Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
E COSTRUISCE LE “REALTÀ ALTERNATIVE” CHE IL MINISTRO DEGLI ESTERI RUSSO OFFRE AL MONDO IN NOME E PER CONTO DI PUTIN
Rieccola, Maria Zakharova. Aggressiva e chirurgica, scostante e definitiva. Sempre più fa pensare a Ludmilla Vobet Drago, alias Brigitte Nielsen, che in Rocky IV gestisce con arroganza e sufficienza le comunicazioni del marito Ivan Drago, il peso massimo sovietico che sfida l’italoamericano Rocky Balboa, declinazione pugilistica della Guerra Fredda tra Urss e Stati Uniti.
Il «pugile» di cui la nostra si occupa ormai da molti anni è l’intramontabile Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri che probabilmente avrebbe preferito dedicarsi completamente alla poesia, disciplina in cui si cimenta con discreti risultati, invece di esser costretto a ripetere le bugie di Vladimir Putin.
La bionda e truccatissima Zakharova è il suo megafono. Mente al suo posto, bacchetta chiunque osi contraddirla, soprattutto costruisce le «realtà alternative» che Lavrov offre al mondo in nome e per conto del suo dante causa.
Come quando, il 16 febbraio 2022, otto giorni prima dell’invasione, la signora si fece beffe delle anticipazioni dei media occidentali sull’imminente attacco russo contro l’Ucraina, chiedendo il programma delle prossime azioni militari della Russia in modo da «poter pianificare le vacanze».
Maria è cresciuta tra due dittature: figlia di diplomatici, ha trascorso l’infanzia a Pechino e si è laureata in Sinologia a Mosca. Alla soglia dei cinquant’anni, è da tempo all’apice della carriera al punto che nel 2016 la Bbc la inserì fra le 100 donne più influenti al mondo.
Dal febbraio 2022, invece, è entrata in una lista meno glamour, quella delle personalità russe sanzionate, bandite dai viaggi in Occidente e alle quali sono stati congelati i conti esteri. Da allora, sempre supergriffata, lo shopping va a farlo a Dubai.
Nel 2021 denunciò l’esercitazione militare della Nato Defender Europe 21, che coinvolgeva anche Estonia, Bulgaria e Romania, accusando l’Alleanza atlantica di voler provocare e preparare un «pugno di attacco» ai confini della Russia.
Neppure i colleghi della Rai Stefania Battistini e Simone Traini sono stati risparmiati dalla novella signora Drago per il loro coraggioso reportage dalla regione di Kursk. Zakharova li ha bollati come «traditori della professione che partecipano alla fabbricazione e diffusione della propaganda ucraino-nazista».
Ora ha alzato il tiro, «sparando» su Sergio Mattarella. La differenza con qualche mese fa, è che ora grazie a Donald Trump, lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, sembra sorridere al Cremlino.
(da agenzie)
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Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
IL PAGAMENTO, LE INDAGINI E LA RICHIESTA DI RISARCIMENTO… A SETTEMPRE L’HA PAGATA, MA NON SI TROVA
Che fine ha fatto la chiave donata dal comune di Pompei a Gennaro Sangiuliano?
Era il 23 di luglio 2024 quando l’allora ministro della Cultura riceveva dal sindaco di Pompei, Carmine Lo Sapio, il costoso omaggio. Una chiave d’oro del valore di migliaia di euro. Circa 12 mila, per l’esattezza, stando a quanto versato da Sangiuliano nelle casse del Comune lo scorso settembre, una volta scoperto che il dono ricevuto non era la patacca che si aspettava. Niente regali indebiti, dunque, ma il caso sussiste comunque, perché quella chiave il ministro non l’hai mai avuta fisicamente con sé, se non per pochi minuti nel momento della premiazione. Alla quale era presente anche Maria Rosaria Boccia, mancata consigliera che di lì a due mesi avrebbe costretto il ministro alle dimissioni
La doppia indagine sulla chiave di Pompei a Sangiuliano
Mentre il ministro tornava in macchina a Roma, la chiave non c’era. Un quadro e una pergamena, ma la chiave no. Sangiuliano aveva chiesto al Comune che il prezioso monile d’oro e pietre preziose gli venisse riconsegnato, ma pare non l’abbia mai ricevuto, pur avendolo pagato di tasca propria. Sul fatto indaga la Corte dei Conti. Due giorni fa i giudici hanno notificato al sindaco di Pompei e a due funzionari comunali una richiesta di risarcimento di 44 mila euro. Inoltre, secondo quanto riporta l’edizione napoletana di Repubblica, a investigare c’è anche la procura di Torre Annunziata (Napoli). L’obiettivo è capire il vero valore della chiave, accertare la procedura d’acquisto e scongiurare le ipotesi di altri reati.
