mazzini il podio nella classifica dell’Auditel: Imma Tataranni, Tale e quale show, Affari tuoi, Reazione a catena, Chi l’ha visto?, percepito come ultimo baluardo del servizio pubblico, in una Rai 3, da sempre la più caratterizzata, che non ha più identità.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
AD AMMETTERE LA “TRATTATIVA” È STATA LA MELONIANA LUCIA ALBANO, SOTTOSEGRETARIA ALL’ECONOMIA: “LA DISCIPLINA È STATA RIDISDEGNATA PER SUPERARE LE CRITICITÀ EVIDENZIATE DAL SETTORE”… CON LA RIFORMULAZIONE, CHE LASCIA LIBERTÀ DI SCELTA AGLI ISTITUTI, NESSUNO PAGHERÀ
L’annacquamento della tassa sugli extraprofitti bancari, con conseguente decisione di non pagarla, è stata presa dal governo su richiesta degli istituti di credito. Ad ammettere in un documento ufficiale […] è stato direttamente l’esecutivo di Giorgia Meloni e in particolare il ministero dell’Economia di Giancarlo Giorgetti.
Mercoledì, in commissione Finanze alla Camera, è arrivata la risposta scritta della sottosegretaria all’Economia Lucia Albano (Fratelli d’Italia) a un’interrogazione del deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Francesco Emilio Borrelli, che chiedeva al governo i motivi dell’annacquamento della tassa e se non intendesse tornare alla versione originaria approvata in Consiglio dei ministri il 7 agosto.
La risposta del governo però è stata negativa spiegando i motivi della modifica della tassa in Parlamento: “La disciplina dell’imposta straordinaria in argomento è stata ridisegnata in maniera tale da superare le criticità evidenziate dal settore bancario”, ha spiegato la sottosegretaria Albano ammettendo ufficialmente la trattativa tra l’esecutivo e gli istituti di credito.
Il 7 agosto, il governo Meloni aveva approvato in Consiglio dei ministri un decreto in cui era stata inserita anche una tassa sugli extraprofitti bancari che aveva l’obiettivo di recuperare circa 2,5 miliardi in vista della legge di Bilancio.
L’imposta prevedeva una aliquota del 40% sul maggior valore del margine di interesse degli esercizi 2022 e 2023. Una decisione rivendicata da Matteo Salvini e Giorgia Meloni come scelta di “equità sociale”. Scelta che non era piaciuta all’Associazione bancaria italiana, alla Banca centrale europea e nel governo a Forza Italia.
La famiglia Berlusconi, infatti, possedendo con Fininvest il 30% di Mediolanum, si era esposta in senso contrario chiedendo di modificarla. Così, a metà settembre la tassa è stata svuotata con un emendamento del governo al decreto Asset al Senato: questa norma dava alle banche la possibilità di non pagare la tassa accantonando a riserva indisponibile a bilancio una somma pari a due volte e mezzo il valore teorico dell’imposta. Come ha raccontato il Fatto nelle ultime settimane, l’effetto è stato quello che nessun istituto bancario nel 2023 pagherà l’imposta e non lo farà neanche il Monte dei Paschi di Siena, controllato al 64% dal Tesoro.
Questo farà sì che lo Stato non potrà contare sul gettito inizialmente previsto di circa 2,5 miliardi. Da questo è nata l’interrogazione del deputato Borrelli alla Camera. Dopo aver elencato i dati sugli extraprofitti bancari del 2023 (circa 43 miliardi secondo il sindacato Fabi), Borrelli ha definito la scelta del governo di rendere la tassa non più obbligatoria ma facoltativa un “escamotage” che ha reso “impossibile la maturazione di un importante gettito erariale destinato alla riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese”.
Nella sua risposta scritta, la sottosegretaria Albano ammette: “La disciplina dell’imposta straordinaria è stata ridisegnata in maniera tale da superare le criticità evidenziate dal settore bancario”. Insomma, la richiesta di modifica è arrivata dalle banche – di cui si è fatta portavoce Forza Italia – e il governo ha fatto dietrofront per contribuire “a rafforzare la garanzia delle liquidità dei depositi dei risparmiatori e lasciando comunque ferma la possibile maturazione di un gettito che confluirà nell’apposito fondo finalizzato al finanziamento delle opportune misure volte alla riduzione della pressione fiscale gravante su famiglie ed imprese”. Gettito che però non ci sarà.
