Settembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
RENZI: “CI INTERESSA SAPERE SE ALES HA FATTO ASSUNZIONI MARCHETTA OPPURE NO, CI INTERESSA SAPERE SE CHI HA RICEVUTO SOLDI DA ALES HA FINANZIATO E IN CHE MODO FRATELLI D’ITALIA, CI INTERESSA SAPERE SE SANGIULIANO HA SCELTO TAGLIAFERRI PERCHÉ QUALCUNO GLIEL’HA DETTO”
“A me interessa sapere che cosa fa un ministro in ufficio, non cosa fa a letto”. Lo dichiara nella Enews il leader di Italia viva, Matteo Renzi. “E le cose al momento stanno cosi’ – continua l’ex premier -.Nella principale azienda che gestisce la cultura in Italia, Sangiuliano ha nominato un consigliere comunale di Frosinone privo di curriculum e credibilita’ imprenditoriale e culturale oltre che molto discusso nella sua citta’.
Pare che la scelta di puntare su di lui, tal Tagliaferri, derivi direttamente da una delle sorelle Meloni.
Ci interessa sapere quale delle due sorelle, ci interessa sapere se Ales ha fatto assunzioni marchetta oppure no, ci interessa sapere se chi ha ricevuto soldi da Ales ha finanziato e in che modo Fratelli d’Italia, ci interessa sapere se Sangiuliano ha scelto Tagliaferri perche’ lo conosceva o perche’ qualcuno gliel’ha detto. Perche’ la prima azienda per servizi culturali in Italia deve essere trasparente e pulita, no?”
Un documento riservato, illustrato ai componenti del Consiglio di amministrazione, ai dirigenti e agli organi sindacali. Fabio Tagliaferri, esponente di Fratelli d’Italia di Frosinone, molto vicino alla capo segreteria del partito Arianna Meloni e nominato nel febbraio scorso presidente e amministratore delegato di Ales, ha pronto un piano che prevede nuove assunzioni ai massimi livelli, proprio mentre sul ministero della Cultura si è abbattuta la bufera legata alle nomine e in particolare a quella mancata di Maria Rosaria Boccia, costata il posto all’ex ministro Gennaro Sangiuliano.
Il piano prevede quasi un raddoppio del numero dei dirigenti all’interno della società in house che supporta il dicastero nelle sue attività: dagli attuali cinque si arriverebbe a nove, con l’assunzione quindi di quattro nuove figure apicali, selezionate e scelte direttamente dal presidente.
Tutto questo potrebbe avvenire a stretto giro, a meno che il nuovo ministro della Cultura Alessandro Giuli non decida di fermare la delibera anche per non alimentare quelle voci secondo cui, dall’insediamento di Tagliaferri, Ales sarebbe diventato un «assumificio della destra». E quattro nuovi dirigenti, stando alla media degli attuali stipendi, verrebbero a costare circa 500 mila euro in più.
In Parlamento ci sono già due interrogazioni depositate, una a firma Italia viva, l’altra Pd. In entrambe viene chiesto un report delle assunzioni fatte in Ales da febbraio, mese di insediamento di Tagliaferri, ad oggi. In particolare il renziano Francesco Bonifazi scrive che la nomina del presidente e amministratore delegato, che percepisce un compenso complessivo di 146 mila euro, «suscita diverse perplessità considerato il curriculum privo di qualsiasi requisito ed esperienza professionali in ambito culturale». E riguardo le nuove assunzioni intende «verificare se i criteri di assegnazione di nomine e incarichi non siano stati i semplici rapporti di appartenenza politica e amicali».
C’è infatti tutto un capitolo assunzioni già avvenute tramite bando pubblico, a cui in molti casi ha partecipato una sola persona. In sette mesi, ma nei primi venti giorni di presidenza non si registrano assunzioni, sono stati stipulati 88 nuovi contratti di consulenza e collaborazione, come emerge dal sito.