Il sindaco di Pompei e il valore della chiave
La pm Raffaella Miranda e il procuratore Antonio Giuseppone contestano il costo eccessivo della chiave e di altri tre regali. Un’altra chiave all’ex ministro Dario Franceschini, un rosario d’oro al vescovo Tommaso Caputo e un orologio all’ex direttore degli scavi di Pompei, Massimo Osanna. Le cifre spese che potrebbero costituire un danno per le casse del Comune, oltre a un danno d’immagine per Pompei, capitale della Cultura nel 2027. Secondo l’ipotesi degli inquirenti, i regali non avrebbero promosso tanto Pompei quanto i risultati del sindaco: «Una spesa effettuata quasi a titolo personale ma col danaro pubblico». «Un’onorificenza deve avere un valore in sé», si è giustificato Lo Sapio, già sentito dalla guardia di finanza. «Le attività dei dirigenti responsabili dei settori del Comune di Pompei sono sempre eseguite su precise disposizioni da me impartite», ha aggiunto il sindaco, indagato assieme al segretario comunale Vittorio Martino e al dirigente Salvatore Petirro.
La gioielleria
Sullo sfondo c’è anche la scelta della tipografia per i biglietti da visita della cerimonia del 2022 con cui sono stati consegnati i premi a Osanna e Franceschini. E la gioielleria Vitiello, che per la chiave e l’orologio emise fattura direttamente alla tipografia e non al Comune. Poi, Vitiello venne ricontattata nel 2024 per la chiave di Sangiuliano, secondo gli inquirenti senza rispettare il principio di rotazione sugli appalti ad affidamento diretto superiori ai 5 mila euro. «Siamo un’attività da più di cento anni, le cose importanti vengono chieste sempre a noi, non solo da questo sindaco. Quella chiave è un pezzo unico. Si spendono tanti soldi per strade, luci: ora il problema sarebbe la chiave? Troppa invidia intorno a noi…». Poi la gioielliera rivela: «Ci chiamarono a settembre dal ministero, volevano sapere il valore della chiave, forse perché non la trovavano?».
(da agenzie)
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Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
TRUMP E VANCE SONO I CAMPIONI POLITICI DI QUESTA AMERICA INTOLLERANTE, BIGOTTA E IGNORANTE
Che il vice di Trump, J. D. Vance, sia preoccupato «per la libertà di parola in Europa» potrebbe essere solo una notizia buffa, una delle tipiche gaffe degli americani all’estero: la conoscenza del resto del mondo non è materia nella quale gli americani brillino, anche se fanno il vicepresidente.
Un facoltoso cliente americano una volta chiese a mio padre, che lavorava in banca, “se anche in Italia conosciamo il Natale”. Una coppia di insegnanti americani, ospite di un mio amico in una vallata del Bolognese, di fronte a una fotografia di don Bosco appesa davanti a una scuola, gli chiese come fosse possibile che si potesse omaggiare pubblicamente il capomafia locale, e il mio amico dovette spiegare che don Vito Corleone e don Bosco non facevano lo stesso mestiere.
Ma in questo particolare scorcio della storia, la sortita di Vance non è per niente divertente. È irritante oltre misura, perché arriva dall’esponente di spicco di una destra che sta bonificando, o proclama di voler bonificare, le biblioteche pubbliche americane (quelle scolastiche in particolare) da «contenuti sessuali» (Lolita di Nabokov il primo della lunga lista di proscrizione) e considera blasfemo, e da mettere al bando, l’evoluzionismo di Darwin.
Molti cristiani rinati, negli Usa, ritirano dalle scuole i loro figli perché basta e avanza la Bibbia a capire come è nato il mondo. I più tolleranti concedono alle scuole di continuare a insegnare, a patto che nelle aule siano appesi i dieci comandamenti.
Trump e Vance sono i campioni politici di questa America intollerante, bigotta e antiscientifica. Se conoscessero, oltre la Bibbia, anche il Vangelo, questi cristiani senza Cristo si occuperebbero della loro trave invece di discettare sulle pagliuzze altrui.