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
“ARIANNA CI POTREBBE PARLARE DI COME LA SORELLA VIVA DA QUASI VENT’ANNI PAGATA DAGLI ITALIANI. O MAGARI CI PARLI DI SUO MARITO. IO NON SONO MAI STATA NOMINATA DA NESSUNA PARTE DA MIA SORELLA…”
“Siamo alla difesa corporativa del familismo”. Un paio di giorni fa la deputata M5S Vittoria Baldino ha messo in fila con un video sui social alcuni dei più noti casi di “parenti illustri” di esponenti della destra piazzati in ministeri, società o ruoli chiave dei partito, a partire da Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni, per finire a Filippo Tajani (figlio di Antonio) assunto in Figc. Nella mappa genealogica del potere non poteva non finire Arianna Meloni, sorella della premier diventata capo della segreteria politica di FdI.
Arianna l’ha presa malissimo, accusando Baldino di essere diventata parlamentare “senza aver dimostrato di avere un consenso personale e senza avere alle spalle una particolare militanza” e rinfacciandole di percepire “10 mila euro al mese”.
Onorevole Baldino, su un tema sensibile la sorella della premier contrattacca: io, dice, non prendo soldi.
Visto che lei ne fa una questione di soldi, potrei dire che finora ho restituito circa 150 mila euro della mia indennità. Ma se il tema è questo, Arianna Meloni ci potrebbe parlare di come la sorella viva da quasi vent’anni pagata dagli italiani. O magari ci parli di suo marito. Mi sembra si sia innervosita, ma io non sono mai stata nominata da nessuna parte da mia sorella; quello che ho, ho dovuto guadagnarmelo e lei della mia militanza non sa nulla.
Arianna Meloni difende la sua storia.
La sua risposta ha confermato che l’unica cosa che questa destra ha dimostrato di saper fare è tutelare se stessa e il suo gruppo. Si è trincerata dietro a una difesa corporativa del familismo, nonostante passino le giornate a parlare di merito.
È possibile, come dice Meloni, che alcune di queste persone meritino di stare dove stanno?
Resta una questione di opportunità, perché se vuoi essere inattaccabile non assumi determinate scelte, promuovendo o nominando persone vicine a te o alla tua famiglia.
(da Il Fatto Quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
PEGGIO DEI SERVI DEI POTERI FORTI CI SONO SOLO I SERVI DEI SERVI… ZAIA SI DISSOCIA, L’OPPOSIZIONE CHIEDE LE DIMISSIONI
Bufera su Stefano Valdegamberi dopo l’attacco social rivolto contro la sorella di Giulia, la giovane di Saonara uccisa dall’ex fidanzato. In un post su Facebook, il consigliere regionale veneto, eletto nella lista Zaia e confluito nel gruppo Misto, si rivolge direttamente ad Elena Cecchettin, che ieri ha commentato le dichiarazioni del vicepremier Matteo Salvini: “Dubita della colpevolezza di Turetta perché bianco e di buona famiglia”, ha scritto ieri Elena in un post. Nelle dichiarazioni rilasciate in tv, la giovane ha poi affermato che “i ‘mostri’ non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro”.
E Valdegamberi sostiene che le dichiarazioni di Elena e la lettera “hanno sollevato dubbi e sospetti che spero i magistrati valutino attentamente. Mi sembra un messaggio ideologico, costruito ad hoc, pronto per la recita”. Esprime giudizi sulla sorella di Giulia: “Quella felpa con certi simboli satanici aiuta a capire molto”.
E sostiene che da parte della ragazza di sia “il tentativo di quasi giustificare l’omicida dando la responsabilità alla ‘società patriarcale’. Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza. Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito”. E su Instagram ha: “È un messaggio ideologico. E poi quella felpa con certi simboli aiuta a capire molto…”
Una richiesta di dimissioni viene avanzata da parte della deputata Pd Rachele Scarpa nei confronti di Stefano Valdegamberi per le affermazioni che vengono definite “disgustose”.
Il consigliere veneto viene travolto dalle critiche, tanto che la Lega si affretta a precisare che Valdegamberi non è iscritto al Carroccio e non è mai stato un militante.