(da agenzie)
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Settembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
LE AGGRESSIONI NON DENUNCIATE NEGLI OSPEDALI SONO 130.000… IL GOVERNO “DELLA SICUREZZA” NON RIESCE A GARANTIRLA NEANCHE AGLI OPERATORI SANITARI SUL LUOGO DI LAVORO… INTERVISTA AL PRESIDENTE DEL SINDACATO DI CATEGORIA
“Le immagini dell’aggressione al Policlinico Riuniti di Foggia sono terribili. Non
possiamo non immedesimarci in quegli attimi di terrore. Quello che è successo grida violenza: nessuno dovrebbe mai essere esposto a un trauma di questo tipo”. Il girato dei medici trincerati in una stanza del blocco operatorio che provano a serrare la porta per evitare l’irruzione dei familiari di una 23enne deceduta durante un intervento chirurgico, è ancora fresco.
Nelle stesse corsie di ospedale, ci sono stati almeno altri due episodi di violenza sul personale ospedaliero. Ma si parla di scene in aumento come evidenziano i dati dell’Inail. “E il 70% si verificano sul personale infermieristico, per la maggior parte composto da donne”, spiega a Fanpage.it Antonio De Palma, presidente nazionale del sindacato di categoria Nursing Up.
Presidente, qual è la dimensione del fenomeno?
“Si tratta di un fenomeno in crescita, al punto che l’Italia è tra i primi posti per violenza negli ospedali come luoghi di lavoro. Non esiste una politica di prevenzione. L’anno scorso l’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e sociosanitarie ha raccolto 16 mila segnalazioni ufficiali di aggressioni. Se però aggiungiamo tutte quelle non denunciate si arriva a 130 mila, comprese le aggressioni verbali e le minacce”.
Ci sono ospedali più problematici di altri?
“Ormai il fenomeno delle aggressioni riguarda tutto il Paese, tutte le regioni. Nel 2023 la Campania è stata al primo posto per aggressioni fisiche e psicologiche con 10mila casi. La segue a ruota la Lombardia con 8.000, cifra che si ritrova anche in Puglia, Toscana e Sicilia”.
Soluzioni?
“Ristabilire presidi di polizia all’interno delle strutture che vigilino per 24 ore. In particolare, servono garanzie per i turni di notte. Inoltre, servono anche comitati costituiti sia da professionisti sanitari sia da cittadini, per far sì che si crei una maggiore sensibilità sulla questione. Come sindacato, abbiamo già chiesto la convocazione del comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza al ministero dell’Interno”.
C’è anche una proposta di legge di FdI che prevede il daspo alle cure per gli aggressori.
“È inutile. Non è una soluzione deterrente e non chiarisce la reale portata del fenomeno. Al di là del dubbio costituzionale, si tratta di un provvedimento che aggiungerebbe ulteriori problematicità. Devono tornare presidi fissi della polizia, come già c’erano ma le varie spending review hanno tagliato progressivamente”.
Quali strascichi lasciano queste aggressioni?
“Fin dal giorno successivo dell’aggressione, i professionisti sanitari rivivono quelle scene in ogni azione: dal timbrare il cartellino al bussare a una porta. La vivono in stato di prostrazione. Il nostro è un lavoro che necessita tranquillità. Comunque, noi stiamo ricevendo tantissime denunce da parte di infermieri che hanno terrore nell’attaccare il turno e non vogliono più lavorare nei pronto soccorso e nelle sale operatorie”.
Ma è un lavoro che tira ancora?
“Non direi. Dal 2010 al 2024 le iscrizioni per il test di infermieristica sono passate da 46.281 a poco più di 20 mila. Si parla di un calo di oltre il 50%. Se andassimo avanti così, tra dieci anni si parla di un abbattimento di un ulteriore 25%. Abbiamo una carenza di 175 mila unità rispetto agli standard europei”.
Quali sono i motivi?
“La complessità del percorso universitario, le migliaia ore di tirocinio, la precarietà dei contratti, i doppi turni e le lusinghe economiche da altri Paesi. Uno stipendio medio di un infermiere si aggira tra i 1.500 e 1.600 euro al mese, c’è una differenza di almeno 500 euro rispetto a quello in Francia e Olanda, per non parlare di Gran Bretagna, Svizzera, che paga sopra i 3.000 euro, e i paesi arabi che arrivano fino a 6.000 euro netti e mettono a disposizione anche politiche di welfare per la famiglia”.
Vive questa situazione con preoccupazione?