(da La Repubblica)
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Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
LA GUERRA PIU’ STUPIDA DELLA STORIA: FARA’ MALE SIA AGLI STATI UNITI CHE AL RESTO DEL MONDO
I ricorsi storici lasciano il tempo che trovano. Eppure il ritorno di Trump alla Casa
Bianca precipita l’intera umanità in un interregno gramsciano, dove il vecchio ordine è morto e quello nuovo non è ancora nato. L’Occidente è sospeso tra due guerre, ciascuna delle quali dipende dai colpi di teatro dello «sceriffo di Washington», come lo definisce il suo vice J. D. Vance in uno dei tanti deliri di onnipotenza ai quali ci stanno abituando tutti gli uomini del presidente.
C’è la guerra militare: siamo pronti a farla finire cedendo alle pretese dell’aggressore, paralizzati da una sindrome di Monaco che concede ai russi la licenza di attaccare Mattarella e impone a noi di chiamare “pace” la semplice sostituzione di Hitler con Putin e dei Sudeti con l’Ucraina.
C’è la guerra commerciale: non siamo pronti a combatterla, imprigionati dall’idea farlocca che l’imperatore americano non ricalcherà mai le orme di Nixon, capace di sconvolgere il mondo nel ’71 con l’addio agli accordi di Bretton Woods e il varo di una tassa al 10% sull’import.
La dottrina Trump sui «dazi reciproci» fa strage di tutte le illusioni. A partire da quella di Giorgia Meloni, convinta che il suo rapporto preferenziale con «l’amico Donald» avrebbe garantito all’Italia chissà quale favoritismo.
Non fa sconti a nessuno, il palazzinaro newyorkese pronto a fare di Gaza la Miami del Medio Oriente, di Kiev la Aspen dei Carpazi, di Bruxelles una dépendance di Mar-a-Lago. E di Roma, forse, il suo cortile di casa. Protestino pure, le anime perse del Vecchio continente: l’Europa è un fantasma e i destini del pianeta si decidono nello studio ovale, trasformato di volta in volta nel tempio dei figli di Dio o nel kindergarten dei figli di Musk.
Tutto si tiene nel palazzo del potere trumpiano: la parodia del sacro e l’apologia del profano. I biblici «portatori di pace» — ispirati dalla Bibbia e dal tycoon onnipotente — si guadagneranno il regno dei cieli servendo con gioia sia Dio che Mammona.
Le Trumpnomics è un suicidio per l’America. Sul fronte interno: meno imposte, bassi costi dell’energia, taglio dei tassi di interesse e lotta all’inflazione. Sul fronte internazionale: barriere doganali su tutte le merci importate, per fermare la delocalizzazione e rilanciare la reindustrializzazione.
America First mette insieme cose incoerenti tra loro. I Dottor Stranamore di Washington, nipotini deviati della Scuola di Chicago, dovrebbero sapere che se pensi di coprire con i dazi il minor gettito da taglio delle tasse fai esplodere il deficit, freni la crescita, acceleri l’inflazione e fai salire il costo del denaro.
Non serve l’Economist per capire che quella sui dazi è davvero la guerra più stupida della storia. Le barriere doganali rialzate del 10 e del 25% per Canada, Messico e Cina colpiranno settori come l’auto, l’alimentare, l’edilizia. Faranno lievitare i prezzi al consumo dell’1,2%, costeranno alle famiglie 100 dollari in più al mese, abbatteranno il Pil tra lo 0,24 e lo 0,32%. Con dazi sui prodotti cinesi fino al 100% il caro-prezzi costerebbe alle famiglie 2.600 dollari all’anno, e il deficit federale esploderebbe di 6-7 trilioni di dollari.
Trump, già immobiliarista semi-fallito, spaccia agli americani la solita verità alternativa: «Non è una guerra ai commerci, ma una guerra alla droga!». Al riparo dietro a questa balla, ottiene dai messicani 10 mila agenti in più alla frontiera Sud. Non serviranno a fermare i fiumi di fentanyl che la attraversano: in compenso, come dice Paul Krugman, i dazi sfasceranno un intero sistema produttivo integrato, visto che Messico e Canada sono i primi due mercati di sbocco dell’America, e viceversa.
La Trumpnomics è uno sconquasso per il mondo. La de-globalizzazione è un pericolo reale. Nel 2023 il pianeta ha generato un reddito complessivo di 105.435 miliardi di dollari, contro i 22.822 miliardi del 1990. Il commercio internazionale è passato dal 38,1% al 58% del Pil totale. La globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze nei Paesi più sviluppati, ma ha tolto dalla povertà i Paesi sottosviluppati. Ha generato delocalizzazioni d’impresa e dumping salariale nelle aree più industrializzate, ma ha aumentato il reddito in quelle svantaggiate.