E Luca Zaia, attraverso l’Ansam, prende le distanze dal consigliere: “Sono parole dalle quali mi dissocio totalmente, nei concetti espressi e nelle modalità. Penso – ha aggiunto – che sia il momento del dolore e del suo rispetto, non certo quello di invocare l’intervento di magistrati sulle dichiarazioni personali della sorella di una ragazza che ha perso la vita in questo modo tragico”.
Sui femminicidi, afferma il co-portavoce nazionale di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli, “non è ammissibile che esponenti istituzionali possano avere simili comportamenti, pertanto invierò l’interrogazione, contenente le dichiarazioni di Valdegamberi, anche alla Procura per conoscenza. È fin troppo evidente la strategia di accusare Elena Cecchettin in risposta al suo attacco a Salvini, così da screditarla”.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
MA LA LEGA L’HA SEMPRE DATO PER “GIUSTIFICATO”, PERMETTENDOGLI DI INCASSARE LA DIARIA. IL MOTIVO? FACILE: ANGELUCCI È UNO DEI FINANZIATORI PIÙ GENEROSI DEL PARTITO
Il deputato leghista Antonio Angelucci, re delle cliniche private ed editore dei giornali di destra Libero, Il Giornale e il Tempo tramite la Tosinvest, è il secondo onorevole per numero di assenze della Camera dei deputati. Ma nonostante questo, grazie a una concessione della Lega di Matteo Salvini, nella maggior parte dei casi risulta “assente giustificato” a Montecitorio
Questo significa che in molti casi ha continuato a incassare la diaria, cioè il rimborso spese per il soggiorno di cui godono deputati e senatori. Il motivo di questa licenza sarebbe dovuto al fatto che Angelucci sia uno dei più generosi finanziatori del partito, dicono due dirigenti del Carroccio che chiedono l’anonimato
Angelucci è stato deputato di Forza Italia dal 2008 al 2022, mentre alle ultime elezioni politiche è stato eletto con la Lega nel listino plurinominale del Lazio. Dall’inizio della legislatura a settembre scorso, Angelucci alla Camera non si è quasi mai fatto vedere: secondo i dati di Montecitorio aggiornati a un mese fa, il deputato-editore è stato assente nel 99,62% delle votazioni (3.416), secondo solo a Umberto Bossi assente nel 99,91% dei casi per le note ragioni di salute e superando anche la compagna di Silvio Berlusconi, Marta Fascina, recentemente tornata in Parlamento dopo aver disertato il 99,5% dei voti.
Con Fascina, Angelucci ha un altro elemento in comune: la possibilità di risultare assente giustificato in Parlamento per il proprio gruppo. La Lega può contare su tre assenze giustificate e nell’82,47% dei casi (pari a 2.828 votazioni) questo beneficio è stato concesso ad Angelucci. Se in Forza Italia la “giustificazione” è stata concessa a Fascina prima per accudire Berlusconi e poi per elaborare il lutto, il motivo che ha spinto la Lega a fare lo stesso con Angelucci è un altro: l’imprenditore delle cliniche laziali è tra i principali finanziatori del partito.
E in un momento di vacche magre il Carroccio non può permettersi di perdere quei fondi, spiegano i due dirigenti leghisti. Nell’ultimo anno, infatti, Angelucci è stato tra i parlamentari più generosi nei confronti del partito: secondo i rendiconti della Camera, il 25 ottobre 2022 il deputato ha versato 40 mila euro alla “Lega Lazio per Salvini premier”, prima di dare un secondo contributo da 9.900 euro il 20 marzo 2023.
In totale 50 mila euro in pochi mesi. Non è un caso, quindi, che Salvini il 13 settembre scorso abbia organizzato a casa di Angelucci una cena per il suo compleanno in cui ha chiesto a tutti i parlamentari leghisti di versare 30 mila euro a testa in vista della campagna elettorale per le Europee del giugno 2024.
Nel suo ragionamento il vicepremier ha fatto proprio riferimento alla puntualità e alla dedizione di Angelucci nel contribuire con le proprie risorse al partito. Da allora, però, come ha raccontato il Fatto, quasi nessun parlamentare ha versato la sua quota . Angelucci, invece contribuirà regolarmente in vista della campagna elettorale delle Europee del giugno 2024. Nel frattempo, potrà continuare a essere “giustificato” in Parlamento.