“Sì, anche perché in Italia si sta facendo largo la figura dell’assistente infermiere senza una riorganizzazione complessiva delle professionalità sanitarie. Gli infermieri sono dottori a tutti gli effetti, hanno un percorso di formazione universitaria alle spalle; gli assistenti infermieri avranno solo 6 mesi o un anno di formazione. E a subirne i danni saranno i cittadini che dovranno essere curati”.
(da Fanpage)
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Settembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
STANNO FACENDO LENTAMENTE SPROFONDARE LA CROSTA TERRESTRE AL LARGO DELLO STRETTO
Calabria e Sicilia si stanno progressivamente allontanando a causa di un sistema di faglie presenti nel fondale dello Ionio Meridionale, che stanno facendo sprofondare lentamente la crosta terrestre al largo dello Stretto. È quanto emerge dai primi risultati di uno studio effettuato dai membri del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), condotto sulla nave oceanografica Gaia Blu, in cui sono state individuate larghissime spaccature sul fondale marino di una delle zone sismiche più attive del continente europeo.
La ricerca, che ha la finalità di aumentare le conoscenze sui processi geologici nello Ionio meridionale, è stata svolta al largo dello Ionio tra Etna e Grecia. Nonostante la zona sia distante dallo Stretto, l’attestazione del movimento di allontanamento tra i blocchi crostali sta già producendo significative ripercussioni sul dibattito pubblico in merito alla sicurezza e alla sostenibilità del Ponte sullo Stretto di Messina, i cui lavori – almeno secondo gli intendimenti del governo – dovrebbero partire nei prossimi mesi. La società Stretto di Messina SPA, concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione del Ponte, ha reagito minimizzando i risultati dello studio e confermando le previsioni del progetto definitivo dell’opera.
Come si legge in un comunicato diramato dal Cnr, che ha illustrato quanto appreso nel corso della ricerca, «utilizzando tecnologie geofisiche all’avanguardia» è stato «identificato un campo di rilievi sottomarini allineati lungo profonde spaccature del fondale dello Ionio meridionale, dove un sistema di faglie sta progressivamente allontanando la Calabria dalla Sicilia». Si tratta, nello specifico, di «diapiri», ovvero «sedimenti che risalgono da zone profonde, visibili solo con ecografie del sottosuolo», ma anche di «vulcani di fango» che si formano «quando materiale profondo risale verso la superficie insieme a fluidi e gas», originando in certi casi «delle vere e proprie eruzioni fluide e viscose». Le immagini hanno evidenziato nitidamente le morfologie di tali rilievi, che «mostrano indicazioni di attività eruttiva e tettonica recente». L’obiettivo degli studiosi sarà ora quello di «approfondire la natura e la provenienza del materiale che risale lungo queste grandi faglie litosferiche», cercando di comprendere «come queste influiscano sulla generazione di terremoti in una delle zone sismicamente più attive in Europa». Alla discussione che è seguita alla pubblicazione dei primi risultati dello studio ha subito reagito la Stretto di Messina SPA, che in una nota ha scritto che «l’individuazione delle formazioni geologiche citate non è rilevante ai fini della fattibilità del ponte sullo Stretto di Messina», essendo «noto» che «le coste siciliana e calabrese sono soggette ad un seppur minimo allontanamento ampiamente considerato nel progetto definitivo del 2011 e nel suo aggiornamento del 2024». La società ha confermato le previsioni del Progetto Definitivo, evidenziando che «il movimento differenziale tra i due siti scelti per i piloni (Calabria-Sicilia) è inferiore a 1 mm/anno».
Sembra però presto per tirare conclusioni. I campioni di sedimento e rocce prelevati dai ricercatori del Cnr saranno esaminati dagli studiosi nei prossimi mesi. Solo tra qualche tempo si capirà se ulteriori elementi verranno aggiunti al novero di raccomandazioni già effettuate dai tecnici del comitato scientifico che, pur dando parere positivo alla relazione di aggiornamento, lo scorso marzo avevano avanzato 68 rilievi.