La globalizzazione, negli anni degli animal spirits di Reagan, ha consentito all’America di rafforzare la sua egemonia, a spese del keynesismo progressista e riformista. Il boom degli scambi e del disavanzo commerciale Usa ha sancito il primato globale del dollaro, ma ha favorito anche l’ingresso della Cina nel Wto.
Xi Jinping ha appena annunciato la sua risposta all’attacco americano: tariffe al 15% sull’import dagli Usa di gas liquido, carbone, petrolio, auto, macchine agricole, indagini su Google, Intel, Nvidia.
Oggi assistiamo a una paradossale eterogenesi dei fini: i totem economici delle vecchie destre liberiste, internazionaliste, mercatiste, vengono abbattuti dalle nuove destre sovraniste, nazionaliste, protezioniste.
La Trumpnomics è un danno per l’Europa. Lo sceriffo lo teorizza: «L’Unione ci ha sempre maltrattato sui commerci, adesso basta».
Nel 2023 gli Stati Uniti hanno assorbito il 15% dell’export dell’Eurozona, 450 miliardi di dollari in beni e servizi. Solo le macchine utensili valgono 120 miliardi, la farmaceutica ne vale 80, l’automobile 60. Dazi americani al 10% su tutte le esportazioni Ue ne abbatterebbero il volume del 20%. Per il Made in Europe sarebbe una perdita secca di 90 miliardi.
Gli effetti sulle catene di approvvigionamento sarebbero pesantissimi, su tutti i fronti: gli investimenti calerebbero tra l’1,5 e il 2,5%, il Prodotto lordo scenderebbe dello 0,3% e il numero dei posti di lavoro persi supererebbe le 250 mila unità.
E qui l’America patirebbe una seconda eterogenesi dei fini: punirebbe l’Europa, ma punirebbe ancora di più se stessa. Il minor deflusso di valuta sui beni importati dall’estero darebbe ancora più forza al dollaro, l’aumento dei prezzi innescato dai dazi obbligherebbe le autorità monetarie a tenere alti i tassi di interesse.
E qui, sullo sfondo, già si intuisce il prossimo scontro istituzionale, nel cuore di quella che fu la più grande democrazia del globo. Trump ha già emesso il suo diktat: «Il costo del denaro deve scendere: o ci pensa la Fed, o il problema lo risolveremo noi». Il governatore Powell gli ha risposto: «Decideremo in base ai dati dell’economia, come sempre».
E i dati dell’economia, per ora, dicono che a dicembre i prezzi sono già risaliti al 3%. Anche negli States dobbiamo aspettarci un attacco politico all’autonomia della Banca centrale: un classico delle autocrazie di ogni tempo, dalla Russia di Putin al Brasile di Bolsonaro, dalla Turchia di Erdogan all’Ungheria di Orbán.
In questa sua impetuosa cavalcata verso la nuova «età dell’oro» lo sceriffo è pronto a travolgere tutto e tutti. Compresa l’Italietta meloniana, autarchica e patetica nel suo tentativo di ingraziarsi la super potenza yankee.
È disarmante constatare che la premier — prima di fare dietrofront e schierarsi di nuovo a fianco di Von der Leyen — abbia pensato di poter spuntare a trattativa privata qualche sconticino sulle spese militari o sul parmigiano, in forza dei nostri 66,4 miliardi di export e dei nostri 39 miliardi di surplus commerciale.
Cosa contiamo noi europei per l’America lo spiegano le grottesche affermazioni di Vance, che a valle di un centinaio di ordini esecutivi che violano la Costituzione americana si dice preoccupato per l’Ue che «sta perdendo i suoi valori di libertà». Cosa contiamo noi italiani per Trump lo dimostra quel che disse a Gentiloni premier nel G7 di Taormina del 2017: «Cosa vendete agli americani, a parte le Ferrari?». Per lo Sceriffo siamo tutt’al più un mercatino, di lusso e di nicchia.
E allora, in questo tempo di guerre, delle due l’una: o la presidente del Consiglio capisce che la sua trincea è a Bruxelles, o si riduce al «felice vassallaggio» dal quale l’ha messa in guardia il presidente della Repubblica. In alternativa, c’è sempre il saloon.