(da il Fatto quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO OXFAM: I PIU’ FACOLTOSI PRODUCONO IL 16% DELLE EMISSIONI DI Co2 COME I 5 MILIARDI PIU’ POVERI
Una quota di appena l’1% della popolazione mondiale, quella più ricca, è stata responsabile nel 2019 del 16% delle emissioni globali di anidride carbonica derivanti dai consumi. Quei 77 milioni di persone hanno inquinato quanto i due terzi più poveri di tutta l’umanità, 5 miliardi di persone. Basteranno solamente le loro emissioni e gli effetti del conseguente riscaldamento globale a causare 1,3 milioni di vittime, la maggior parte entro il 2030. Ancora più danni potrà fare il 10% più ricco della popolazione mondiale, responsabile invece della metà delle emissioni globali. Sono alcuni dei dati contenuti in un nuovo rapporto lanciato da Oxfam a pochi giorni dall’inizio della Conferenza delle Parti sul clima, la Cop 28, che si svolgerà a Dubai con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi rispetto al periodo preindustriale (o almeno avvicinarsi più possibile a questo target).
Un dossier, pubblicato in anteprima su ilfattoquotidiano.it, con il quale Oxfam rilancia anche la raccolta firme La Grande Ricchezza, sostenuta dal Fatto Quotidiano e Radio Popolare e a supporto della campagna europea Tax the rich, che chiede alla Commissione di istituire un’imposta europea sui grandi patrimoni. Tra le proposte avanzate da Oxfam, incardinate sulla necessità di dare una risposta simultanea alla crisi climatica e all’acuirsi dei divari economici e sociali c’è, nello specifico, l’introduzione di un’imposta progressiva sui grandi patrimoni, a carico di chi occupa posizioni apicali nelle nostre società – come lo 0,1% dei cittadini più ricchi – e produce molte più emissioni rispetto ai più poveri. Perché il primo passo è combattere le disuguaglianze. A iniziare dall’Italia. Anche nella Penisola i dati sono emblematici: nel 2019, il 10% più ricco della popolazione ha emesso il 36% in più rispetto a metà Paese, il 50% più povero.
Quel legame tra crollo climatico e disuguaglianza – Il report fotografa l’impatto dei modelli di consumo e degli stili di vita dei super-ricchi sui livelli di emissioni inquinanti, mettendoli a confronto con quelli del resto del pianeta. “I super-ricchi stanno saccheggiando e inquinando il pianeta e, di questo passo, finiranno per distruggerlo, lasciando l’umanità a fare i conti con ondate estreme di calore, inondazioni e siccità sempre più frequenti e devastanti” spiega Francesco Petrelli, portavoce di Oxfam Italia. Di fatto, il rapporto non si limita a fornire quantificazioni sull’iniqua distribuzione delle emissioni tra diversi gruppi di reddito, ma riflette anche sugli impatti differenziati del cambiamento climatico per le diverse fasce della popolazione del pianeta. Fotografando inoltre come le sfide del cambiamento climatico e delle crescenti disuguaglianze economiche siano profondamente interconnesse. Commentando i risultati del rapporto l’attivista climatica svedese Greta Thunberg ha ricordato un concetto più volte ribadito alle Cop degli ultimi anni dagli uomini più potenti del mondo. Un concetto che, però, si dimentica troppo in fretta non appena termina il vertice di turno. “Il collasso climatico e la disuguaglianza sono collegati tra loro e si alimentano a vicenda. Se dobbiamo superarne uno, dobbiamo superarli entrambi”. Ancora di più perché i più ricchi possono isolarsi dai danni che causano: “Possono scappare nelle loro case climatizzate. Possono proteggersi da danni alla loro proprietà. Mentre quelli in prima linea, che soffrono a causa degli eccessi dei più ricchi, non hanno nessun posto dove nascondersi dalla siccità, dalle inondazioni e dal calore incessante”. Nei paesi con maggiori disuguaglianze, l’impatto è molto maggiore. Oxfam ha analizzato gli impatti di 573 gravi inondazioni in 67 Paesi a reddito medio e alto: “Il bilancio delle vittime è sette volte più alto nei paesi con maggiori disuguaglianze”.