Oltre alla necessità di mettere mano a ulteriori verifiche sugli effetti del vento, a un aggiornamento della “zonizzazione microsismica” e a raccomandazioni sugli acciai con cui si realizzeranno i tiranti, spiccavano infatti osservazioni sulla “geologia dei fondali marini”, rispetto a cui è stata ritenuta necessaria una «integrazione degli studi più recenti sui fondali marini dello Stretto di Messina e delle zone limitrofe» in considerazione di «recenti studi su fagliazione, depositi e forme possibili indicatori di attività tettonica recente». Nell’ultimo anno, il progetto definitivo del 2011 da cui l’esecutivo ha scelto di ripartire è stato aggiornato dal consorzio Eurolink, che nel 2005 aveva vinto la gara d’appalto per i lavori. Nel frattempo, il costo complessivo per la realizzazione dell’opera è lievitato fino a 14,5 miliardi di euro.
(da lindipendente.online)
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Settembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
LE CRITICHE APERTE AL CREMLINO: “QUESTA GENTE MENTE COME RESPIRA, MA IL RE E’ NUDO”
«Vladimir Vladimirovich, sei fuori di testa», scrive uno all’indirizzo di Putin dopo le
più improbabili elezioni regionali mai tenute nel Kursk. E quando l’ex ministro della Difesa e oggi segretario del Consiglio di sicurezza russo Sergey Shoigu afferma che non si negozia con Kiev «finché i terroristi non saranno stati cacciati» dalla provincia russa occupata, su Telegram piovono le reazioni: «Prima bisogna cacciare qualcuno dal Cremlino», scrive un anonimo. E un altro che si fa chiamare «tolstjačók», il grasso, aggiunge: «Questa gente mente come respira, ma il re è nudo». E ancora un’altra, «Anastasia» per Telegram, incassa un centinaio di pollici alzati in segno di approvazione scrivendo: «Che Shoigu stia zitto, è tutta colpa sua!».
Shoigu naturalmente ha una responsabilità gravissima, era ministro della Difesa quando la Russia scatenò la sua aggressione nel 2022. E oggi che Putin l’ha rimosso dal governo, il tabù è caduto: tanta gente sente che è diventato criticabile senza dover rischiare persecuzioni. Del resto non sono solo l’Italia e gli Stati Uniti ad avere un popolo di leoni da testiera. La differenza nel Kursk, dopo più di un mese dall’inizio dell’incursione ucraina, è che ora le reazioni sulla rete stanno cambiando segno. Non si leggono più solo le proteste per i rifugi anti-aerei che non bastano, per le scuole chiuse o l’assistenza insufficiente a una popolazione di sfollati che – secondo il Moscow Times – è compresa fra i 100 mila e i 200 abitanti.
Adesso le proteste si fanno più politiche. E vanno al cuore del contratto sociale offerto da Putin all’opinione pubblica russa: il messaggio è sempre stato che l’«operazione militare speciale» c’era ma altrove, lontano dalle loro case; e i russi non ne avrebbero avvertito l’esistenza se non per i rubli che il Cremlino distribuisce a pioggia sui coscritti, le loro famiglie e l’intero apparato militare-industriale.
Questo patto con l’incursione ucraina del Kursk è andato in pezzi, almeno per i suoi abitanti. E loro su Telegram scaricano la frustrazione perché nel resto della Russia si cerca di tenerlo in piedi, ignorandoli. Così quando il presidente della regione di Mosca Andrei Vorobyov annuncia gli effetti di un drone ucraino su un palazzo alla periferia della capitale (centodue appartamenti danneggiati), i commenti sul «Canale Kursk» di Telegram – una voce ufficiale della regione – sono senza autocensura. Qualcuno non nasconde la soddisfazione che non tocchi solo al Kursk, che anche gli abitanti della capitale debbano fare i conti con la guerra.
Una «Irina Nikolaevna» è la prima a commentare il drone sul palazzo della regione di Mosca: «Be’, forse tutti si sveglieranno adesso». Subito dopo un’altra «Irina» fa il pieno di pollici alzati con una considerazione: «E così sono arrivati a Mosca. Le regioni di frontiera (con l’Ucraina, ndr) vivono come su un vulcano, mentre in altre città la gente non sa neanche cosa sta accadendo». Questi commenti poi ne innescano altri a cascata: «Da quel che posso vedere, che abbiano raggiunto Mosca ti fa veramente felice» osserva una che si fa chiamare «Ekaterina Viktorovna». Ma il post più emblematico è quello di un’iscritta di Telegram che si fa chiamare «Dora la fata». Perché conferma il sospetto, terribile per gli abitanti del Kursk, che il resto dei russi vivano in una bolla d’ignoranza: «È assolutamente vero – scrive Dora a Irina Nikolaevna -. Ho viaggiato in varie città e dopo Voronez (a 250 chilometri dal confine ucraino, ndr) la guerra non esiste».