(da La Repubblica)
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Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
I SOVRANISTI CONTRO I POTERI INDIPENDENTI
L’horror show trumpiano in onda 24 ore al giorno un risultato almeno lo ha prodotto: fingendo che il cattivo sia solo lui, è possibile chiamare le cose con il loro nome. Deportazioni, dunque, sono quelle a cui assistiamo, e pazienza se qualche anglista improvvisato cerca di spiegare che quel che accade negli Stati Uniti, ma anche nell’Italia del “progetto Albania”, sono banali rimpatri: la realtà è che le rimozioni forzate, con destinazione cella a porte chiuse per tempo indefinito, non sono prerogativa delle democrazie, come il fascismo ha dimostrato.
Il richiamo al passato è però una trappola pericolosa, giacché è oggi, tra campi di detenzione sull’altra sponda dell’Adriatico e torturatori lasciati liberi sfasciando il diritto internazionale, che la storia si riscrive, incartata nelle formule del leguleio Guardasigilli che si fregia d’essere Azzeccagarbugli. Fra pochi giorni la Corte di Giustizia europea sarà chiamata a occuparsi della legittimità della lista di “Paesi sicuri” per i rimpatri a cui l’esecutivo italiano ha dato lo status di legge, dunque fonte primaria del diritto, per superare la giurisprudenza dell’Unione europea, gerarchicamente sovraordinata. Nella consapevolezza che la forzatura potrebbe non passare, il governo sta contemporaneamente macchinando un altro cambio di piano – anch’esso debole giuridicamente – per trasformare i centri albanesi in galere per indesiderati, migranti e forse anche non. È evidente, ormai, che la presunta sicurezza non ha nulla a che vedere con le intenzioni di Meloni e soci: non sui rimpatri di persone comuni, e certamente non in quello di Almasri, responsabile di violenze e abusi inimmaginabili. Il cortocircuito di dichiarazioni e azioni è utile però a indicare la verità: non c’è alcuna realpolitik, o ragion di Stato, che prelude a un interesse superiore, dietro queste mosse.
In un Paese la cui reale emergenza sono l’emigrazione e lo spopolamento – l’anno scorso sono morte più persone di quante ne siano nate, e soltanto le migrazioni dall’estero hanno consentito alla popolazione di restare, dice l’Istat, “in sostanziale equilibrio” – non esiste motivazione pratica per infliggere sofferenze brutali a chi cerca di venire da noi. Dunque per restituire al suo mestiere di aguzzino, con tanto di volo di Stato e festa all’arrivo, un uomo che molti sono in grado di riconoscere come il loro carceriere. Rifiutarsi di consegnare Almasri alla Corte penale internazionale, e trascinare altri 49 disperati, prontamente scarcerati dalla magistratura, nei lager da 700 milioni in Albania, non ha nulla a che vedere con la sicurezza, nostra o altrui. È, invece, soltanto un pretesto per continuare la vera battaglia, quella contro i poteri indipendenti – la magistratura in primis, ma anche il Parlamento, dove infatti Giorgia Meloni non ha ritenuto di presentarsi – in un crescendo eversivo che allontana l’Italia dalla pienezza della vita democratica. Sulla pelle dei più deboli si consumano operazioni di propaganda che alzano la cortina fumogena sulle fratture di un Paese in cui l’economia non cresce, l’occupazione è ferma e mal pagata, la povertà dilaga, la scuola e l’università sono definanziate e sempre più votate al mercato, a dispetto dei principi costituzionali che ne dovrebbero guidare l’azione. Sono gli effetti, assolutamente prevedibili e infatti ampiamente previsti da chi voleva vedere, di decenni di neoliberismo, che ora si intrecciano con l’autoritarismo necessario a nasconderli e a governarli. La guerra ai magistrati, italiani e stranieri, ci allontana dalle priorità e dalla giustizia necessaria “ai deboli” di cui il governo dice sempre di volersi occupare. E riproduce le condizioni di quella torsione antidemocratica che non si può più minimizzare con il pragmatismo necessario ad affrontare inesistenti minacce.
(da ilfattoquotidiano.it)
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Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
“LA DEMOCRAZIA NON FUNZIONA BENE QUANDO C’È TROPPA DISUGUAGLIANZA. UNA VOLTA PARLAVAMO DI OLIGARCHI RUSSI, ORA SI PARLA DI QUELLI AMERICANI”
Inizia con una battuta l’intervento del premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz
all’evento ‘Lotta alle disuguaglianze, contrasto alla povertà e politiche di welfare: il ruolo dei sistemi fiscali’, organizzato da Oxfam a Roma.