Il divario nell’impronta di carbonio – Il rapporto, realizzato in collaborazione con lo Stockholm Environment Institute, offre un’analisi dei livelli di emissioni per diversi gruppi di reddito nel 2019 – anno per cui sono disponibili i dati più recenti – mostrando il netto divario tra l’impronta di carbonio dei percettori di redditi più elevati e quella del resto della popolazione globale in base agli stili di vita, ai modelli di consumo e agli investimenti in industrie inquinanti. La quota del 16% di emissioni di Co2, derivante dai consumi di appena l’1% della popolazione mondiale, è persino superiore a quella prodotta da tutte le automobili in circolazione e degli altri mezzi di trasporto su strada. Significa che l’1% più ricco per reddito inquina in media in un anno quanto inquinerebbe in 1.500 anni una persona appartenente al restante 99% dell’umanità.
D’altronde, nel 2022, Oxfam ha condotto un’analisi su 125 miliardari e ha scoperto che, in media, emettevano 3 milioni di tonnellate di Co2 equivalenti all’anno attraverso i loro investimenti, oltre un milione di volte di più, in media, rispetto a chi appartiene al 90% più povero dell’umanità. Il risultato è che, ogni anno, le emissioni di questi super-ricchi annullano di fatto gli sforzi verso la decarbonizzazione. Certamente vanificano la riduzione di emissioni di anidride carbonica che si ottiene dall’impiego di quasi un milione di turbine eoliche. Si avvicina la Cop 28 di Dubai, con il suo obiettivo di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5°C, stabilito con l’Accordo di Parigi sul clima. Di questo passo, però, nel 2030 le emissioni di carbonio dell’1% più ricco saranno 22 volte superiori al livello compatibile con questo obiettivo.
Una tassa sui redditi dei super-ricchi – Per questo Oxfam – con Il Fatto come media partner – sostiene la proposta di un’imposta europea sui grandi patrimoni. “Sarebbe decisiva – spiega la ong – per avere le risorse necessarie per ridurre le disuguaglianze, frenare il cambiamento climatico e finanziare una transizione ecologica giusta, anche in Italia”. Secondo le stime contenute nel rapporto, una tassa del 60% sui redditi dell’1% dei super-ricchi a livello globale ridurrebbe più carbonio di quanto emesso nel Regno Unito e consentirebbe di raccoglierebbe 6,4 trilioni di dollari per finanziare l’energia rinnovabile e la transizione lontano dai combustibili fossili. “Senza pretesa di rappresentare una panacea – conclude Mikhail Maslennikov, policy advisor su giustizia fiscale di Oxfam Italia – un’imposta progressiva sui grandi patrimoni può generare risorse considerevoli per la decarbonizzazione dell’economia e per affrontare al contempo i crescenti bisogni sociali – salute, istruzione, contrasto all’esclusione sociale – che stentano a trovare oggi una risposta adeguata. Un tributo in grado di garantire maggiore equità del prelievo fiscale e una prospettiva di futuro dignitoso per chi ne è oggi privato”.
(da il Fatto Quotidiano)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
IL GRUPPO CHE SFIDA LE DEMOCRAZIE DEL G7
Il mondo «non occidentale» alza il livello della sfida all’egemonia economica e finanziaria degli Stati Uniti. Dal primo gennaio 2024, sei Paesi, cioè Iran, Arabia Saudita, Egitto, Argentina, Emirati Arabi ed Etiopia, si uniranno al gruppo dei «Brics», vale a dire Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Sarà il primo passaggio di una specie di «big bang» che aspira a cambiare gli equilibri geoeconomici del mondo. Almeno altri 40 Stati hanno già chiesto di entrare nel club, dall’Algeria alla Repubblica democratica del Congo, dall’Indonesia a Cuba, dal Kazakistan al Gabon. Si sta formando, dunque, una coalizione che salda grandi potenze, come Cina, India e Russia, a nazioni africane, asiatiche, sudafricane ancora in via di sviluppo. C’era anche questo messaggio nel vertice di mercoledì 15 novembre fra il leader cinese Xi Jinping e il presidente americano Joe Biden, a San Francisco. «Il mondo – ha detto Xi – è abbastanza vasto per tutti e due. Cina e Stati Uniti sono pienamente capaci di crescere, nonostante le differenze». Dopo l’incontro con Biden e la folta delegazione Usa, Xi Jinping è andato a cena con alcuni dei più importanti imprenditori americani, da Elon Muskai dirigenti di Exxon Mobil, Apple, Citigroup, Microsoft. Nello stesso tempo Xi Jinping è stato il più convinto sostenitore dell’allargamento dei Brics. Come dire: porte aperte ai capitali occidentali, ma competizione aperta con Washington per il primato planetario.