Sul canale Telegram Kursk Oblast («Regione di Kursk») i residenti si lamentano che l’indennizzo una tantum per gli sfollati da diecimila rubli, pari a 99 euro, è ridicolmente basso. Quando Kursk Oblast ricorda il bonus da 800 mila rubli (7.970 euro) come bonus d’ingresso per chi entra nell’esercito per combattere in Ucraina, c’è chi non trattiene il sarcasmo: «Che ci vadano quelli di Mosca e San Pietroburgo, finalmente!»
È la stessa tensione fra gli uomini dimenticati delle province e i privilegiati dei grandi centri che, in Occidente, alimenta la polarizzazione. Eppure non c’è una di queste voci di sfollati o destabilizzati dall’incursione di Kiev che abbia una parola sugli ucraini. Né per dare sfogo all’ostilità, né per esprimere comprensione. I russi del Kursk vivono l’invasione passivamente, come fosse una calamità naturale. I nuovi rifugi antibombe comparsi in alcune cittadine del Kursk fanno discutere su Telegram, ma solo perché i tetti non tengono l’acqua e gli abitanti li usano come latrine.
Da Telegram viene fuori una Russia di provincia scettica, disillusa, dove il senso civico è in pezzi da molto prima che i droni ucraini cadessero: un Paese lontano da quello che Putin, nella sua bolla del Cremlino, si illude di guidare verso il trionfo.
C’è solo un momento di sarcasmo, se non di rivolta: quando domenica scorsa si chiudono le elezioni del nuovo governatore del Kursk. Il canale Telegram ufficiale della regione dichiara un’inverosimile affluenza dell’87% grazie al voto digitale da remoto degli sfollati, con cui stravince il putiniano Alexei Smirnov. Ma nessuno ci crede. «Che succede? Noi viviamo a Rylsk, e qui ai seggi non è andato nessuno», commenta «Valentina». Tranq46 gli fa eco: «Come ha potuto votare l’87% da remoto, se solo il 5% è iscritto per il voto digitale?».
È lì che qualcuno si fa sfuggire «Vladimir Vladimirovich, sei fuori di testa». Ma è un’istante. Si torna subito a parlare d’altro.
(da il Corriere della Sera)
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Settembre 13th, 2024 Riccardo Fucile
L’ANALISI DEL FILOSOFO SU “LA STAMPA”
Caro ministro Giuli, le e mi auguro che il suo ministero possa segnare un punto di svolta nel dibattito intorno alle politiche culturali così acceso in Italia dopo la formazione del governo Meloni. Do ovviamente per scontato che lei non andrà più in cerca di gloriosi antecedenti della destra in Dante, l’augurio si riferisce alla volontà di impostare in modo serio quella che una volta si chiamava “battaglia delle idee”.
La competizione in questo campo è vitale per la stessa vita politica. E la competizione si svolge certo in vista di acquisire posizioni “egemoniche”. Così è stato in tutti i Paesi occidentali nei periodi più drammatici della loro storia. In questa prospettiva va interpretata l’azione svolta, per citare un grande esempio, dall’idealismo italiano tra ‘800 e Grande Guerra, o anche dalla cultura gramsciano-storicistica in Italia nel secondo dopoguerra nel confronto tra le diverse, e agguerritissime, scuole del pensiero cattolico, fino al disgregarsi di questo terreno comune di lotta a partire dagli anni ’70.
Questo disgregarsi ha cause molteplici e complesse, ma nasce sostanzialmente dalla consapevolezza critica che nella cultura europea è impossibile tracciare rigidi steccati; esistono “limina” sempre trasgredibili, mai Muraglie cinesi. Il pensiero critico – che altrimenti non è pensiero – funziona proprio nella misura in cui fa breccia sui muri, ne mostra la non inesorabilità.