“Italia e Stati Uniti stanno soffrendo, anche se in due modi diversi. Spero abbiate un po’ di empatia per gli Usa perché penso che stiamo soffrendo un po’ più di voi”. Per lo studioso, “in America c’è un’incredibile mancanza di compassione, empatia, preoccupazione per i conflitti d’interesse, per le regole base dei governi come la trasparenza”.
Nel suo discorso, Stiglitz ha spiegato che “la nostra società e democrazia, ma anche la nostra economia non funziona bene quando c’è un alto livello di disuguaglianza”. Anche perché “la ricchezza crea altra ricchezza, una volta parlavamo di oligarchi russi, ora si parla di quelli americani”.
Quanto alla questione tasse, ha aggiunto che “a nessuno piace pagarle, ma come qualcun altro ha detto prima di me sono il prezzo che paghiamo per la civiltà” e c’è “un aumento dell’efficienza dell’economia quando sono ben pensate”, creando anche “forme di solidarietà”. Invece, un “sistema di tassazione corrotto mina la solidarietà”, ha proseguito.
Le tasse sono “essenziali per il funzionamento di qualsiasi società democratica” e a lungo “c’è stata una narrativa che se si abbassa la tassazione” si sta meglio e c’è crescita, “si è sperimentato in tal senso, ma l’esperimento è fallito”: “senza regolamentazioni – ha proseguito – il mondo è in pericolo”.
Duro il punto di vista su Musk: “lui dice di essere un ultraliberale, ma senza i milioni di dollari che ha ricevuto dal governo anche con i contratti che ha stipulato” non sarebbe dov’è. E, dato che i governi hanno un ruolo anche nella creazione di un'”economia dell’innovazione”, allora proprio in quest’epoca le “tasse sono importantissime” e bisogna “crearle pensando all’efficienza”.
Due esempi in tal senso sono “quelle sui terreni e sulle risorse naturali: se tassi il lavoro è possibile non si lavori più così tanto, ma se tassi i terreni non è che loro se ne vanno. E anche le risorse sono parti di un Paese, dunque dovrebbero essere tassate”. Un altro caso è quello delle “tasse sull’inquinamento”, importanti “in tempi di cambiamento climatico”. Tra le idee illustrate da Stiglitz, anche quella per una “tassa digitale”
(da agenzie)
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Febbraio 15th, 2025 Riccardo Fucile
NOI CONSIDERIAMO I MIGRANTI ECONOMICI IN ARRIVO DA NOI DEI PRIVILEGIATI CAPRICCIOSI, IN TUNISIA CONSIDERANO I MIGRANTI ECONOMICI UNA BENEDIZIONE DEL CIELO
Il mondo è strano: gli africani vengono in Italia alla ricerca di un futuro migliore e, alla ricerca di un futuro migliore, i pensionati italiani vanno in Africa. Da qualche giorno, le cronache insistono sui nostri anziani volati a migliaia in Tunisia (noialtri si sbarca un po’ più comodamente degli africani a Lampedusa) per una ricca vecchiaia. Il clima è ottimo, il mare meraviglioso, il costo della vita irrisorio, la tassazione al cinque per cento contro la media del trenta da noi.
L’emigrazione è cominciata almeno una decina di anni fa, e infatti oggi ad Hammamet, la città dell’esilio di Bettino Craxi, vivono circa seimila italiani.
Altra grande differenza fra i migranti diretti laggiù e quelli diretti quassù è che, mentre noi consideriamo i migranti economici in arrivo da noi dei privilegiati un po’ capricciosi, che non s’accontentano di quello che hanno, in Tunisia considerano i migranti economici in arrivo da loro una benedizione del cielo, poiché lasciano un bel gruzzolo
Non pochi sono i pensionati della pubblica amministrazione che, come tutti, raccontano la felice fuga dalle draculesche tasse italiane. E questo a me pare il magnifico nel magnifico, poiché è con le draculesche tasse italiane che gli si è pagato lo stipendio per tutta la vita.
E, senza le draculesche tasse italiane, magari qualcuno di loro sarebbe rimasto senza lavoro, senza stipendio e ora senza pensione esentasse. È così che gli italiani si credono buoni mentre credono cattiva l’Italia.
(da La Stampa)
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