Nascita dei Brics
La sigla Bric fu coniata nel 2001 da Jim O’ Neill, capo economista della banca d’affari americana Goldman Sachs, per indicare quattro realtà su cui puntare per investimenti ad alto potenziale, visto il loro sviluppo tumultuoso. La previsione di O’Neill, in realtà, non teneva conto che stava iniziando anche un processo politico-diplomatico. I governi di Brasile, Russia, India e Cina avevano già avviato un dialogo che giunse a maturazione con il primo vertice, ospitato nel sud della Russia, a Ekaterimburg, il 16 giugno del 2009. La foto con quei leader oggi appare un po’ sbiadita. Il presidente del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, è l’unico rimasto in carica. Alla guida della Cina c’era Hu Jintao, ora c’è Xi Jinping; della Russia, Dmitry Medvedev, adesso Vladimir Putin; dell’India, Manmohan Singh, ora è il momento di Narendra Modi. Nel 2010 i quattro fondatori decisero di aprire al dinamico Sudafrica. E con la «s» di Sudafrica i Bric diventarono Brics.
Lo zampino di Goldman Sachs
O’Neill aveva scritto ai clienti di Goldman Sachs che entro il 2040 i Bric avrebbero scalato la gerarchia dell’economia planetaria. Il pil cinese avrebbe agganciato quello degli Stati Uniti; l’India avrebbe sorpassato il Giappone, piazzandosi al terzo posto. E nel complesso i Bric sarebbero cresciuti più del G7, l’élite del capitalismo mondiale formato da Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada. Alla brillante partenza del primo decennio dei 2000 è seguita una fase di rallentamento. Ma, nel complesso, le cose sono andate come aveva immaginato il finanziere di Goldman Sachs.
G7 e Brics a confronto
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) nota che nel 2022 i cinque Brics hanno prodotto il 31,5% del prodotto lordo mondiale, a parità di potere d’acquisto. Dal prossimo gennaio, con la formazione a 11, il «Brics plus», la quota della ricchezza totale salirà al 37,3% e continuerà ad allargarsi: 37,7% nel 2025, 38,5% nel 2028. Giusto per avere un termine di paragone: nel 2022 l’Unione europea ha coperto il 14,5% del pil mondiale (sempre a parità di potere d’acquisto); mentre il G7, il 30,3%. E nel 2028 la loro fetta di ricchezza si ridurrà ancora: quella della Ue (13,7%), quella del G7 (27,7%).
Nel blocco del G7 vivono 800 milioni di persone, vale a dire un quarto rispetto ai 3,2 miliardi di abitanti di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica. Il divario si allargherà nel 2024, con l’apporto dei sei nuovi ingressi: altri 400 milioni di residenti. Totale 3,6 miliardi: il 44,4% della popolazione complessiva abiterà nel territorio dei «Brics plus».
Il G7 può contare su riserve d’oro per 17.527 tonnellate. I Brics ne hanno 5.493 tonnellate. Ma gli «emergenti» già ora dispongono del 21% dello stock petrolifero e con l’arrivo di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Iran toccheranno la soglia del 41%. Sul fronte occidentale gli unici due produttori, cioè Stati Uniti e Canada, valgono rispettivamente il 20 e il 6%. Fin qui i dati di base dei due blocchi. Ma il punto è: quali sono gli obiettivi, dove vogliono e, soprattutto, possono arrivare i «Brics plus»?