Ciò significa “abbracciamoci tutti”? Niente affatto, anzi, ciò significa tragicamente che le nostre sono “guerre civili”, nelle quali nel campo avverso ci sono nostri fratelli, magari educati nella stessa scuola e dagli stessi autori.
Gramsci non è comprensibile senza l’attualismo gentiliano. Da una comune radice iniziano destini opposti (anche se si ritrovano nella tragica fine). O da origini opposte esiti comuni, come, per fare il nome di altri grandi europei, nel caso di Thomas Mann e Benedetto Croce.
La cosiddetta egemonia della “sinistra” nel secondo dopoguerra si fonda ancora su una “affinità” gramsciano-gentiliana. Ma è un’egemonia, lo ripeto, assolutamente per modo di dire: l’opposizione cattolica a essa è rimasta culturalmente forte, come d’altronde quella liberale, ma anche politicamente organizzatissima.
Più la crisi dell’assetto internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale si faceva evidente, più perdevano consistenza, capacità di interpretare tale crisi, almeno nel mondo occidentale, le partizioni fascismo-antifascismo, democrazia-autoritarismi, più emergevano, a un occhio privo di pregiudizi, le più pericolose osmosi tra quelle che erano apparse contrapposte trincee.
Era necessario comprendere a fondo la trasformazione delle nostre democrazie, le attuali, reali contraddizioni che ne vanno minando le fondamenta? E come fare senza i Mosca e i Pareto? Come non risalire alle critiche, opposte e complementari, dei Tocqueville e dei Marx?
Le grandi diagnosi sul futuro del capitalismo globale, inteso come sistema sociale di produzione, sono dei Marx, dei Weber, dei Sombart, degli Schumpeter. Di destra o di sinistra? Sciocchezze.
Grande pensiero critico europeo, capace di ironia e paradosso. Spietato nel suo realismo. Punto fermo: mai cadere nell’illusione della risoluzione del conflitto attraverso un qualsiasi Fuehrerprinzip (principio del capo), della risoluzione del conflitto come sua messa a tacere! Questo solo il discrimine. La politica offre, se è vera politica, qualche buon scopo e qualche via di uscita, salvezza mai.
Su queste basi e non altre lei, ministro, favorisca una sana ricerca di “egemonia”. Qualsiasi pretesa “egemonica” che non guardi in faccia le contraddizioni dell’Homo democraticus, nel suo individualismo combinato a bisogno di sicurezza, che non veda l’”inferno” che questo insieme può scatenare, che non rifletta in questa luce sul destino delle democrazie, e si illuda di poter rispondere alla crisi con ideologie semplicemente reazionarie rispetto all’impetuoso e irreversibile processo di secolarizzazione, non rappresenterebbe che relitti sia di arcaiche destre che di decrepite sinistre.
Caro ministro, so che non è il suo campo, ma una battaglia davvero comune per tutti coloro che pensano criticamente è oggi, non solo temo in Italia, urgentissima. Parlare di culture politiche prima che di politica della scuola e della formazione è puro non-senso. Aiuti a liberare la politica scolastica italiana dai lacci e lacciuoli che la soffocano! Un grido di dolore si leva dai suoi insegnanti più capaci. Adempimenti burocratici di ogni tipo, formulari, schede, ciarpame metodologistico e pseudo-tecnico soffocano l’autentica didattica.
Quella fondata su contenuti reali, autori, testi. Domina il “soft skill metacognitivo”, l’addestramento a imparare piuttosto che il duro confronto con le cose da imparare. Metodologismo, pedagogismo, retorica sul digitale, campionari dolciastri di politically correct, il tutto mescolato al solito perverso ideale che subordina la formazione al mercato, dominano la politica scolastica da decenni, e sempre peggio, in mano a oscure potenze ministeriali. Regno della peggior burocrazia alleata alla peggior Accademia. Lei è ministro della Cultura, getti il grido di allarme, ammesso non sia troppo tardi.
Veda, Croce e Gentile l’avevano capito bene, e su questo son sempre rimasti alleati – non c’è egemonia sul piano culturale se non c’è nella scuola (nell’Università è anche peggio, ma alla prossima puntata).
Con molti auguri, Massimo Cacciari.
Massimo Cacciari
(da lastampa.it)
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