Gli obiettivi
Il loro scopo dichiarato è costruire un ordine economico, commerciale e finanziario alternativo a quello creato dagli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra mondiale. Il primo passo è già stato compiuto: la costituzione della «Nuova Banca di Sviluppo» (Nbd). Ha cominciato a operare nel 2016, dalla sede di Shanghai, sotto la guida di una figura molto vicina a Lula, Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile (carica da cui fu sollevata per una serie di scandali). L’istituto è nato con L’ ambizione di diventare il Fondo monetario dei Paesi emergenti: prestare denaro ai governi in difficoltà senza chiedere drastiche riforme. Programma sintetizzato così dallo stesso Lula: «salvare, non affondare i Paesi come fa il Fmi». Gli azionisti della Banca sono i cinque Brics, a cui si sono aggiunti Egitto, Bangladesh ed Emirati Arabi. In sette anni di attività la Ndb ha messo in campo l’equivalente di 30 miliardi di dollari per finanziare circa 100 progetti legati alle infrastrutture, con il proposito di arrivare a 350 miliardi entro il 2030, scavalcando il Fmi che, secondo le cifre aggiornate al 15 novembre 2023, sta gestendo prestiti per circa 110 miliardi di dollari. La Nbd movimenta soprattutto le valute locali, nel quadro di una strategia più ampia: liberarsi della «dittatura del dollaro».
Scalzare il dominio del dollaro
Il tema è stato al centro dell’ultimo summit dei Brics, il 24 agosto 2023, a Johannesburg, in Sudafrica. Xi Jinping, Lula, Modi, il ministro russo Sergei Lavrov, il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa sono partiti dalla centralità del dollaro. La moneta americana regola il 60% degli scambi commerciali internazionali e l’89% delle transazioni sul mercato dei cambi, cioè l’acquisto o la vendita di valuta. Nel settore finanziario i segnali sono più contrastanti. Le banche centrali stanno riducendo il peso del biglietto verde nella composizione delle riserve monetarie. Secondo il Fmi era pari al 65% del totale nel 2016, oggi è sceso al 59%. Nello stesso tempo, però, sono aumentate le emissioni di obbligazioni internazionali denominate in dollari: dal 38,5% del 2003 al 48,5% del 2023. Ciò significa che negli ultimi vent’anni sempre più Stati e sempre più imprese pubbliche o private si sono affidate alla moneta Usa per cercare risorse sui mercati finanziari esteri.
Pechino candida lo yuan
Ma i «Brics plus» sarebbero davvero in grado di lanciare una moneta unica, magari sul modello dell’euro, ideata e sperimentata da zero? La risposta largamente diffusa negli ambienti finanziari mondiali è «no»; e sarà così per un lungo periodo.
Nel concreto, quindi, la «de-dollarizzazione» viene interpretata in due modi diversi. La prima è quella di Pechino. Il governo di Xi Jinping sta spingendo per candidare la propria moneta, lo yuan, a diventare l’alternativa alla divisa americana. Ma parte da molto lontano, forse da troppo lontano. Oggi lo yuan copre soltanto il 2,6% delle riserve valutarie nel mondo, contro il 5,8% dello yen giapponese, il 4,8% della sterlina britannica, il 20% dell’euro e, come abbiamo visto, il 59% del dollaro. Il restante 7,8% è espresso in dollaro canadese, dollaro australiano, franco svizzero e altre monete. A partire dal 2005 Pechino ha concluso una serie di accordi con le banche centrali, tra l’altro, di Malesia, Argentina, Nigeria per offrire lo yuan come moneta per le riserve valutarie.
La proposta di Lula
Inoltre i cinesi hanno sviluppato una piattaforma bancaria, in collaborazione con Thailandia, Hong Kong ed Emirati Arabi, da usare in alternativa allo Swift, il sistema più usato dagli istituti di credito mondiali per regolare i pagamenti finanziari e commerciali. L’attivismo di Pechino, tuttavia, sta incontrando forti resistenze tra gli stessi partner dei Brics. L’India e l’Indonesia, per esempio, hanno già fatto sapere di non essere interessati a sostituire il dominio del dollaro con quello dello yuan. Ecco, allora, il secondo possibile sviluppo della «de-dollarizzazione», così come lo ha spiegato il presidente brasiliano Lula: «Quando commerciamo tra noi, possiamo farlo tranquillamente usando le nostre monete, non abbiamo bisogno di ricorrere al dollaro». Questo schema, però, potrebbe avere un impatto limitato sulla mappa degli scambi mondiali. A meno che non aumenti in modo consistente il trade incrociato tra tutti Paesi del Brics. A cominciare da quello tra i due giganti: Cina e India. Nel 2022 il traffico tra i due Paesi è salito dell’8,2%, toccando la soglia di 135,9 miliardi di dollari. Ma le grandi direttrici del commercio transitano ancora per gli Stati Uniti e per l’Occidente. Due dati, sempre riferiti al 2022: l’interscambio tra Usa e India è stato pari a 191,8 miliardi di dollari; quello tra Usa e Cina addirittura a 758,4 miliardi. Alla prova dei fatti, quindi, i Brics non sono ancora nelle condizioni di poter fare a meno degli Stati Uniti e dell’Occidente, dei suoi prodotti, della sua tecnologia, della sua moneta di riferimento principale, il dollaro.
Il peso politico
Ma c’è un’altra, importante complicazione: difficile immaginare che questi 11 Paesi e quelli che verranno possano muoversi in maniera compatta sul piano politico e quindi condizionare il confronto negli organismi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite. Oppure nel G20, il gruppo che riunisce periodicamente i leader delle prime 20 economie del pianeta. Gli orientamenti sono troppo diversi. Le guerre in Ucraina e a Gaza hanno messo in luce spaccature e netti contrasti. La Cina non ha condannato esplicitamente l’aggressione putiniana a Kiev. L’India lo ha fatto. Le dispute sulla definizione dei confini nazionali tra Pechino e Nuova Delhi sono costanti. Xi Jinping si propone di oscurare la l’influenza americana nella regione dell’Indo-Pacifico. Il premier indiano, Modi, invece, coltiva il dialogo con Joe Biden. Sul Medio Oriente: l’Iran vuole cancellare Israele dalla faccia della terra; l’Arabia Saudita era pronta a firmare un’intesa di cooperazione economica con Tel Aviv (gli Accordi di Abramo), in cambio della protezione militare di Washington, nonché della tecnologia a uso civile americana. La guerra diGaza e la violenta reazione israeliana, però, hanno ricompattato, almeno per il momento, il mondo musulmano contro il governo guidato da Benjamin Netanyahu. Le sfide del «Brics plus», dunque, saranno due. Quella verso l’Occidente e, in parallelo, quella di spianare i contrasti politici interni e di condividere la strategia su moneta, commerci, investimenti per mettere in discussione la centralità geoeconomica dell’Occidente.
Milena Gabanelli e Giuseppe Sarcina
(da corriere.it)
argomento: Politica | Commenta »
Novembre 20th, 2023 Riccardo Fucile
L’80% LO FA PER REPERIRE LIQUIDITA’
La maggior parte degli italiani ha deciso di vendere in nuda proprietà il proprio immobile. È quanto emerge dal rapporto di Immobiliare.it, relativo al primo semestre del 2022.
Oltre il 73% – secondo i dati di Tecnocasa, citati da La Stampa – «è stato spinto da motivazioni quali: reperire liquidità, mantenere un determinato tenore di vita, far fronte a esigenze legate all’avanzare dell’età o sostenere i figli nell’acquisto della casa».
Chi cede la propria abitazione è molto spesso un pensionato che, a causa dei rincari, non riesce ad arrivare a fine mese. Semplificando (di molto) la definizione, dal punto di vista legale, il proprietario di un immobile mette in vendita la sua casa in nuda proprietà conservandone il diritto di abitazione per l’intera durata della sua vita o, in alternativa, fino a una data pattuita e concordata nel contratto di vendita. Ciò significa che alla scadenza dell’usufrutto, chi ha acquistato in nuda proprietà potrà disporre liberamente dell’immobile. Più facile, forse, soprattutto per un anziano, rispetto alle incombenze della vendita vera propria, condizionata dal dover trovare un’altra sistemazione e affrontare un trasloco lasciando la propria abitazione e, molto spesso, i ricordi di una vita.
Acquirenti e venditori: un profilo
Gli italiani con un’età compresa tra i 55 e i 64 anni (oltre il 38%) sono gli acquirenti più attivi sul mercato, secondo i dati di Tecnocasa. Nella maggior parte dei casi, si tratta di famiglie (64,7%), i single si fermano al 35,3% mentre gli acquirenti con figli raggiungono il 26%. Dall’altro lato, chi vende lo fa sia per reperire liquidità, ma anche «per dare una mano ai figli per l’acquisto della casa», si legge nel report. Il venditore, sempre secondo i dati del rapporto, vive solo, è vedovo o vedova, è divorziato o divorziata e si tratta prevalentemente di untra sessantacinquenni. Nell’81,8% delle compravendite di nuda proprietà è inoltre finalizzata a un investimento a lungo termine.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »